«Nella fattispecie, come riferito nella esposizione in fatto, a seguito della sottoposizione della dipendente a procedimento penale con l’imputazione di peculato – conclusosi con la condanna definitiva alla pena detentiva di anni uno e mesi dieci, oltre alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, non scontate in virtù del beneficio della sospensione condizionale – tenuto conto della natura del reato, l’U.S.L. adottava il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio in attesa della pronuncia definitiva, sospensione protrattasi per oltre sei anni.
Intervenuta la condanna penale, passata in giudicato, a conclusione del procedimento disciplinare è stata irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dalla qualifica per mesi tre.
Non l’irrogazione, ma l’effettiva esecuzione della predetta sanzone disciplinare è stata censurata in prime cure, in quanto la sanzione medesima sarebbe stata “assorbita” dalla ben maggiore durata della sofferta sospensione cautelare dal servizio, con ogni conseguenza sia sotto il profilo dell’inesistenza, allo stato, di una sanzione da eseguire, sia sotto il profilo della invocata corresponsione degli emolumenti non percepiti durante il periodo di sospensione cautelare eccedente la durata della sanzione irrogata, oltre interessi sulla somma rivalutata.
La pretesa della ricorrente, odierna appellante, si fonda sulla asserita applicabilità dell’art. 26 della normativa regolamentare U.S.L., corrispondente all’art. 96 del T.U. n. 3 del 1957.
Tale pretesa è destituita di fondamento.
Come, infatti, correttamente rilevato dai primi giudici, nella fattispecie in esame non ricorre l’applicazione dell’art. 96 del T.U. cit., che ha come diretto ed esclusivo riferimento i casi regolati dall’art. 92 T.U. (sospensione facoltativa dal servizio “prima che sia esaurito o iniziato il procedimento disciplinare”), bensì l’art. 97, che, riferendosi all’art. 91, ha come suo presupposto “la pendenza di un procedimento penale”.
La condanna a pena detentiva ancorché non scontata, causando l’interruzione, per colpa dell’impiegato, del sinallagma tra prestazione di lavoro e retribuzione, vieta l’erogazione del trattamento economico non percepito dal dipendente durante il periodo di sospensione; la susseguente riammissione in servizio, in presenza di condanna penale, si risolve in una cessazione degli effetti dell’originario provvedimento, con efficacia ex tunc, posto che la misura della “restituito in integrum” può ammettersi nelle ipotesi tipiche individuate nell’art. 97 T.U. n. 3/1957 (e, cioè, sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o l’impiegato non lo ha commesso).
Nel caso di specie, come giustamente rilevato dal giudice di prime cure, non ricorre l’applicazione del secondo comma dell’art. 96 cit., dato che il provvedimento di sospensione è stato adottato in relazione al primo comma dell’art. 91, che ha come presupposto la “pendenza di un procedimento penale”, mentre l’art. 96 ha come suo diretto ed esclusivo riferimento i casi regolati dall’art. 92 (“sospensione facoltativa dal servizio prima che sia esaurito o iniziato il procedimento disciplinare”).
Del resto, come pure sottolineato dai primi giudici, sarebbe irragionevole che, durante il tempo necessario allo svolgimento del processo penale, in cui il dipendente sia imputato di gravi reati, l’Amministrazione, a fronte della necessaria astensione dal servizio e nonostante la condanna penale non seguita dalla destituzione, ma da una sanzione di durata inferiore alla sospensione stessa, fosse poi costretta alla corresponsione degli assegni non percepiti.
Consegue da ciò che la sospensione conserva per il periodo in cui è stata disposta tutta la sua efficacia con particolare riguardo all’esclusione del diritto, da parte del dipendente, alla rstituzione degli assegni diversi da quello alimentare non corrisposti».
Consiglio di Stato, sez. V, 16 luglio 2007, n. 4026