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Home » Notizie giuridiche » Gli interventi normativi di depenalizzazione e di abolitio criminis del 2016: una prima lettura dall’Ufficio del Massimario della Cassazione.

Gli interventi normativi di depenalizzazione e di abolitio criminis del 2016: una prima lettura dall’Ufficio del Massimario della Cassazione.

RedazionediRedazione
8 Febbraio 2016
inNotizie giuridiche, Penale Procedura Penale
Gli interventi normativi di depenalizzazione e di abolitio criminis del 2016: una prima lettura dall’Ufficio del Massimario della Cassazione.
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Gli interventi di depenalizzazione e di abolitio criminis del 2016: una prima lettura dall’Ufficio del Massimario della Cassazione..

 

1. Introduzione.
Con i decreti legislativi nn. 7 e 8 del 15 gennaio 2016 viene data esecuzione all’art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67, che ha conferito delega al Governo per la “Riforma della disciplina sanzionatoria” di reati; nel comma 2 e nel comma 3, lettera b), dell’art. 2 della legge delega sono contenuti i criteri e i principi direttivi per la trasformazione di reati in illeciti amministrativi, mentre le restanti disposizioni del comma 3 contengono criteri e principi direttivi per l’abrogazione di alcuni reati, con contestuale previsione, per i fatti corrispondenti, di sanzioni pecuniarie civili aggiuntive rispetto al risarcimento del danno.
Come evidenziato nelle relazioni governative di accompagnamento agli schemi dei due decreti, con questi interventi il legislatore intende dare concretezza ad una scelta politica volta a deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, in ossequio ai principi di frammentarietà, offensività e sussidiarietà della sanzione criminale: l’idea condivisa è che una penalizzazione generalizzata, seppure formalmente rispondente a intenti di maggiore repressività, si risolve di fatto in un abbassamento della tutela degli interessi coinvolti, nella misura in cui la macchina repressiva penale non è (e non può essere) calibrata per sanzionare un numero elevato di fatti, specie quando questi siano minori per grado di offensività.
Il primo strumento utilizzato è quello della depenalizzazione, cioè della trasformazione di taluni reati in illeciti amministrativi: l’affidamento all’autorità amministrativa dell’intervento punitivo per condotte di ridotta gravità rappresenta – nel pensiero del legislatore – la soluzione privilegiata, perché evita le inefficienze e le storture cui inevitabilmente va incontro il sistema penale quando il carico degli affari diventa numericamente eccessivo. Attraverso la riduzione del catalogo dei reati, inoltre, si intende combattere l’effetto di disorientamento che l’eccesso di prescrizioni provoca nei consociati, riducendo il rischio che l’incorrere nella commissione di un reato finisca col dipendere sempre più dal caso, con quanto ne consegue in termini di perdita di legittimazione dell’intervento punitivo.
Nella stessa ottica si pone, quale seconda modalità di intervento, la scelta di abrogare alcuni reati previsti da disposizioni del codice penale, con contemporanea sottoposizione dei corrispondenti fatti a ”sanzioni pecuniarie civili” che si aggiungono al risarcimento del danno.
Con i limiti e le approssimazione di una prima lettura, la presente relazione intende offrire un rapido inquadramento delle linee portanti del duplice intervento normativo, tentando di indicare le possibili problematiche interpretative.

2. L’intervento di depenalizzazione (D. Lgs. n. 8 del 2016).
L’ambito applicativo della depenalizzazione è individuato dalla legge delega in base a due diversi criteri di selezione: uno di carattere formale, legato al tipo di trattamento sanzionatorio; l’altro di carattere sostanziale, dipendente dal riconoscimento che determinati comportamenti, pur mantenendo il carattere illecito, non sono più tuttavia ritenuti meritevoli di pena, potendo essere sanzionati in via amministrativa.
Il primo criterio è esplicitato nella lettera a) del comma 2 dell’articolo 2 della legge delega che, riferendosi a «tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda», costituisce una clausola generale di depenalizzazione cd. “cieca”: il decreto legislativo n. 8/2016 dà attuazione al criterio attraverso l’art. 1, comma 1, che prevede, appunto, che «Non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda».
Il secondo criterio, contenuto nelle lettere b), c) e d) del comma 2 dell’articolo 2 della delega, opera invece una depenalizzazione cd. “nominativa”, indicando specificamente le fattispecie su cui intervenire: il decreto legislativo in commento attua tale previsione attraverso gli artt. 2 (Depenalizzazione dei reati del codice penale) e 3 (Altri casi di depenalizzazione).

3. La depenalizzazione “cieca”.
La clausola generale di depenalizzazione “cieca” – già in passato utilizzata dal legislatore – incontra limiti ulteriori rispetto a quello costituito dal tipo di pena (Ad esempio, nell’articolo 32 della legge 24 novembre 1981, n. 689).
In particolare, il decreto – recependo le indicazioni della legge delega, che aveva (lettera a del comma 2 dell’art. 2) già individuato una lunga serie di materie escluse dalla depenalizzazione, in considerazione dell’importanza dei beni giuridici tutelati – ha proceduto all’individuazione delle leggi disciplinanti quelle materie, raggruppandole nell’elenco allegato al decreto. Seguendo, poi, una tecnica legislativa già adoperata nel decreto legislativo n. 507/1999, in presenza di corpi normativi dal contenuto eterogeneo, quindi concernente solo in parte una materia esclusa, il legislatore delegato ha provveduto a precisare singolarmente le disposizioni di quella legge sottratte alla depenalizzazione: tale criterio potrebbe peraltro ingenerare qualche problema interpretativo, laddove si dovessero rinvenire fattispecie di reato rientranti nelle materie “eccettuate” ma non ricomprese, per effetto di imprecisione legislativa, nei testi normativi richiamati nell’elenco.
Al contrario, la netta formulazione della clausola generale di depenalizzazione ha impedito al Governo di operare mediante la previa individuazione specifica, una per una, delle fattispecie destinate ad essere colpite dalla degradazione in illecito amministrativo, individuazione che viene dunque rimessa all’operazione ermeneutica dell’interprete.

