A norma dell’art. 1, 2 comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare) non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento […] gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
In particolare, per quanto attiene alla previsione di cui alla lettera b), secondo la Corte nella nozione “ricavi lordi” vanno ricomprese le voci del conto economico di cui alla lettera A, n. 1 e n. 5 dell’art. 2425 cod. civ., ovvero ricavi delle vendite e delle prestazioni ed altri ricavi e proventi, mentre deve esserne esclusa in particolare la voce di cui al numero 2 (variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti) e devono escludersi anche le voci sub n. 3 (variazioni dei lavori in corso su ordinazione) e sub n. 4 (incrementi di immobilizzazioni per lavori interni) dell’2425 cod. civ.
Deve ritenersi che il legislatore della riforma fallimentare, nella previsione del requisito di cui alla lett. b) dell’art.1 L.F., abbia fatto riferimento allo schema obbligatorio del conto economico, di cui all’art.2425, e, in particolare, al suo primo raggruppamento, sub lett. A).
Detto raggruppamento, oltre alle voci che rappresentano veri e propri ricavi (voci sub nn. 1 e 5), prevede altre voci. Partendo dal rilievo di base, che il legislatore, nel riferirsi ai “ricavi”, non può che avere considerato gli stessi in senso tecnico, non potendosi ragionevolmente presumersi il contrario, deve ritenersi di piana evidenza il riferimento ai “ricavi delle vendite e delle prestazioni” sub n. 1, ed altresì la ricomprensione della voce sub n.5, “altri ricavi e proventi”, per l’assimilazione della seconda voce alla prima, trattandosi di componenti positive, quali ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi, sempre generati dall’attività d’impresa.
Non possono invece sommarsi le voci sub n.2, “variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti”, e sub n.3, “variazioni dei lavori in corso su ordinazione”, che non possono essere considerate ricavi, nemmeno concettualmente assimilabili alla più ampia nozione di “proventi”, ma, come rilevato da attenta dottrina, rappresentano invece costi comuni a più esercizi, che vengono sospesi in conformità al principio di competenza economica, ex art. 2423 bis cod.civ., per essere rinviati ai successivi esercizi, in cui si conseguiranno i correlativi ricavi; e la variazione delle rimanenze determina la differenza dei costi sospesi alla fine dei due esercizi consecutivi.
Neppure la voce sub n.4), “incrementi di immobilizzazioni per lavori interni” può essere ricompresa nei “ricavi”, valutabili ex art. 1, lett. b) L.F., non partecipando della natura propria di questi.
Cassazione civile, sez. I, 27 dicembre 2013, n. 28667