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    La responsabilità penale dell’amministratore di condominio: tratti distintivi e profili applicativi.

    Redazionedi Redazione21 Marzo 2012
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    La responsabilità penale dell’amministratore di condominio: tratti distintivi e profili applicativi.

    Mentre in ambito civile si assiste al germinare di pubblicazioni, monografie e pronunce della Suprema Corte che a vario titolo si fanno carico di delineare, ora ampliandone ora restringendone i confini, la responsabilità civile dell’amministratore di condominio, la medesima popolarità non è riservata al tema della responsabilità penale del mandatario dei condòmini.
    Nondimeno, l’amministratore di condominio risulta, codice penale alla mano, gravato, sotto questo secondo profilo, da responsabilità forse ancor più oggettive, puntuali e stringenti di quanto avvenga sotto il profilo civilistico. Spesso, invero, i due ambiti si intersecano fatalmente: ad esempio, dall’omissione di far luogo ad interventi urgenti contro la rovina dell’edificio, potrà discendere, in primis, una responsabilità penale ex art. 677 c.p., e, in seconda battuta, una responsabilità civile per gli eventuali danni cagionati a terzi.
    Al contrario, possono ben esservi illeciti (rectius: omissioni) dell’amministratore  che, seppur rilevanti sotto il profilo civilistico, non risultano tuttavia idonei ad integrare una responsabilità penale ex art. 677 c.p., difettando in tal caso uno o più degli elementi costitutivi della fattispecie. La casistica è potenzialmente sconfinata; basti pensare ad un qualunque intervento su parti condominiali deliberato dal condominio ma non attuato dall’amministratore per sua colpa: ebbene, dove l’intervento non risulti ricompreso in un contesto di tale degrado dell’edificio da essere volto a scongiurarne, come evoca il retorico tenore dell’art. 677 c.p. “…la rovina…”, la mancata attuazione dello stesso potrà, al più, essere fonte di responsabilità civile ma non di responsabilità penale.
    Occorre pertanto domandarsi quando precisamente sussista la responsabilità penale dell’amministratore di condominio, con quale rigore essa venga interpretata dalla giurisprudenza, nonché come attivarla o, al contrario, come evitare di incorrervi.
    Procedendo con ordine, è il caso di rilevare che il nostro codice penale non prevede, a differenza di quanto avviene per altre figure professionali (l’avvocato, il consulente tecnico, ecc…) una figura di reato proprio (intendendosi come tali i reati che esigono, ai fini della loro configurabilità, una determinata qualità, anche professionale, in capo al soggetto agente – ad esempio: per commettere il reato di patrocinio infedele ex art. 380 ss. c.p. occorrere essere patrocinatori o consulenti tecnici) in cui sia espressamente richiesta la qualifica di amministratore di condominio in capo al soggetto attivo.
    Nondimeno, risultano numerose le ipotesi in cui l’amministratore può essere chiamato a rispondere in sede penale, sia pure, come abbiamo visto, non necessariamente sulla base di reati propri, per atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.
    Un primo ambito di fattispecie copre ipotesi tanto banali quanto già prima facie integranti un utilizzo patologico e distorto della funzione (e degli istituti) che fanno capo all’amministratore.
    È il caso, ad esempio, dei reati di ingiurie, minacce, diffamazione o calunnia commessi dall’amministratore, ad esempio, nel contesto di un’assemblea di condominio.
    Orbene, in tali ipotesi, l’amministratore risponde sotto il profilo della responsabilità penale al pari di qualunque altro soggetto (e magari in concorso con altri condomini), salvo vedere inasprita la sua responsabilità dall’applicazione, ricorrendone i presupposti, dell’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 11 c.p.
    Più complesso risulta il problema della responsabilità dell’amministratore allorquando la responsabilità penale di questi si intrecci con quella dei singoli condomini in vicende che vedono coinvolti più soggetti: ad esempio, se è possibile escludere, difettando, ad avviso di chi scrive, l’elemento soggettivo del reato,  la corresponsabilità ex art. 110 c.p. dell’amministratore che nel corso di un’assemblea faccia porre per iscritto delle ingiurie o delle minacce rivolte da un condomino ad un altro, meno chiari sono i contorni della responsabilità dell’amministratore per diffamazione. Vale la pena ricordare che tanto l’ingiuria quanto la diffamazione si risolvono nella lesione dell’onore e/o del decoro della persona offesa; la differenza tra le due figure di reato risiede, invece, nel fatto che, mentre nel caso dell’ingiuria la persona offesa è presente, nelle ipotesi di diffamazione essa è assente, non potendo conseguentemente replicare alle offese; ciò giustifica, nell’ottica del nostro codice penale, un trattamento sanzionatorio più aspro.