3.1. L’esclusione dei reati del codice penale.
Ai sensi del comma 3 dell’art. 1 del decreto delegato, la depenalizzazione generale di cui al comma 1 non si applica ai reati previsti dal codice penale.
La disposizione non trova immediato riscontro nella legge delega, nella quale la clausola generale di depenalizzazione sembra fare indistinto riferimento a “tutti” i reati puniti con sola pena pecuniaria, senza distinzione fra fattispecie contemplate nel codice penale e ipotesi previste dalle leggi penali speciali.
I motivi di tale scelta sono esplicitati nella relazione governativa, dove si afferma che a favore della esclusione milita un duplice ordine di argomenti.
In primo luogo, si evidenzia che nel momento in cui lo stesso legislatore delegante, nel dettare alla lettera b) del comma 2 le direttive specifiche relative al codice penale, ha inserito nell’elenco dei reati da depenalizzare anche talune fattispecie codicistiche punite con la sola pena pecuniaria (segnatamente, gli artt. 659, comma 2 e 726), ciò sta a significare che la clausola generale non è da ritenere operativa nei confronti del codice, poiché in caso contrario – in presenza, cioè, di una depenalizzazione dei reati codicistici puniti con sola pena pecuniaria – non avrebbe avuto alcun senso l’inserimento di tali ipotesi contravvenzionali tra quelle da depenalizzare.
Per altro verso, si sottolinea che, se la clausola generale di depenalizzazione operasse nei confronti del codice, si produrrebbero risultati vistosamente asistematici, in quanto «…l’effetto depenalizzante andrebbe a colpire fattispecie delittuose, bensì sanzionate con la sola multa, ma facenti parte di complessi normativi organicamente deputati alla tutela di beni molto significativi, come ad esempio l’amministrazione della giustizia; mentre alcune fattispecie contravvenzionali sicuramente meno significative non sarebbero depenalizzate in quanto rientranti nelle materie escluse, come ad esempio quelle previste dagli artt. 727-bis, comma 2, e 703, comma 1, cod. pen…».
Le ragioni indicate dal legislatore delegato a sostegno della operata esclusione dei reati codicistici, pur a fronte di alcune obiezioni sollevate nei primi commenti, non paiono in ogni caso rappresentare – su un piano meramente formale – un travalicamento dei poteri conferiti dal Parlamento, alla luce del constante insegnamento del giudice delle leggi in ordine alla possibilità, nelle situazioni (quale quella in esame) di scarsa chiarezza del legislatore delegante, di individuare per relationem i principi ed i criteri direttivi non espressamente indicati nella delega: la Corte costituzionale ha sempre affermato, infatti, che l’indicazione dei principi e dei criteri direttivi di cui all’art. 76 della Carta non elimina ogni discrezionalità nell’esercizio della delega, ma la circoscrive, in modo che resti salvo il potere di valutare le specifiche e complesse situazioni da disciplinare8; peraltro, già nella sentenza n. 158 del 1985, la Corte costituzionale aveva chiarito che «le direttive, i principi ed i criteri servono, per un verso, a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, per un altro, devono, però, consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare».

3.2. L’intervento sulle fattispecie aggravate.
Affrontando il problema dei reati puniti nella fattispecie base con la sola pena pecuniaria, la cui ipotesi aggravata è però sanzionata con pena detentiva – sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria – il legislatore delegato, nell’intento di attribuire il massimo ambito applicativo alla clausola generale, ed in assenza di limitazioni previste in tal senso dalla legge delega9, ha scelto (articolo 1) di mantenere la previsione di depenalizzazione per le fattispecie base, precisando che, in questo caso, le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome, in ragione del venir meno della natura penale di quella base.
Come sottolineato dallo stesso Presidente della Commissione ministeriale incaricata della redazione degli schemi di decreti delegati10, la trasformazione in fattispecie autonome risponde alla evidente necessità di eliminare ogni incertezza sulla sorte delle fattispecie aggravate, potendo altrimenti ritenersene – con gravi ed intollerabili conseguenze sul piano della certezza del diritto – sia la caducazione per effetto del venir meno dell’illecito penale di base, sia, all’opposto, la loro sopravvivenza, in tal caso facendo dipendere il confine fra illecito amministrativo e reato dall’esito del giudizio di bilanciamento; un giudizio che, invece, d’ora in avanti non è più suscettibile, in caso di riconosciuta presenza e prevalenza delle attenuanti, di ricondurre la risposta punitiva sul piano della mera sanzione pecuniaria.
Nonostante l’assenza di una indicazione specifica nel testo della legge n. 67 del 2014, anche in questa occasione la scelta adottata dal decreto non sembra – ad una prima cauta analisi – oltrepassare, sul piano formale, i principi ed i criteri direttivi della delega, che devono comunque consentire al potere delegato di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi; al riguardo, può essere utile richiamare l’insegnamento della Corte costituzionale, per il quale la delega legislativa non elimina ogni discrezionalità del legislatore delegato (i cui margini risultano più o meno ampi a seconda del grado di specificità dei principi e criteri direttivi fissati dal legislatore delegante): di modo che per valutare, di volta in volta, se il legislatore delegato abbia ecceduto tali margini, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia ad essa rispondente, nella misura in cui il controllo di costituzionalità riguarda le difformità della norma delegata rispetto a quella delegante e non le scelte del legislatore che investono il merito della legge delegata.
Una volta risolta, per effetto della espressa qualificazione normativa, la questione della natura delle “nuove” fattispecie, il passaggio da elemento circostanziale ad elemento costitutivo del reato è suscettibile di incidere, quanto meno sul piano teorico e fatta salva la verifica delle effettive ricadute sulle fattispecie concretamente interessate:

  • sul regime di imputazione, passando da quello stabilito dall’art. 59 commi 1 e 2 cod. pen. (tendenziale necessità almeno della colpa, se si tratta di aggravanti; tendenziale sufficienza della loro oggettiva presenza, se si tratta di attenuanti), a quello risultante dall’art. 42 comma 2 cod. pen. (per i quali è di regola necessario il dolo, salva espressa previsione della colpa);
  • sul luogo e sul tempo del reato, e dunque sulla individuazione del momento consumativo e del dies a quo, nella prescrizione ai sensi dell’art. 158 cod. pen.;
  • sul regime di contestazione all’imputato, diverso da quello previsto per gli elementi costitutivi (v. artt. 417 lett. b e 516-518 cod. proc. pen.);
  • sulla disciplina del concorso di persone nel reato (laddove, mentre l’art. 118 cod. pen.

si occupa delle sole circostanze, i precedenti artt. 116 e 117 riguardano i soli elementi costitutivi del reato).
Scarsissime se non nulle ripercussioni sono da attendersi – considerato il generale modesto livello edittale delle nuove ipotesi autonome – sul piano della determinazione della competenza processuale basata sulla misura della pena ai sensi dell’art. 4 cod. proc. pen., dell’applicazione delle misure cautelari ai sensi dell’art. 278 cod. proc. pen., dell’arresto in flagranza e del fermo di indiziato di delitto ai sensi dell’art. 379 cod. proc. pen., sulla chiamata in giudizio mediante citazione diretta o tramite udienza preliminare.

