Il danno da ritardo della Pubblica Amministrazione e le sue affinità con la responsabilità precontrattuale
All’espressione danno da ritardo possono sostanzialmente ricondursi tre differenti fattispecie, ovvero quella di adozione tardiva del provvedimento, sia esso di accoglimento o di rigetto, e quella consistente nella mera inerzia della p.a., la quale non ha adottato alcun provvedimento nel termine di durata massima del procedimento amministrativo.
L’ipotesi della tardiva emanazione del provvedimento amministrativo favorevole non pone particolari problemi, in quanto la p.a., sebbene tardivamente rispetto ai termini richiesti, afferma la spettanza del bene della vita in capo al privato. In tal caso, il risarcimento avrà certamente ad oggetto il pregiudizio patito dall’interessato per non aver ottenuto tempestivamente il bene e comprenderà, in particolare, sia la perdita subita che il mancato guadagno conseguenza del ritardo.
Maggiori problematiche sorgono invece con riferimento ai casi di contegno meramente omissivo della p.a. e soprattutto in caso di adozione tardiva del provvedimento sfavorevole, nei quali si prescinde dalla verifica circa la titolarità del bene della vita o addirittura si assiste all’accertamento della non spettanza del bene stesso.
Secondo la giurisprudenza prevalente, si deve escludere che il rispetto dei termini procedimentali da parte della p.a. possa ex se dare luogo a fattispecie risarcitorie, in modo sconnesso rispetto all’accertata spettanza dell’utilità finale.
Si osserva, a riguardo, che nell’ipotesi di adozione tardiva di provvedimento legittimo ma sfavorevole, l’eventuale danno subito dal cittadino non è riconducibile al comportamento tardivo dell’ente pubblico, quanto alla decisione di diniego adottata dalla p.a. che, essendo legittima, esclude il risarcimento.
Tale concezione esclude pertanto il risarcimento del danno “da mero ritardo”, ritenendo che il mero superamento dei termini del procedimento non sia di per sé idoneo a configurare un’ipotesi di responsabilità risarcitoria in capo alla p.a. resasi inadempiente, laddove non sussistano ulteriori elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.
Ai fini dell’affermazione della responsabilità risarcitoria dell’ente pubblico, si precisa, non è sufficiente la violazione dei termini del procedimento in quanto la stessa è configurabile alla stregua di un c.d. danno evento, la cui lesione per poter essere risarcita richiede necessariamente l’allegazione e la prova da parte dell’interessato della sussistenza del c.d. danno conseguenza, ovvero dei pregiudizi di natura patrimoniale e non derivanti, quale conseguenza diretta ed immediata ex art. 1223 c.c., dalla condotta tardiva o inerte della p.a.
Per tale giurisprudenza il suddetto orientamento trova conferma nella stessa lettera della legge e, in particolare, nell’art. 30 comma 4 c.p.a., il quale prevede testualmente che il danno sia soltanto ‘’eventuale’’ e che pertanto l’attore debba dare dimostrazione della sua esistenza.
Nello stesso senso, poi, l’art. 2 bis Legge n. 241/1990, nel disciplinare il danno da ritardo, precisa che trattasi di danno prodottosi “in conseguenza” della violazione del termine di conclusione del procedimento, escludendo quindi la risarcibilità di un danno in re ipsa.
Di diverso avviso è invece altra giurisprudenza, la quale si mostra favorevole al risarcimento del danno da mero ritardo, ovvero slegato dal provvedimento dell’ente pubblico, sia esso di diniego o del tutto assente.
Tale danno, nello specifico, si identifica nel pregiudizio patito dal privato per essere stato raggiunto da un provvedimento sfavorevole in ritardo rispetto ai termini prescritti, con conseguente lesione della libertà di autodeterminazione negoziale, nell’esercizio della quale egli avrebbe sicuramente potuto progettare diversamente la propria attività economica e giuridica qualora avesse conosciuto tempestivamente l’esito negativo del procedimento amministrativo.
All’interno del filone favorevole al risarcimento del danno da mero ritardo sono rinvenibili due distinte posizioni.
Per la teoria del “contatto procedimentale”, l’assoluta pregnanza della relazione esistente tra cittadino e p.a. procedente è tale da non consentire la riconducibilità dell’ente pubblico agli schemi della responsabilità aquilana, dovendo al contrario rifarsi al modello della responsabilità contrattuale, con ciò che ne deriva in termini di disciplina. Secondo tale indirizzo, in particolare, il ristoro deve essere parametrato alla lesione dell’interesse procedimentale di cui è portatore il privato e che trae la propria fonte dal contatto “qualificato” instaurato con la p.a., nonché liquidato in via equitativa.
Avverso la suddetta tesi si pongono tuttavia una serie di argomentazioni: in primo luogo, si osserva, essa finisce per collidere con il modello di responsabilità aquilana della p.a. implicitamente e generalmente accolto nel nostro ordinamento, così come risulta chiaramente dalla lettera dell’art. 2 bis della Legge n. 241/1990 e come si evince dall’art. 30 comma 4 del Codice del Processo Amministrativo.
Si evidenzia, d’altra parte, che la corresponsione di una somma di danno avulsa dalla valutazione della p.a. sulla spettanza del bene della vita, e indipendente da qualsivoglia profilo di colpa della p.a., rientra nella diversa fattispecie normativa prevista dall’art. 2 bis, comma 1 bis, Legge n. 241/1990, il quale sancisce il diritto dell’interessato ad ottenere un indennizzo da ritardo.