    Ebbene, in materia di ingiuria, invece, la giurisprudenza si mostra generalmente più rigorosa nei riguardi dell’amministratore di condominio. Così, con una pronuncia non isolata, è stato ritenuto responsabile di diffamazione l’amministratore di condominio che aveva inviato una lettera a tutti i condomini, stigmatizzando, peraltro in modo molto sobrio, la morosità di un condomino (Cass. Sez. III, n. 231/08.).
    Minore chiarezza regna, invece,  sul fronte che vede l’amministratore di condominio persona offesa del reato di diffamazione: ora, l’esercizio del diritto di critica (e quello esercitato dai condomini nei riguardi dell’operato dell’amministratore è tale) fa generalmente, purché esso non sconfini nell’attacco gratuito e personale, venire meno la responsabilità penale di chi proferisce nei riguardi dell’amministratore, rilievi anche molto incisivi e penetranti; in questo senso, riconosce un amplissimo diritto di critica ai condomini la recente e discussa Cass., n. 31596/08. Anche nel caso visto da ultimo, però, occorre circoscrivere la portata scriminante del diritto di critica riconosciuto ai condomini nei riguardi dell’amministratore: se, infatti, la richiamata pronuncia della Suprema Corte pone come unico limite al diritto di critica il rispetto del limite del buon gusto e dell’attacco personale, un’altra recente pronuncia appronta una tutela più puntuale dell’onore e del decoro dell’amministratore affermando la penale responsabilità di colui che al mandatario dei condomini si rivolga affermando che questi, in merito ai risultati della sua gestione, mente (Cass. Sez. III, n. 10420/08).
    Se, quindi, in merito alle figure di reato cennate il fatto che un soggetto rivesta la qualità di amministratore non risulta fonte di un peculiare trattamento giuridico approntato dall’ordinamento penale, diversa è la questione per quanto concerne la fattispecie di reato (art. 677, c. 3, c.p.) più peculiarmente connaturata alla figura del proprietario dell’immobile o “…chi è per lui obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della costruzione…”. Si badi che il tenore letterale della disposizione circoscrive la responsabilità di chi non sia proprietario al fatto che questi sia “…obbligato…” alla conservazione o alla vigilanza, restando così escluse, ad esempio, le ipotesi di responsabilità incardinate sulla gestione di affari altrui.    
    Al contrario, la disposizione di cui all’art. 677, c. 3, c.p., in linea con il dettato dell’art. 40 cpv., esige che la responsabilità penale riposi sempre su un obbligo giuridico di vigilanza, ora fondato sulla qualità di proprietario dell’immobile, ora su un contratto tra quest’ultimo e chi si impegna all’amministrazione di esso.
    Quello di cui all’art. 677, c. 3, c.p. è, pertanto, un reato proprio ed omissivo (puro): può essere, infatti, integrato solo dal soggetto attivo che rivesta una delle qualità previste dal tenore letterale della norma (proprietario o gestore) e solo con una condotta che, giusta la clausola di equivalenza posta dall’art. 40 cpv., costituisca violazione di uno specifico obbligo (giuridico) di attivarsi. Attenzione, però: la sussistenza di uno specifico obbligo giuridico (c.d. posizione di protezione) risulta necessario per attivare la responsabilità ex art. 677 c.p., ma non si configura ancora sufficiente: occorrerà, altresì, che il pericolo cagionato dall’incuria o dalla vetustà risulti di una certa entità (“…minacci rovina…”), interpretando per di più la giurisprudenza prevalente tale requisito in modo abbastanza rigoroso (Cass. Sez. I, n. 7764/96).