3.3. La disciplina delle fattispecie aggravate dalla ripetizione dell’illecito amministrativo.
Come ampiamente sottolineato nella relazione governativa, la scelta operata dal decreto ha comportato la necessità di una disposizione di coordinamento per disciplinare le ipotesi in cui la fattispecie aggravata – punita con pena detentiva – sia fondata sulla reiterazione dell’illecito depenalizzato: anche in questo caso, l’assenza di una norma di raccordo avrebbe comportato incertezze, potendosi ragionevolmente ritenere che la fattispecie aggravata decada per effetto del venir meno dell’elemento costitutivo, rappresentato appunto dalla “recidiva” in senso tecnico penalistico, ossia per l’assenza di un illecito penale accertato e ascrivibile all’autore della nuova infrazione.
L’art. 5 dispone dunque che «quando i reati trasformati in illeciti amministrativi ai sensi del presente decreto prevedono ipotesi aggravate fondate sulla recidiva ed escluse dalla depenalizzazione, per recidiva è da intendersi la reiterazione dell’illecito depenalizzato» Il termine “recidiva” menzionato nell’art. 5 del decreto è dunque da intendersi in senso improprio; una rapida ricognizione in ambiti extrapenalistici consente, peraltro, di evidenziare che la perseveranza nell’illecito non mantiene sempre la stessa denominazione, adoperandosi talvolta il lemma “recidiva”, talora invece l’espressione “reiterazione”, in modo da abbinare quest’ultima all’illecito amministrativo e quella di “recidiva” esclusivamente al reato.
Gli aspetti di problematicità non si arrestano, tuttavia, al solo profilo lessicale.
Un primo interrogativo, su un piano più generale, concerne la sufficienza della norma di coordinamento a porre la previsione incriminatrice al riparo da possibili dubbi di costituzionalità per effetto della costruzione di un reato il cui elemento oggettivo consiste, nella sostanza, in un mero illecito amministrativo, sia pure ripetuto; in questa sede, si può solo prudentemente osservare che nella valutazione complessiva potrebbe trovare rilievo la nozione fluida e sostanzialistica della “natura penale” di una disposizione interna, per come emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU e della stessa CGUE16.
Ulteriori quesiti si prospettano con riferimento alla portata concettuale e all’ambito applicativo della recidiva.
In merito al primo profilo, ci si domanda se, al fine di accertare, in concreto, la situazione di ripetizione della violazione amministrativa che integra la fattispecie di reato, debba farsi riferimento – considerato per un verso l’utilizzo del termine “reiterazione” e, per altro aspetto, il rimando generale alle disposizioni delle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689, operato dall’art. 6 del d. lgs. n. 8 del 2016 ai fini della applicazione delle (nuove) sanzioni amministrative in esso previste – all’art. 8-bis della legge n. 689/81, introdotto dal d. l.vo. 30 dicembre 1999, n. 507, che disciplina, appunto, la “reiterazione” degli illeciti amministrativi.
Secondo tale disposizione, infatti, si ha reiterazione (reiterazione generica) quando in capo allo stesso soggetto vengono accertate con provvedimento esecutivo più sanzioni amministrative della stessa indole nell’arco del medesimo quinquennio, anche se accertate con un unico provvedimento esecutivo. Il comma 2 dell’art. 8-bis precisa, poi, che sono della stessa indole «le violazioni della medesima disposizione e quelle di disposizioni diverse che, per la natura dei fatti che le costituiscono o per le modalità della condotta, presentano una sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni». Vale a dire che, per aversi reiterazione, gli illeciti amministrativi devono vertere sulla medesima materia e le condotte ivi previste devono essere in qualche modo connesse. La reiterazione è specifica se è violata più volte la medesima disposizione di legge (comma 3), implicando una maggiore gravità.
Queste previsioni non dovrebbero interferire – ad un primo sommario esame – con l’oggetto delle “nuove” ipotesi penali, costituite sempre da reiterazione “specifica”, ossia dalla reiterazione della identica condotta, che prima costituiva reato anche se commessa singolarmente e che d’ora in avanti integra solo un illecito amministrativo.
Sempre a mente dell’art. 8-bis, la reiterazione non opera, poi, se le violazioni successive alla prima sono commesse in tempi ravvicinati e sono «riconducibili ad una programmazione unitaria» (comma 4). Tale norma introduce una sorta di “mini continuazione” nell’illecito amministrativo, istituto che, di regola, è proprio solo dell’ordinamento penale. La norma, pur non ritenendo di estendere al sistema sanzionatorio amministrativo l’istituto della continuazione, ha disposto che il medesimo disegno nella violazione delle leggi amministrative escluda l’applicabilità della reiterazione.
A fronte di tale disposizione, allora, la previsione di fattispecie penali costituite dalla mera reiterazione della stessa violazione amministrava suscita qualche interrogativo sul se il giudice penale, posto di fronte ad un secondo illecito amministrativo riconducibile, secondo il suo apprezzamento, ad una programmazione unitaria con un primo illecito già accertato e sanzionato, abbia o meno il potere di escludere la reiterazione e dunque di ritenere insussistente il nuovo reato, che in quella “recidiva” si sostanzia; allo stesso modo, nel caso in cui due o più violazioni riconducibili ad una programmazione unitaria siano già state oggetto di un accertamento amministrativo che ne abbia ritenuto la natura unitaria (e dunque non reiterata), e il giudice penale sia chiamato a valutare un’ulteriore infrazione parimenti omogenea che però, per qualsivoglia ragione, sia sfuggita al processo amministrativo già concluso.
Come noto, infatti, in ambito penale l’intervenuta irrevocabilità della decisione sul primo o sui primi reati non impedisce che il giudice, tanto della cognizione quanto della esecuzione, possa applicare la continuazione, posto che «la disciplina del reato continuato deve trovare applicazione tutte le volte che le diverse violazioni della legge penale siano state commesse in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Ove tale requisito sia accertato, il reato continuato non può essere escluso per il fatto che tra i vari episodi sia intervenuta una sentenza di condanna o sia sopraggiunta l’irrevocabilità di una tale sentenza» (così testualmente, Sez. 1, n. 930 del 16 febbraio 1995, Modolo, Rv. 200506).
Nel silenzio legislativo, potrebbero dunque sorgere conflitti interpretativi sulla sussistenza di una matrice unitaria ed omogenea delle violazioni – di per sé idonea, ai sensi dell’art. 8-bis sopra citato, a determinare una reductio ad unitatem del duplice o multiplo illecito – difficilmente potendosi ipotizzare, peraltro, che il giudice penale sia privato, in omaggio ad un dato meramente formale quale quello del precedente accertamento amministrativo, del potere/dovere di verificare l’esistenza stessa di un illecito amministrativo “reiterato” (e non legato dalla mini-continuazione, che tale reiterazione invece esclude), che rappresenta l’in sé delle nuove fattispecie penali disegnate dalla novella.
Il secondo ordine di problemi, sollecitati dalla riforma con specifico riguardo alla recidiva, attiene al suo ambito operativo.
Secondo, invero, l’insegnamento della Suprema Corte, affermatosi in materia di guida senza patente (fra le altre: Sez. 4, n. 40617, 30/04/2014, Mauro, Rv. 260304), ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della “recidiva nel biennio”, di cui al comma 13 dell’art. 116 del Cod. della Strada, rileva la data del passaggio in giudicato della sentenza relativa al fatto-reato precedente rispetto a quello per il quale si procede, e non la data di commissione dello stesso.
Quid iuris, dunque, a seguito della depenalizzazione del primo reato e della conseguente assenza, d’ora in avanti, di una sentenza irrevocabile relativa a tale fatto di reato? In assenza di elementi contrari, ragioni logiche e sistematiche depongono nel senso che il presupposto del (nuovo) reato costituito dalla reiterazione di un illecito amministrativo consiste, sul piano formale, nella esistenza di una provvedimento irrevocabile che abbia accertato la (prima) violazione amministrativa e abbia irrogato la conseguente (nuova) sanzione.
I dubbi interpretativi evidenziati si intersecano – evidentemente – con le incertezze sul versante applicativo/processuale, posto che il legislatore delegato, mentre regola in modo articolato il passaggio dall’ambito penale a quello amministrativo, individuando l’autorità competente per l’irrogazione delle nuove sanzioni amministrative e disciplinando la trasmissione degli atti per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del decreto (di cui si dirà più oltre), non fornisce indicazioni in ordine alla procedimentalizzazione della situazione opposta, in cui dalla commissione del secondo illecito amministrativo deriva la competenza del giudice penale.

