Perché si renda applicabile l’art. 48 c.p. ai reati di falso, è necessario che l’autore immediato (il soggetto ingannato) non si limiti a esprimere un’argomentazione errata, ma compia un’attestazione falsa.
Le ipotesi possibili sono cinque:
- il soggetto ingannato si limita a riprodurre la dichiarazione del mentitore, documentandola,
- ovvero, pur ponendola espressamente a premessa di una propria argomentazione, non giunge a conclusioni errate;
- il soggetto ingannato, non solo riproduce la dichiarazione del mentitore, ma la utilizza anche come premessa di un’argomentazione, che sbocchi in una conclusione errata;
- il soggetto ingannato descrive o attesta lo stesso fatto rappresentato nella dichiarazione del mentitore, ma senza far cenno di tale dichiarazione;
- il soggetto ingannato descrive o attesta una situazione più ampia di quella rappresentata dal mentitore.
Nelle prime due ipotesi non può trovare applicazione l’art. 48 c.p., in quanto l’attestazione del soggetto destinatario dell’inganno non é falsa: non è falsa nel caso a), perché essa rappresenta un fatto effettivamente verificatosi, vale a dire la dichiarazione del mentitore; non lo è nel caso b), perché la falsità della dichiarazione del mentitore non si estende alla conclusione del ragionamento in cui funge da premessa.
L’art. 48 c.p., non può trovare applicazione neppure nel caso sub c), perché, sebbene siano false sia la dichiarazione del mentitore sia la conclusione del soggetto ingannato, costui commette un errore non un falso. La proposizione che viene assunta come premessa del ragionamento dal soggetto ingannato, infatti, non è immediatamente descrittiva del fatto rappresentato dal mentitore, bensì dell’intervenuta dichiarazione di costui: è un’attestazione dell’attestazione; ed è vera.
La falsità della conclusione dell’argomento, quindi, non dipende dalla falsità della premessa (che è vera), bensì dall’invalidità dell’argomento, nel quale la conclusione viene tratta come conseguenza necessaria dell’attestazione del mentitore, senza considerare la possibilità che questa sia falsa. In altri termini, si assume come premessa il fatto che è intervenuta l’attestazione del mentitore e si trae la conclusione come se la premessa fosse direttamente il fatto rappresentato in quell’attestazione.
In tutte queste ipotesi è, invece, configurabile il reato previsto dall’art. 483 c.p. o quelli previsti dagli artt. 495, 496 e 567 co. 2’ c.p., ove ne ricorrano i presupposti specifici. Si tratta, infatti, di fattispecie nelle quali si richiede la falsità di una dichiarazione proveniente da un privato, che viene recepita come tale nell’attestazione di un pubblico ufficiale, il quale non commette, neppure oggettivamente, alcuna falsità.
Nell’ipotesi d), il soggetto ingannato descrive come se fosse stato da lui direttamente constatato il medesimo fatto che ha, invece, appreso dalla dichiarazione mendace del mentitore. Non pare possa dubitarsi che in questo caso non si rende applicabile l’art. 48 c.p.(Cass., sez.V, 15.4.1980, De Benedictis), perché è lo stesso soggetto ingannato a commettere una falsità ideologica, nel momento in cui fa apparire come da lui percepiti i fatti, che gli sono stati riferiti.
Risulta, invece, applicabile l’art. 48 c.p. nell’ipotesi e), perché in essa la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi dell’inganno che determina nel soggetto ingannato una conoscenza errata e, di conseguenza, una falsa attestazione da lui proveniente, anche se solo oggettivamente. Ciò non esclude peraltro l’applicabilità anche dell’art. 483 c.p., quando, come nel caso in esame, la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato.