Per pratiche commerciali – assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo – si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente “correlati” alla “promozione, vendita o fornitura” di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all’instaurazione dei rapporti contrattuali.
Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno scorretta, il comma 2 dell’art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se “è contraria alla diligenza professionale” ed “è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”.
Nella trama normativa, tale definizione generale di pratica commerciale scorretta si scompone in due diverse categorie: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25).
Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. liste nere) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni speciali di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla “diligenza professionale” nonché dalla sua concreta attitudine “a falsare il comportamento economico del consumatore”.
Il tema inedito posto all’attenzione del Collegio è quello di comprendere se il citato art. 20, comma 2, vada intesa come una mera clausola “ricognitiva” delle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive – rispetto alle quali la definizione generale sarebbe rilevante solo a fini interpretativi – oppure integri essa stessa una “fattispecie” di illecito, dotata di autonoma portata disciplinare, cui attingere in via residuale.
Ebbene, la lettura sistematica del titolo III della Parte seconda del codice del consumo rende certi che le pratiche commerciali scorrette costituiscono un genus unitario di illecito, i cui elementi costitutivi sono definiti dall’art. 20, comma 2. All’interno della fattispecie generale, il legislatore ha “ritagliato” – per finalità di semplificazione probatoria – due sottotipi (e all’interno di ciascuno di essi, due ulteriori fattispecie presuntive) che si pongono in rapporto di specialità (per specificazione) rispetto alla prima.
A questi fini, in ordine di successione ermeneutica:
- Occorre prima stabilire se la condotta contestata possa essere inquadrata all’interno delle “liste nere” (di cui agli articoli 23 e 26): in caso di risposta positiva, la pratica dovrà qualificarsi scorretta senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla “diligenza professionale” e la sua concreta attitudine “a falsare il comportamento economico del consumatore”;
- Qualora la pratica non sia ricompresa in nessuna delle due fattispecie presuntive, va accertato se ricorrono gli estremi della pratica commerciale ingannevole (artt. 21 e 22) oppure aggressiva (artt. 24 e 25): in tal caso, la verifica di ingannevolezza ed aggressività integra di per sé la contrarietà alla “diligenza professionale”;
- Ove i precedenti tentativi di sussunzione non risultino percorribili, non resta che ricorrere alla norma di chiusura sussidiaria di cui all’art. 20, comma 2: la mancata caratterizzazione dell’illecito in termini di ingannevolezza e aggressività, impone di accertare in concreto il grado della “specifica competenza e attenzione” che “ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti”, tenuto conto delle peculiarità del caso di specie.
Art. 20 Codice del Consumo
1. Le pratiche commerciali scorrette sono vietate.
2. Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.
3. Le pratiche commerciali che, pur raggiungendo gruppi più ampi di consumatori, sono idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico solo di un gruppo di consumatori chiaramente individuabile, particolarmente vulnerabili alla pratica o al prodotto cui essa si riferisce a motivo della loro infermità mentale o fisica, della loro età o ingenuità, in un modo che il professionista poteva ragionevolmente prevedere, sono valutate nell’ottica del membro medio di tale gruppo. È fatta salva la pratica pubblicitaria comune e legittima consistente in dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non sono destinate ad essere prese alla lettera.
4. In particolare, sono scorrette le pratiche commerciali:
a) ingannevoli di cui agli articoli 21, 22 e 23 o
b) aggressive di cui agli articoli 24, 25 e 26.
5. Gli articoli 23 e 26 riportano l’elenco delle pratiche commerciali, rispettivamente ingannevoli e aggressive, considerate in ogni caso scorrette.
Massima tratta da: Estratto della sentenza
Consiglio di Stato sez. VI, 14 aprile 2020, n. 2414