3.4. Le tre fasce edittali di sanzioni amministrative pecuniarie.
Con riferimento alla clausola generale di depenalizzazione, il legislatore delegato (articolo 1, comma 5) ha fissato tre gruppi di reati puniti con la multa o l’ammenda: non superiore nel massimo a 5.000 euro il priprimo, a 20.000 euro il secondo, ovvero superiore a 20.000 euro il terzo. Ad essi corrispondono tre fasce sanzionatorie comprese, nell’ambito della più generale cornice edittale stabilita al comma 2, lett. e) della legge delega, rispettivamente, tra 5.000 e 10.000 euro, tra 5.000 e 30.000 euro, ovvero tra 10.000 e 50.000 euro.
L’art. 1 comma 6 del decreto in commento stabilisce, inoltre, che se per le violazioni attinte dalla clausola di depenalizzazione generale è prevista una pena pecuniaria proporzionale, anche senza la determinazione dei limiti minimi o massimi, la somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa è pari all’ammontare della multa o dell’ammenda, ma non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000.

4. La depenalizzazione “nominativa”.
Come già anticipato, l’ambito della depenalizzazione non coincide con la sfera di operatività della clausola generale (“cieca”), estendendosi anche ad altre fattispecie criminose, oggetto di specifica indicazione nominativa da parte del legislatore delegante, come detto recepite, sia pur non integralmente, dal legislatore delegato negli artt. 2 e 3 del decreto in commento.
In dottrina è stato evidenziato come, nonostante la tendenziale eterogeneità delle figure di reato interessate, al loro interno sia comunque possibile distinguere alcuni nuclei tipologici, e cioè:
a) specifiche figure di reato collocate nel codice penale, originariamente punite con pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria, ovvero punite con la sola pena pecuniaria ma escluse, per quanto anzidetto, dalla depenalizzazione generale: si tratta dei delitti previsti dagli articoli 527, co.1, e 528 cod. pen., limitatamente alle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, in materia di atti osceni e pubblicazioni e spettacoli osceni, nonché delle contravvenzioni previste dagli articoli 652, 661, 668 e 726 cod. pen., concernenti specificamente le ipotesi di rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto, di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, di abuso della credulità popolare, di rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive e, infine, di atti contrari alla pubblica decenza;
b) delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all’art. 2, comma 1-bis d.l. 12.9.1983 n. 463, conv. in l. 11.11.1983 n. 638, sostituito dalla seguente formulazione: «L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto della violazione».
c) determinate contravvenzioni punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, previste nella legislazione complementare. Nello specifico si tratta della contravvenzione prevista dall’art. 11, comma 1, legge 8 gennaio 1931, n. 23420 (Norme per l’impianto e l’uso di apparecchi radioelettrici privati e per il rilascio delle licenze di costruzione, vendita e montaggio di materiali radioelettrici); della contravvenzione prevista dall’art.171- quater della legge sul diritto d’autore (legge n. 633/1941); della contravvenzione prevista dall’art. 3 d. lgs. lgt. 10.8.1945 n. 506 (Disposizioni circa la denunzia dei beni che sono stati oggetto di confische, sequestri o altri atti di disposizione adottati sotto l’impero del sedicente governo repubblicano), della contravvenzione prevista dall’articolo 15, comma 2, legge 28.11.1965 n. 1329 (Provvedimenti per l’acquisto di nuove macchine utensili); della contravvenzione prevista dall’articolo 16, comma 4, d.l. 745/1970, in tema di abusiva installazione o esercizio di impianti di distribuzione automatica di carburanti per uso di autotrazione; della contravvenzione prevista dall’articolo 28, comma 2, d.P.R. 309/1990, in materia di coltivazione di piante proibite nel territorio nazionale, senza le prescritte autorizzazioni.

