Patto di non concorrenza con il lavoratore subordinato: il corrispettivo deve essere adeguato alla riduzione delle sue capacità di guadagno
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Il patto di non concorrenza costituisce una fattispecie negoziale autonoma e si configura come un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e questi si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore (Cass. n. 2221 del 1988).
Considerato che la regola è che, alla cessazione del rapporto, il lavoratore recuperi la piena ed assoluta libertà di collocare le proprie prestazioni in ogni settore del mercato e della produzione, affinché la libertà del lavoratore - pur se assoggettabile a condizionamenti in ossequio alla regola dell’autonomia contrattuale - non sia essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del stesso, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale, il legislatore ha dettato, nell’ambito della generale disciplina ex art. 2596 c.c., in tema di limitazioni (legali o volontarie) alla concorrenza, una specifica regolamentazione che porta a differenziare integralmente il lavoratore subordinato da tutti gli altri soggetti pur essi destinatari del divieto di concorrenza (cfr. al riguardo: art. 1751 bis c.c.; art. 2557 c.c.; artt. 2301 e 2390 c.c.; così Cass. n. 5691 del 2002).
In ragione di ciò, l’art. 2125 c.c., comma 1, ha subordinato la validità del patto di non concorrenza a specifiche condizioni - espressamente indicate dalla norma - di forma, di corrispettivo, di limiti di oggetto, di tempo e di luogo, presidiando l’eventuale violazione con la più grave delle sanzioni negoziali: la nullità del patto.
Il patto di non concorrenza ovvero l’accordo con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è quindi nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
Corrispettivo economico del patto di non concorrenza
In particolare per quanto riguarda il corrispettivo, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. ovvero sia determinato o determinabile. Se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell’intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale.
Art. 2125 Codice Civile
Patto di non concorrenza.
Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.
Cassazione civile, sez. lavoro, 1 marzo 2021, n. 5540