L’art. 2710 c.c., che attribuisce efficacia probatoria tra imprenditori, per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, ai libri regolarmente tenuti, individua l’ambito operativo della sua speciale disciplina nel riferimento, necessariamente collegato, all’imprenditore ed al rapporto di impresa, sicché non può trovare applicazione con riguardo al curatore del fallimento, il quale, agendo in revocatoria nella sua funzione di gestione del patrimonio del fallito, assume, rispetto ai rapporti tra quest’ultimo ed il creditore, la qualità di terzo.
Con la sentenza in epigrafe il Supremo Collegio si discosta dal precedente orientamento che consentiva alla Curatela fallimentare la produzione a fini probatori delle scritture contabili, ed in particolare come prova di pagamento del terzo nel giudizio di revocatoria di cui all’art. 67, comma 2, L. Fall.
Ad avviso della Corte l’art. 2710 cod. civ., secondo cui i libri contabili regolarmente tenuti possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, non può trovare applicazione anche in relazione al curatore fallimentare, poiché la norma opererebbe, per l’appunto, “soltanto tra imprenditori che assumano la qualità di controparte in relazione a rapporti di impresa”.
La precedente giurisprudenza, diversamente, riconosceva al Curatore fallimentare questa possibilità, ritenendo che la ratio sottesa alla norma di riferimento, ovvero la garanzia di una posizione di parità tra soggetti posti tutti in condizione di “contrastare la prova offerta dal primo a mezzo del raffronto con le proprie scritture”, non subisse, a cagione di tale interpretazione estensiva, alcuna limitazione.
In particolare la sent. n. 28299 del 2005, pur attribuendo una posizione di terzietà al Curatore che agisce in revocatoria, motivava l’applicabilità dell’art. 2710 cod. civ. anche a tale figura, in base alle seguenti considerazioni: “a) sul piano letterale, la norma in oggetto si riferisce alla “prova tra imprenditori” e non già alla “prova nelle cause tra imprenditori”; b)sul piano logico, la ratio della limitazione soggettiva della regola fissata dalla norma si giustifica con l’esigenza di garantire la parità delle parti, siccome ambedue obbligate alla tenute della contabilità, così consentendo alla controparte di provare la contrastante o inesistente annotazione, a sua volta producendo i propri libri contabili; c) nel caso del Curatore che agisca in revocatoria, la prova verte su di un rapporto sorto tra imprenditori in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento; d) la posizione della controparte, imprenditore in bonis, è salvaguardata, potendo contrastare l’assunto del Fallimento a mezzo del raffronto con le proprie scritture”.
La sentenza in esame, conformemente alla statuizione di secondo grado, restringe l’ambito applicativo della norma (e la speciale disciplina probatoria derogatrice al principio generale per cui i documenti provenienti da una parte non possono far prova a favore della stessa) esclusivamente all’imprenditore e al rapporto di impresa, attribuendo precipua rilevanza alla indubbia posizione di terzietà rivestita dal Curatore, il quale agisce “non in via di successione nel rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione istituzionale di gestione del patrimonio del fallito a tutela dei creditore”.
A sostegno di siffatta interpretazione la Corte cita recente giurisprudenza che, in caso di ammissione al passivo, nel quale il Curatore è parimenti terzo, non riconosce all’imprenditore la possibilità di avvalersi della speciale efficacia probatoria dell’art. 2710 c.c., nel giudizio di opposizione allo stato passivo (v. Cass., sez. I, 9 maggio 2011, n. 10081; Cass., sez. unite, 20 febbraio 2013, n. 4213).
Cassazione civile, sez. I, 9 maggio 2013, n. 11017