4.1. Le tre fasce di sanzioni amministrative e le eccezioni.
Circa le nuove cornici edittali delle sanzioni amministrative, sia con riguardo ai reati del codice penale (di cui all’articolo 2) che agli altri casi di depenalizzazione (di cui all’articolo 3), il legislatore delegato ha fissato limiti sulla base di un criterio generale ispirato a principi di proporzione, ragionevolezza e coerenza sistematica:
1) sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a sei mesi;
2) sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a un anno;
3) sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro per i delitti e le contravvenzioni puniti con una pena detentiva superiore a un anno.
Il criterio predetto fa peraltro eccezione in alcune circostanze.
In primo luogo, con riguardo al reato di cui all’articolo 527 cod. pen., per il quale – a giudizio del legislatore delegato, nell’esercizio del potere di compiere simili valutazioni conferitogli dall’articolo 2, comma 2, lettera e) della legge delega – la cornice edittale rivela una severità non più aderente all’attuale disvalore sociale dell’illecito: il decreto dispone, pertanto, che l’originaria pena prevista nel primo comma, della reclusione da tre mesi a tre anni, sia sostituita dalla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000; per l’ipotesi di reato aggravata di cui al secondo comma, trasformata in reato autonomo, è stabilita la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi.
Secondariamente, quando l’illecito da depenalizzare, pur essendo riconducibile all’ipotesi sanzionatoria più severa, è stato provvisto di un massimo edittale inferiore, e ciò allo scopo di consentire l’operatività degli aumenti stabiliti per le ipotesi aggravate, nel rispetto del limite massimo di 50.000 euro imposto dalla delega.

5. I casi di mancato esercizio della delega.
Il legislatore delegato non ha esercitato la delega in riferimento ai reati di cui agli articoli 659 cod. pen. e 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
Nella relazione di accompagnamento si giustifica la scelta effettuata, in entrambi i casi, affermando che si tratta di fattispecie che intervengono su materie “sensibili” per gli interessi coinvolti, in cui lo strumento penale appare come indispensabile per la migliore regolazione del conflitto con l’ordinamento innescato dalla commissione della violazione.
Sempre nella relazione governativa, si fa richiamo all’assenza di pericoli di infedeltà alla delega passibili di censure di incostituzionalità, posto che ciascuna previsione di depenalizzazione ha autonomia strutturale rispetto all’intero contesto di prescrizioni impartite al legislatore delegato.

6. Le sanzioni accessorie.
Nel silenzio della delega, il legislatore delegato ha ritenuto di non comminare sanzioni accessorie per gli illeciti risultanti dalla clausola generale di depenalizzazione c.d. “cieca”, nella dichiarata difficoltà di formulare, sia sul piano redazionale che di compatibilità con i limiti derivanti dalla delega, una disposizione altrettanto generale di conversione delle (eventuali) originarie pene accessorie.
L’articolo 4 comma 1 del decreto prevede, invece, le sanzioni amministrative accessorie della sospensione della concessione, della licenza, dell’autorizzazione o di altro provvedimento amministrativo che consente l’esercizio dell’attività da un minimo di dieci giorni a un massimo di tre mesi, nel caso di reiterazione specifica di uno dei seguenti illeciti depenalizzati: articolo 668 cod. pen.; articolo 171-quater della legge 22 aprile 1941, n. 633; articolo 28, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990). Al comma 2 è previsto che, allo stesso modo, provvede il giudice con la sentenza di condanna qualora sia competente, ai sensi dell’articolo 24 della legge 24 novembre 1981, n. 689, a decidere su una delle violazioni indicate nel comma 1.
Non sono state interessate, invece, le fattispecie di illecito depenalizzate nominativamente quando inserite in un più generale contesto normativo in cui siano presenti illeciti non depenalizzabili: per queste ipotesi il legislatore ha ritenuto di non prevedere pene accessorie, al fine di evitare l’incongruente compresenza, nello stesso corpo normativo, di illeciti amministrativi muniti di sanzioni accessorie e di illeciti penali sprovvisti di tali pene.
Sempre per quanto riguarda gli illeciti risultanti dalla depenalizzazione c.d. “nominativa”, il legislatore delegato è intervenuto su quelle norme che già prevedevano la pena accessoria, trasformandola in sanzione amministrativa, limitatamente all’illecito depenalizzato e in quanto corrispondente al contenuto sanzionatorio indicato dalla delega: ciò è avvenuto con la modifica dell’articolo 8 della legge n. 234 del 1931, che contempla provvedimenti di sospensione o di revoca delle licenze in presenza di fatti costituenti reato, previsione che è stata estesa allo scopo di renderla applicabile anche con riguardo all’illecito depenalizzato.

7. Profili procedimentali dei nuovi illeciti.
Con riferimento agli aspetti sostanziali e procedimentali dei nuovi illeciti amministrativi, le indicazioni di delega contenute nella lettera e) del comma 2 dell’articolo 2 della legge n. 67/2014 sono in linea con la disciplina fornita dalla legge 24 novembre 1981, n. 689; nello specifico, il legislatore delegato ha optato, per disciplinare i “nuovi” illeciti depenalizzati, per il richiamo, ove compatibili, alle disposizioni delle sezioni I e II del capo I della citata legge n. 689 del 1981 (articolo 6 del decreto).
In particolare, quanto alla competenza, l’articolo 7 del decreto n. 8/2016 prevede, al comma 1, che per le violazioni di cui all’articolo 1 sono tenuti a ricevere il rapporto – e ad applicare le relative sanzioni – le autorità competenti ad irrogare le altre sanzioni amministrative già previste dalle leggi che contemplano le violazioni stesse, ricorrendosi, nel caso di mancata previsione, al criterio residuale a norma dell’art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689; al comma 2, che per le violazioni di cui all’articolo 2, il prefetto è competente a ricevere il rapporto e ad irrogare le sanzioni amministrative; al comma 3, che per le violazioni di cui all’articolo 3 sono competenti a ricevere il rapporto e ad irrogare le sanzioni amministrative: a) le autorità competenti ad irrogare le sanzioni amministrative già indicate nella legge 22 aprile 1941, n. 633, nel decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, e nel decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309;
b) il Ministero dello sviluppo economico in relazione all’articolo 11 della legge 8 gennaio 1931, n. 234;
c) l’autorità comunale competente al rilascio dell’autorizzazione all’installazione o all’esercizio di impianti di distribuzione di carburante di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 11 febbraio 1998, n. 32;
d) il Prefetto per le restanti leggi indicate all’articolo 3.