    Ma vi è di più: la disposizione di cui all’art. 677 c.p., nel solco dei principi fondamentali propri di tutti i codici di matrice anche lontanamente illuministica, prevede una tutela graduata in funzione del rango del bene giuridico leso o posto in pericolo dalla condotta dell’agente: così, i primi due commi dell’art. 677 c.p., che prima della depenalizzazione veicolata dall’art. 52 D. Lgs. 507/99 contemplavano già una modesta ammenda (“…non inferiore a lire duecentomila…”), a seguito della modifica del 1999, se dal fatto non deriva pericolo per le persone è, oggi, prevista solamente una sanzione amministrativa pecuniaria (senza, quindi, alcun tipo di conseguenza sul piano della responsabilità penale) da Euro 154 ad Euro 929. Ne conseguirà, sotto questo profilo, l’applicabilità degli istituti (ad es., della continuazione, previsti dalla L. 689/81 per le contravvenzioni e le sanzioni amministrative).
    Presupposto per l’attivazione della responsabilità penale ex art. 677, c. 3, c.p., è, pertanto, la circostanza che dal fatto “…derivi pericolo per le persone…”; ora, detta circostanza riveste, già prima facie, la natura di condizione obiettiva di punibilità, categoria dogmatica tra le più dibattute del nostro codice penale, proprio a causa della loro imputazione a prescindere, in apparente contrasto con quanto sancito dai principi generali in materia di imputazione del fatto, da un effettivo coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in capo all’agente. Quale che ne sia la natura, detta circostanza, in cui si appalesa tutta la centralità, di derivazione tipicamente illuministica, attribuita dal legislatore del codice penale al superiore valore dell’incolumità umana rispetto agli eventuali danni cagionati alle cose, deve ineludibilmente sussistere onde poter utilmente configurare in capo all’agente una responsabilità penale. Trattasi, poi, a ben vedere, di responsabilità penale attenuata, in quanto la cornice edittale di cui all’art. 677, c.3, c.p. contempla la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, rendendo così particolarmente appetibile per chi incorra nelle maglie della disposizione in parola, la scelta processuale (o pre-processuale) di fare luogo all’oblazione ex art. 162 bis c.p., con conseguente effetto estintivo del reato e di ogni conseguenza penale, impregiudicato il beneficio della sospensione condizionale. Si noti, peraltro, che nell’ipotesi di reato punito con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, la concessione dell’oblazione (che, nell’ipotesi di cui all’art. 162 bis c.p. il giudice ben potrà subordinare alla rimozione degli effetti dannosi o comunque al ristoro delle conseguenze civili dell’illecito) non si configura, a differenza dell’ipotesi di cui all’art. 162 c.p., quale diritto dell’imputato, bensì come un istituto semi-premiale che esige il soddisfacimento di precise condizioni, ovvero, appunto, la riparazione delle conseguenze civili dell’illecito.
    Si è detto che la responsabilità ex art. 677 c.p. scaturisce necessariamente da una posizione di garanzia, che a sua volta trova la propria fonte nella qualità di proprietario dell’immobile o nell’obbligo contrattuale di amministrare l’immobile stesso. Orbene, se sussiste uno soltanto di detti presupposti di attivazione della responsabilità ex art. 677 c.p., nulla quaestio; ma a chi imputare la responsabilità penale in caso di compresenza di entrambe le qualifiche soggettive, ovvero in uno stabile in cui, oltre al proprietario dell’appartamento che minaccia rovina, vi sia un amministratore nominato? Ebbene, la giurisprudenza risolve la questione nel senso maggiormente conforme alla causa del contratto in essere tra il proprietario e l’amministratore, ovvero trasferire in capo a quest’ultimo, presuntivamente dotato di maggiori competenze tecniche del primo, il rischio della gestione e la conseguente responsabilità: sarà, pertanto, in detta ipotesi, il solo amministratore di condominio a rispondere penalmente (escludendo, quindi, si badi, addirittura un concorso ex art. 110 c.p.) del reato di pericolo delineato dall’art. 677 c.p. (ex pluribus, Cass., Sez. I, n. 4779/85.).
    Analogamente, la responsabilità ex art. 677 c.p. potrà sorgere solamente in capo al proprietario dell’immobile, a nulla rilevando, ai fini della responsabilità penale, la qualifica di conduttore (Cass. n. 7187/91.), ancorchè ad essa sia connaturato un obbligo di ordinaria manutenzione dell’appartamento condotto; ora, tale assunto, però, non è del tutto pacifico in giurisprudenza, soprattutto nelle pronunce più recenti che, facendo leva proprio sull’obbligo di provvedere all’ordinaria manutenzione dell’inquilino radicano un dovere di quest’ultimo di collaborare anche in caso di riparazioni urgenti e straordinarie, spingendosi, però, e ciò, a sommesso avviso di chi scrive, non risulta accettabile in quanto in palese contrasto con il tenore letterale dell’art. 677 c.p. che menziona espressamente il solo proprietario tra i soggetti attivi, con il principio di tassatività della fattispecie incriminatrice e con il generale divieto di analogia in malam partem, a trascinare anche il conduttore nell’alveo, per lui innaturale, del concorso ex art. 110 c.p. nella contravvenzione di cui all’art. 677 c.p. (Cass. n. 1437/97 ).
