“Ai fini dell’estensione del fallimento del titolare dell’impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del “nomen” della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell’impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla “affectio societatis”. (Cass. civ., sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580).
Per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell’ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse.
Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “affectio familiaris”, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Cass. civ., sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770).
A tali principi – che il Collegio ribadisce e fa propri – si è correttamente attenuta la corte di merito nell’evidenziare che, oltre alla cointestazione di tre conti correnti affidati, utilizzati per l’esercizio dell’impresa; alla prestazione sistematica di fideiussioni a garanzia delle esposizioni dei soli conti intestati al D.L.; alla comproprietà della maggior parte degli immobili utilizzati nell’esercizio dell’impresa; alla costituzione di ipoteca volontaria a favore di banche creditrici e alla collaborazione prestata dalla I. alla gestione dell’impresa, sussisteva, nella concreta fattispecie, l’esteriorizzazione del vincolo”.
Cassazione civile, sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829