8. Profili di diritto intertemporale.
Il legislatore delegato si è dichiaratamente confrontato con l’assenza, nella legge delega, di una disciplina transitoria e, di conseguenza, con il dubbio interpretativo se tale mancanza fosse il segno della volontà del delegante di affidarsi alle regole fissate dall’articolo 2 cod. pen. e dall’articolo 1 legge n. 689 del 1981: con la conseguenza – consacrata in plurime sentenze di legittimità, anche nella massima composizione (Sez. U, n. 25457/2012) – che, in assenza di disposizioni transitorie, l’infrazione commessa non è più sanzionabile, nemmeno a livello amministrativo, se successivamente depenalizzato.
Il silenzio della delega è stato interpretato in senso opposto, ritenendosi che l’assenza di indicazioni non implicasse il divieto di apporre una disposizione transitoria: e ciò allo scopo – espressamente affermato nella relazione di accompagnamento – di scongiurare il rischio di una sperequazione tra chi ha commesso il fatto depenalizzato prima della riforma e chi lo ha commesso dopo, posto che, nel silenzio normativo, soltanto a quest’ultimo (e non al primo) sarebbe, come detto, applicabile (alla luce della cennata giurisprudenza) la sanzione amministrativa prevista per il nuovo illecito.
Sul piano della legittimità formale dell’intervento, possono richiamarsi le considerazioni già in precedenza espresse sul potere del legislatore delegato di valutare le specifiche e complesse situazioni da disciplinare, esercitando una discrezionalità che – secondo la ricordata giurisprudenza costituzionale – travalica la delega conferita solo quando si pone in modo divergente rispetto alle finalità che l’hanno determinata: in tale prospettiva, pare di poter solo affermare che il silenzio, sul punto specifico, del legislatore delegante non sia inequivocabilmente interpretabile come un divieto espresso, dal quale consegua automaticamente l’illegittimità costituzionale della previsione di una disciplina transitoria.
Nel merito, la scelta legislativa parte dalla considerazione che il rango costituzionale del principio di irretroattività delle sanzioni punitive amministrative presuppone l’omogeneità della natura dell’illecito penale e di quello (punitivo) amministrativo, convergenti nell’identica “materia penale”, come delineata, altresì, dalla giurisprudenza della Corte EDU. Muovendo, dunque, da tale omogeneità, la depenalizzazione di reati “degradati” a illeciti amministrativi dà luogo ad una vicenda sostanzialmente di successione di leggi, nella quale trova attuazione il principio di retroattività in mitius, pienamente realizzato dall’applicazione retroattiva delle più favorevoli sanzioni amministrative in luogo di quelle originarie penali, sempre che sia garantito (come in questo frangente avviene per espressa previsione del comma 3 dell’articolo 8 del decreto, di cui appena oltre) che la nuova sanzione sia irrogata in un ammontare non superiore al massimo di quella originaria.
Sulla base di tali dichiarate opzioni interpretative, nel decreto n. 8/2016 sono stati inseriti gli articoli 8 e 9, rispettivamente dedicati all’applicabilità delle sanzioni amministrative agli illeciti commessi anteriormente e alla trasmissione degli atti del procedimento penale all’autorità amministrativa, traendo decisiva ispirazione dalle già collaudate disposizioni contenute nel citato decreto legislativo n. 507 del 1999 (articoli 100-102).
L’art. 8 (comma 1) dispone, in particolare, che le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
Come già prima osservato, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del decreto non può tuttavia essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 cod. pen.. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie.
Se, invece, i procedimenti penali per i reati depenalizzati dal decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabile, il giudice dell’esecuzione, procedendo nei modi indicati dall’articolo 667, comma 4, del codice di rito (cioè con ordinanza emessa senza formalità e comunicata alla parti), revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
Queste le scansioni procedurali individuate dall’art. 9: – nei casi previsti dalla disciplina transitoria, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, dispone la trasmissione all’autorità competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data; – se l’azione penale non è stata esercitata, la trasmissione degli atti è disposta direttamente dal pubblico ministero che, in caso di procedimento già iscritto, l’annota nel registro delle notizie di reato. Se invece il reato risulta estinto per qualsiasi causa, il pubblico ministero richiede l’archiviazione al Gip competente; – qualora l’azione penale sia stata già esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente; – quando, infine, è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