    Da ultimo, va spesa una considerazione in merito ai rapporti tra la fattispecie di cui all’art. 677 c.p. e quella di cui all’art. 650 c.p.
    Ora, quest’ultima fattispecie, a differenza di quella di cui all’art. 677 c.p., non integra un reato proprio,  non essendo richiesta per la sua integrazione alcuna qualifica naturalistica o giuridica in capo al soggetto agente; nondimeno, ben può porsi il caso in cui l’amministratore di condominio realizzi una condotta astrattamente idonea a violare tanto il disposto di cui all’art. 677 c.p. quanto quello, più generale, di cui all’art. 650 c.p.
    Ebbene, in detta ipotesi non può sic et simpliciter farsi conto, nonostante prima facie possa apparire il contrario, sulla previsione di una clausola di sussidiarietà espressa (“…se il fatto non costituisce un più grave reato…”) che illumini l’interprete nell’individuazione della (sola) fattispecie applicabile nel caso concreto; la clausola di sussidiarietà, infatti, fa salve le ipotesi più aspramente sanzionate (quindi, la sola ipotesi di cui al terzo comma dell’art. 677 c.p., lasciando teoricamente aperta la strada, nelle altre ipotesi, al cumulo di ambedue le imputazioni e, pertanto, delle relative conseguenze sanzionatorie: tuttavia, a sommesso avviso dello scrivente, una soluzione maggiormente conforme al principio garantista del ne bis in idem sostanziale è possibile (e preferibile), quantomeno per quelle condotte che realizzino una contemporanea violazione di entrambe le disposizioni, quella di cui all’art. 677, c. 3, c.p. e quella di cui all’art. 650 c.p.
    Ad una più attenta analisi, infatti, il bene giuridico protetto dall’art. 677, c. 3, c.p. si configura come speciale rispetto a quello di cui all’art. 650 c.p., o meglio, la tutela approntata al bene giuridico dall’art. 677, c. 3, c.p., rappresenta l’individuazione di una più specifica forma di aggressione al bene giuridico protetto: in quest’ottica pare invero condivisibile in quanto adagiata su una coerente base argomentativa quella più recente giurisprudenza che ritiene, nell’ipotesi di condotte astrattamente idonee a violare tanto il dettato di cui all’art. 677, c. 3, c.p. quanto quello di cui all’art. 650 c.p., operare proprio il principio di sussidiarietà, e, conseguentemente, ritenersi la fattispecie di cui all’art. 650 c.p. assorbita in quella di cui all’art. 677, c. 3, c.p. (Cass. Sez. I, n. 22886/06 ).
    La verità di tale assunto è confermata, a contrariis, dal fatto che, nelle ipotesi di condotte che esulino dal terzo comma dell’art. 677 c.p., rivive, confermato dall’interpretazione giurisprudenziale di gran lunga prevalente, il cumulo delle imputazioni di cui agli artt. 677 e 650 c.p. (Cass. Sez. I, n. 25796/02 ).
    Ciò a conferma dell’assunto per cui, in materia penale, è pressochè impossibile precostituire schemi applicativi in grado di predeterminare le conseguenze sanzionatorie ricollegate ad una specifica condotta, dovendosi necessariamente procedere, e le ipotesi in esame costituiscono una elaborata conferma dell’assunto, ad una attenta valutazione della singola condotta, del grado del bene giuridico protetto, della effettività e del livello dell’aggressione perpetrata ai danni di esso; l’operazione logica in parola, nell’espletamento della quale risulta essenziale farsi illuminare la via dal buon senso concreto, va condotta avendo come obiettivo primario quello di sgombrare la via dal pericolo di doppie contestazioni che, oltre a rappresentare una focomelia concettuale e applicativa degli istituti codicistici, si traducono in patenti violazioni del divieto del ne bis in idem sostanziale e di una rigorosa interpretazione del principio di tassatività. 

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