In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio.
Sfugge a tale principio il caso in cui l’eccessiva durata della causa sia determinata dalla stessa parte soccombente la quale abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui alla succitata norma – ovvero mirando proprio a percepire l’indennizzo per l’eccessiva durata del processo – o comunque risulti la piena consapevolezza – incompatibile con l’ansia connessa all’incertezza sull’esito del processo – dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità.
Tuttavia, dell’esistenza di ciascuna di queste situazioni, costituenti abuso del processo e perciò comportanti altrettante deroghe alla regola posta dalla norma, secondo il generale principio dell’art. 2697 c.c., deve dare prova la parte che la eccepisce per negare la sussistenza dell’indicato pregiudizio, dovendo altrimenti ritenersi che esso si verifica di regola come conseguenza della violazione stessa e non abbisogna di essere provato sia pure attraverso elementi presuntivi (Cass. Civ n. 7139/2006).
Cassazione penale, sez. VI, 9 gennaio 2012, n. 35