Il figlio nato disabile non ha diritto al risarcimento per il fatto che la madre non ha praticato l’aborto in quanto non informata dai sanitari.
Non è configurabile nel nostro ordinamento giuridico il diritto del nascituro a richiedere al medico il risarcimento del danno per la nascita malformata, poiché non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario – il quale abbia erroneamente e colposamente omesso di praticare l’aborto terapeutico – e le sofferenze psicofisiche cui il figlio venuto in vita è destinato a patire nel corso della sua esistenza.
L’ordinamento non riconosce il diritto alla non vita: né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre ad abortire, leso dalla mancata o non corretta informazione sanitaria (nella fattispecie la gestante non praticò l’aborto a causa di erronee interpretazione delle analisi finalizzate a verificare la sindrome di Down nel feto).
Non è possibile estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni – progressivamente più restrittive nel tempo – posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività.
E se il contratto tra la madre ed il medico ha effetti protettivi verso i terzi (cfr. Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n.14488, che tuttavia nega il diritto del figlio al risarcimento), non sarebbe coerente escluderne il bambino: facile inferenza che, se vale a giustificare la titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte dei nato affetto da anomalie cagionate direttamene dal sanitario, non supera, ancora una volta, l’ostacolo dell’inesistenza di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza.
Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art. 6 della legge 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire.
E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell’illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, dei metodo casistico (case law system), nell’ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell’art. 2043 cod. civ. (con l’espressione introduttiva: “qualunque fatto”…) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima. II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni dei feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell’apporto causale nei due casi.