Lo Stato italiano non può aprioristicamente rifiutare intese con associazioni ateistiche o agnostiche
In tema di rapporti tra lo Stato Italiano e le confessioni religiose diverse da quella cattolica, la deliberazione del Consiglio dei Ministri che, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. l), della legge n. 400 del 1988, rifiuti di aprire le trattative per l’intesa ex art. 8, terzo comma della Costituzione, opposto dal Governo ad un’associazione di orientamento ateistico, non ha natura di atto politico ed è, quindi, sindacabile dal giudice amministrativo.
L’interesse dell’organizzazione (nella specie, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – UAAR) che chiedeva di trattare riposa direttamente sui precetti costituzionali che fondano i diritti di libertà religiosa. Diversamente negare la sindacabilità del diniego di trattativa equivarrebbe a privare di tutela il soggetto richiedente, aprendo la strada ad una discrezionalità foriera di discriminazioni. L’attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non può quindi essere rimessa alla assoluta discrezionalità del potere dell’esecutivo, che è incompatibile con la garanzia di eguale libertà di cui all’art. 8, comma 1.
Osserva la Suprema Corte:
«Il principio di laicità dello Stato, “che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della repubblica” (Corte Cost. 203/1989) implica che in un regime di pluralismo confessionale e culturale sia assicurata l’eguale libertà delle confessioni religiose.
Al tempo stesso i rapporti tra Stato e confessione religiosa sono regolati secondo un principio pattizio, con la stipula delle intese.
Anche se l’assenza di una intesa con lo Stato non impedisce di professare liberamente il credo religioso, è in funzione dell’attuazione della eguale libertà religiosa che la Costituzione prevede che normalmente laicità e pluralismo siano realizzati e contemperati anche tramite il sistema delle intese stipulate con le rappresentanze delle confessioni religiose.
[…]
La Corte costituzionale ha già detto (v. ancora Cost. 346/02) che all’assenza, nell’ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le “confessioni religiose” si può sopperire con i “diversi criteri, non vincolati alla semplice autoqualificazione (cfr. sentenza n. 467 del 1992), che nell’esperienza giuridica vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali”. E ancor prima (C. Cost. 195/93) aveva ritenuto che la natura di confessione può risultare “anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione”.
È nel giusto quindi la sentenza impugnata quando sostiene che rientra tutt’al più nell’ambito della discrezionalità tecnica l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa.
Posto ciò, è da credere che sia errato il ricorso laddove pretende che la caratteristica di legge rinforzata che è propria del procedimento di approvazione legislativa dell’intesa sia indice di potestà insindacabile.
È vero il contrario.
Il procedimento di cui all’art. 8 è in funzione […] della difesa delle confessioni religiose dalla lesione discriminatoria che si potrebbe consumare con una immotivata e incontrollata selezione degli interlocutori confessionali; è in funzione anche della migliore realizzazione di quell’equilibrio di valori che si è prima tentato di tratteggiare.
La posizione del richiedente l’intesa mira dunque a ottenere che il potere di avviare la trattativa sia esercitato in conformità alle regole che l’ordinamento impone in materia, che attengono in primo luogo all’uso di canoni obbiettivi e verificabili per la individuazione delle confessioni religiose legittimate.
Il fondamento dell’interesse fatto valere riposa direttamente sui precetti costituzionali che fondano i diritti di libertà religiosa.
L’attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non può quindi essere rimessa alla assoluta discrezionalità del potere dell’esecutivo, che è incompatibile con la garanzia di eguale libertà di cui all’art. 8, comma 1.
Né lo Stato può trincerarsi dietro la difficoltà di elaborazione della definizione di religione. Se dalla nozione convenzionale di religione discendono conseguenze giuridiche, è inevitabile e doveroso che gli organi deputati se ne facciano carico, restando altrimenti affidato al loro arbitrio il riconoscimento di diritti e facoltà connesse alla qualificazione».