Nell’ambito di coloro i quali aderiscono alla tesi dell’ammissibilità del danno da mero ritardo è possibile individuare un secondo indirizzo interpretativo, per il quale non è in realtà corretto discorrere di un mero “interesse procedimentale” risarcibile in re ipsa per il solo fatto del decorrere del tempo, in quanto non è ragionevole considerare il tempo come bene autonomo meritevole di per sé di essere risarcito.
Si osserva, in particolare, che l’inosservanza delle regole di correttezza e buona amministrazione, insita nella violazione delle regole di tempestiva conclusione del procedimento, può certamente rappresentare la produzione di pregiudizi ulteriori rispetto alla mera perdita di tempo e indipendenti dall’effettiva spettanza del bene finale.
Per tale concezione il danno meritevole di essere risarcito consiste nel c.d. “interesse contrattuale negativo”, inteso come l’interesse all’integrità e all’intangibilità della propria sfera giuridico/patrimoniale e dunque a non essere coinvolti in trattative inutili o a concludere contratti invalidi o inefficaci.
Tanto premesso, evidenzia la dottrina, la parametrazione del risarcimento del danno al c.d. interesse contrattuale negativo consente di cogliere una spiccata assonanza con gli schemi tipici della responsabilità precontrattuale della p.a.
La giurisprudenza tradizionale escludeva che in capo alla p.a. potesse affermarsi la c.d. colpa in contrahendo, sostenendo che, anche dopo l’individuazione del contraente, l’ente pubblico fosse titolare di un potere discrezionale in ordine alla valutazione circa la convenienza e rispondenza all’interesse pubblico del contratto che si accinge a stipulare; il privato, quindi, non vanterebbe in tale fase alcun diritto soggettivo risarcibile, quanto un mero interesse legittimo al corretto esercizio del potere discrezionale.
Tale orientamento è ad oggi superato: nello svolgimento dell’attività amministrativa, infatti, la p.a. è tenuta a rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico, anche quelle generali dell’ordinamento civile, le quali impongono di agire con lealtà e correttezza in ogni fase del procedimento di formazione del contratto, dalle trattative fino alla sua esecuzione.
Anche la p.a., dunque, come ogni altro soggetto dell’ordinamento, può certamente andare incontro ad ipotesi di responsabilità precontrattuale nel caso in cui si renda responsabile di una violazione del dovere di buonafede sancito dal codice civile. Ammessa la configurabilità di tale responsabilità in capo alla p.a., inizialmente si riteneva tuttavia che la stessa potesse sussistere solo nel caso di trattativa privata, mentre se ne escludeva la configurabilità nelle ipotesi di pubblico incanto per mancanza di quella necessaria relazione intersoggettiva tra amministrazione e privato, dalla quale potesse derivare l’affidamento circa la conclusione dell’affare.
Attualmente, per contro, sulla base di una diversa interpretazione del dovere di buonafede, quale espressione del generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Costituzione, e dunque quale strumento per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, e non solo quale obbligo gravante sulle parti di una trattativa contrattuale, si è pervenuti a riconoscerne l’applicazione indipendentemente dalla sussistenza di una formale trattativa e a maggior ragione a prescindere dal fatto che essa abbia raggiunto un livello tale da generare una fondata aspettativa circa la conclusione del negozio. Detto questo, affinché sorga la responsabilità precontrattuale della p.a. sono comunque necessari diversi presupposti: in primis è imprescindibile un comportamento della p.a. oggettivamente contrario ai doveri di diligenza e lealtà posto in essere con dolo o colpa; d’altra parte, si impone la necessità di provare sia il danno evento, ossia la lesione alla libertà di autodeterminazione negoziale, sia il danno conseguenza, ossia le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate, nonché i relativi rapporti di causalità tra i danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.
Tanto premesso, a seguito del riconoscimento della risarcibilità degli interessi legittimi si è pervenuti alla distinzione tra responsabilità precontrattuale pura e responsabilità precontrattuale spuria, due forme di responsabilità certamente diverse dal punto di vista ontologico ma accomunate sotto l’aspetto cronologico, intervenendo entrambe nella fase di formazione del negozio.
La prima, in particolare, si identifica con quella scaturente dall’estensione alla p.a. delle norme dettate dal codice civile e, pertanto, sussiste nel caso di violazione dei canoni di comportamento privatistici ex articoli 1337 e 1338 c.c., ovvero in presenza di una condotta violativa del dovere di buonafede; la seconda, invece, consegue all’adozione di provvedimenti in contrasto con le norme ed i principi che regolano l’attività amministrativa.
Nella responsabilità precontrattuale il danno risarcibile va parametrato all’interesse contrattuale negativo: stante le esigenze di probabile verificazione che si pongono con riferimento al lucro cessante (o mancato guadagno), infatti, essa, presupponendo (in linea di massima) l’inesistenza di un contratto valido ed efficace, impedisce che tale particolare categoria di danno patrimoniale possa essere determinato facendo riferimento al profitto che si sarebbe ottenuto dall’esecuzione del contratto, ovvero dalla stipulazione di un negozio valido ed efficace, imponendo al contrario di procedere alla valutazione del suddetto pregiudizio avendo riguardo al vantaggio che sarebbe stato conseguito nel caso in cui non si fosse partecipato alla trattativa infruttuosa.
Lo stesso, in pratica, secondo l’orientamento citato, avviene con riferimento al danno da mero ritardo dalle p.a., il quale, così come la responsabilità precontrattuale, deve essere risarcito sulla base del criterio dell’interesse contrattuale negativo.