9. Il rapporto tra depenalizzazione, illecito amministrativo e tenuità del fatto.
Il tema appena affrontato sollecita, a chiusura del breve esame delle norme contenute nel d. lgs. n. 8/2016, una breve riflessione sul rapporto fra l’intervento di depenalizzazione e l’istituto della particolare tenuità del fatto, introdotto recentemente – attraverso l’introduzione dell’art. 131-bis, cod. pen. – su input, anch’esso, della legge n. 67 del 2014.
Sul piano teorico, questa seconda forma di intervento si distingue nettamente da quella della depenalizzazione, per la quale, tutti i reati, a prescindere dalle modalità attraverso cui in concreto sono stati consumati, vengono meno; laddove con la “tenuità del fatto” non sono punibili, in via astratta, quei reati, sanzionati nel massimo con la pena di cinque anni di reclusione o con la pena pecuniaria, soltanto se nel concreto siano risultati di scarsa offensività.
Nel primo caso, il legislatore stabilisce a priori le condotte che non costituiscono più reato; nel secondo caso, il legislatore attribuisce al giudice il potere di decidere se il fatto sottoposto al suo esame non meriti di essere punito, verificando se esso, per le modalità esecutive, per la sua occasionalità, per la lievità del danno o del pericolo cagionato abbia arrecato un’offesa troppo lieve per meritare una sanzione penale.
Entrambi gli istituti muovono dall’esigenza di scremare l’area penale dai reati cd. bagatellari, colpendo, il primo (la depenalizzazione), quelli cd. bagatellari propri, ritenuti ormai privi di offensività; il secondo (la tenuità del fatto) quelli bagatellari impropri, attraverso il meccanismo deflattivo della diversion, quando essi mostrano in concreto una esigua lesività, tale da far perdere l’interesse ad un loro perseguimento penale.
Il punto di possibile criticità attiene alla coesistenza sistemica tra il fatto ritenuto non più di interesse penale, ma pur sempre sanzionato a livello amministrativo, e quello, in via astratta più grave e quindi ritenuto ancora bisognoso della tipizzazione penale, ma in concreto non punito, ove ritenuto inoffensivo: l’effetto che in concreto può presentarsi è che il soggetto autore di un determinato fatto rientrante tra quelli oggetto della depenalizzazione in commento, se prima di tale intervento poteva beneficiare della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., a seguito dell’entrata in vigore del decreto n. 8/2014 è comunque destinatario – in ragione della clausola intertemporale inserita dal legislatore delegato – di una sanzione amministrativa di carattere afflittivo.
L’eccentricità potrebbe accentuarsi con riferimento a tutte quelle fattispecie (ad esempio, la guida senza patente) che, come sopra evidenziato, nella forma, un tempo aggravata ed adesso autonoma, continuano ad appartenere alla sfera del penalmente rilevante, ma che potrebbero in concreto, in presenza dei presupposti di legge, non comportare la punibilità del reo se ritenuti di particolare tenuità, a fronte delle meno gravi ipotesi base della medesima fattispecie, oggi depenalizzate, che non sottraggono l’autore da una sanzione amministrativa.
Della questione, la Corte ha avuto modo di occuparsene indirettamente nella recente sentenza Sez. 4, n. 44132 del 9 settembre 2015, Longoni, Rv. 264829, che, nell’affrontare la connessa e controversa questione attualmente rimessa al vaglio delle Sezioni Unite30, relativa all’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. ai reati per i quali sono previste soglie di non punibilità, ha evidenziato come sul piano funzionale i due illeciti, amministrativo e penale, presentino differenze evidenti e rilevanti, che definiscono autonomi statuti.
Sarà interessante verificare, allora, la tenuta di una tale impostazione ricostruttiva, di fronte alla speculare situazione derivante dalla depenalizzazione di illeciti potenzialmente attingibili dalla “tenuità” ed ora puniti con inevitabili sanzioni pecuniarie, il cui carattere afflittivo può risultare in concreto gravoso, in dipendenza dell’ammontare della somma.

10. L’intervento di abrogazione (D. Lgs. n. 7 del 2016).
L’art 2, comma 3, lett. a) della legge n. 67 del 2014 ha conferito delega al Governo per procedere all’abrogazione dei reati previsti da specifiche disposizioni del codice penale; la successiva lett. c) della disposizione, «fermo il diritto al risarcimento del danno», ha dato mandato al Governo di «istituire adeguate sanzioni pecuniarie civili in relazione ai reati di cui alla lettera a)».
Come evidenziato nella relazione di accompagnamento, il Parlamento mira a espungere dall’alveo del penalmente rilevante alcune ipotesi delittuose previste nel codice penale a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio, che sono accomunate dal fatto di incidere su interessi di natura privata e di essere procedibili a querela, ricollocandone il disvalore sul piano delle relazioni private; al contempo, il legislatore delegante intende riconsiderare il ruolo tradizionalmente compensativo attribuito alla responsabilità civile nel nostro ordinamento, affiancando alle sanzioni punitive dì natura amministrativa un ulteriore e innovativo strumento di prevenzione dell’illecito, nella prospettiva del rafforzamento dei principi di proporzionalità, sussidiarietà ed effettività dell’intervento penale.
I reati oggetto di abrogazione devono, dunque, essere trasformati in illeciti sottoposti a (inedite) sanzioni pecuniarie civili, chiamate a svolgere una finalità preventiva e repressiva tipica delle sanzioni punitive32, testimoniata dai principi e criteri direttivi previsti per la commisurazione, di cui alla successiva lett. e): si prevede, infatti, che le sanzioni civili siano “proporzionate” non all’entità del danno inferto, quanto «alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento del soggetto responsabile, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle sue conseguenze nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».
In applicazione della delega, l’art. 1 del decreto n. 7 del 2016 dispone l’abrogazione di una serie di delitti del codice penale.
In dettaglio.

