«L’articolo 572 del vigente codice penale, rispetto all’analoga norma contenuta nel codice del 1989, ha ampliato la categoria delle persone che possono essere vittima di maltrattamenti, aggiungendo nella previsione normativa ogni persona sottoposta all’autorità dell’agente, ovvero al medesimo affidata per ragioni d’istruzione, educazione, ecc..
Sussiste il rapporto d’autorità ogni qualvolta una persona dipenda da altra mediante un vincolo di soggezione particolare (ricovero, carcerazione, rapporto di lavoro subordinato, ecc). Invero non v’è dubbio che all’imprenditore o a chi lo rappresenti spetti l’autorità sui propri dipendenti riconosciuta da precise norme di legge (artt 2086, 2106 e 2134 cod civile).
Il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale teste richiamata di “persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente.
La fattispecie in esame a differenza del maltrattamento in famiglia non richiede la convivenza ma la semplice sussistenza di un rapporto continuativo. In definitiva, gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell’ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, possono configurare anche il delitto di maltrattamenti (Cass. 33624 del 2007).
Nella fattispecie le vessazioni si erano protratte per tutta la durata del rapporto e consistevano oltre che in ripetute e petulanti molestie sessuali, nell’abuso sessuale […] nonchè nel rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro e nella pretesa di corrispondere la retribuzione in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga».
Art. 572. Maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
(2 comma abrogato)
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.