10.1. L’abrogazione degli artt. 485 e 486 cod. pen.
L’art. 2, comma 3, lett. a), n. 1) della legge n. 67/2014 prescrive al legislatore delegato di abrogare i «delitti di cui al libro secondo, titolo VII, capo H, limitatamente alle condotte relative a scritture private, ad esclusione delle fattispecie previste all’articolo 491, ossia dei documenti privati equiparati ad atti pubblici agli effetti della pena»: in adempimento della delega, il decreto n. 7/2016 dispone (art. 1, lett. a e b) l’abrogazione dei delitti codicistici di falsità in scrittura privata, di cui all’art. 485, e di falsità di foglio firmato in bianco, di cui all’art.
486.
Questi gli adattamenti (contenuti nell’art. 2 del decreto ed illustrati nella relazione di accompagnamento) delle norme collegate a quelle abrogate, resisi necessari per effetto della sopravvenuta irrilevanza penale delle condotte aventi ad oggetto scritture private diverse dal testamento olografo o dalla cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore:
a) è stato riformulato l’art. 488, eliminando il riferimento alle “scritture private” e circoscrivendo il richiamo (in precedenza esteso ai “due articoli precedenti”, in funzione di applicazione “residuale”) al solo art. 487;
b) in conseguenza della soppressione dell’art. 485, è stato abrogato il secondo comma dell’art. 489, avente ad oggetto l’ipotesi di uso di atto falso in scrittura privata, da parte di chi non sia concorso nella falsità; l’ipotesi particolare dell’uso di testamento olografo o di cambiale o titolo di credito falso, da parte di chi non sia concorso nella falsità, è invece presa in considerazione dall’art. 491, comma 2;
c) il riferimento alla scrittura privata vera, contenuto nell’art. 490, è stato sostituito dal richiamo al testamento olografo o alla cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore, in aggiunta al dolo specifico contemplato dall’art. 489, comma 2 (in origine applicabile in virtù dell’art, 490, comma 2);
d) anche il secondo comma dell’art. 490 è stato oggetto di abrogazione, risultando ormai privo di qualunque funzionalità in rapporto alle falsità in scritture private eccettuate dalla depenalizzazione (alle quali la previsione in tema di dolo specifico risulta de plano applicabile, per effetto della riformulazione degli artt. 490 e 491);
e) in sede di riformulazione dell’art. 491 cod. pen. (la cui nuova rubrica è: «Falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito»), la rilevanza penale delle condotte di falsificazione prese in considerazione agli artt. 476 (482), 487 e 488, con riferimento agli atti pubblici, è stata estesa agli oggetti materiali presi in considerazione dalla legge delega in funzione limitativa della depenalizzazione, ossia il testamento olografo, la cambiale o il titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore. Per effetto dell’abrogazione degli artt. 485 e 486 (e della riscrittura dell’art. 488), la natura giuridica della disposizione di cui all’art. 491, comma 1, è destinata, dunque, a mutare: al posto dell’originaria circostanza aggravante (applicabile agli artt. 485, 488 e 490), subentra una nuova fattispecie autonoma. Viene, inoltre, confermato il trattamento sanzionatorio già previsto nella formulazione originaria dell’art. 491 (in luogo della pena stabilita dall’articolo 485 cod. pen. per le falsità materiali in scrittura privata), ossia l’applicabilità delle pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482 (a seconda che il fatto sia commesso dal pubblico ufficiale oppure da un soggetto privato). Il capoverso dell’art. 491 concerne la disciplina applicabile al soggetto che, non avendo preso parte alla falsificazione, faccia uso degli atti suddetti (testamento olografo, cambiale, ecc.), rinviando – quod poenam – alla previsione di cui all’art. 489 (uso di atto pubblico falso);
f) in conseguenza del venir meno della rilevanza penale delle falsità aventi ad oggetto scritture private (e della sostanziale inapplicabilità della disposizione alle falsità in scritture private eccettuate dalla depenalizzazione), è stato eliminato dalla formulazione dell’art. 491-bis (Documenti informatici) il riferimento ai documenti informatici privati aventi efficacia probatoria;
g) infine, il disposto dell’art. 493-bis (Casi di perseguibilità a querela) è stato adeguato: all’abrogazione degli artt. 485 e 486, eliminando, appunto, il riferimento ai predetti articoli; alla riformulazione degli artt. 488, 489, 490 e 491, con la conseguente limitazione del campo di applicazione dell’art. 493-bis alle sole disposizioni aventi ad oggetto condotte incidenti su un testamento olografo o su una cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (artt. 490 e 491), prevedendo la procedibilità d’ufficio, nel primo caso, e la punibilità a querela della persona offesa, nel secondo.

10.2. L’abrogazione dell’ingiuria.
L’art. 2, comma 3, lett. a), n. 2) della legge n. 67/2014 prescrive di abrogare il delitto di cui all’art. 594 cod. pen.; nel compiere la delega (art. 1, lett. c), il legislatore delegato ha proceduto ai necessari adattamenti – cfr. articolo 2, comma 1, lett. g), h), i) del decreto n. 7/2016 – degli artt. 596 (Esclusione della prova liberatoria), 597 (Querela della persona offesa ed estinzione del reato) e 599 (Ritorsione e provocazione), circoscrivendo il raggio di operatività delle previsioni in essi contenute alla sola fattispecie di diffamazione.

10.3. L’abrogazione degli artt. 627 e 647 cod. pen.
In esecuzione della delega contenuta nell’art. 2, comma 3, lett. a), n. 3 e n. 6) della legge n. 67/2014, il decreto n. 7/2016 (art. 1 lett. d) ed e) dispone l’abrogazione dei delitti di sottrazione di cose comuni e di appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito.
L’abolizione dei reati di cui agli artt. 627 e 647 cod. pen. potrebbe avere ripercussioni concrete sul delitto di cui all’art. 648 cod. pen., tutte le volte in cui l’oggetto della condotta di ricettazione è costituito da cose a loro volta oggetto dei primi delitti, ora espunti dal catalogo penale; al riguardo, deve peraltro ricordarsi come la costante giurisprudenza di legittimità confina tale effetto alle sole condotte di ricettazione commesse successivamente alla entrata in vigore della soppressione dei reati presupposti, sul principio che «la provenienza da delitto dell’oggetto materiale del reato è elemento definito da norma esterna alla fattispecie incriminatrice, di talché l’eventuale abrogazione o le modifiche di tale norma non assumono rilevanza ai sensi dell’art. 2 cod. pen., e la rilevanza del fatto, sotto il profilo in questione, deve essere valutata con esclusivo riferimento al momento in cui è intervenuta la condotta tipica di ricezione della cosa od intromissione affinché altri la ricevano».
Si è ritenuto che potrebbero esservi riflessi anche sul delitto di calunnia, per esempio nella tipica ipotesi di falsa denuncia di smarrimento di assegno dopo la sua consegna al prenditore (proposta per impedire la riscossione dello stesso o il protesto in mancanza di provvista), in quanto la natura di reato di pericolo della fattispecie di cui all’art. 368 cod. pen. potrebbe far escludere la configurabilità della calunnia per effetto del venire meno del reato ex art. 647 cod. pen., sia quando esso costituisce l’oggetto diretto della falsa incolpazione, sia quando opera come reato presupposto della falsa accusa di ricettazione: in attesa delle prime pronunce della giurisprudenza, dalla più volte ritenuta sufficienza, per l’integrazione del reato di pericolo ex art. 368 cod. pen., della possibilità che l’autorità giudiziaria dia inizio al procedimento per accertare il reato incolpato con danno per il normale funzionamento della giustizia, potrebbe derivare la permanenza della perseguibilità per la calunnia già consumata prima della intervenuta depenalizzazione; salvo non ritenere, in linea con diversa opinione, che nella particolare ipotesi di falsa denuncia di smarrimento di assegno, in ragione della certa rintracciabilità del soggetto emittente (per effetto dei dati riportati sul mezzo di pagamento), il reato oggetto della falsa incolpazione sia sempre e soltanto il furto, e non quello di cui all’art. 647 o 648 cod. pen., e che quindi l’intervenuta depenalizzazione non incida, tanto per il passato che il futuro, sul delitto di calunnia.

10.4. La “riscrittura” del reato di danneggiamento.
Il decreto legislativo n. 7/2016 contiene, infine, alcune modifiche delle disposizioni codicistiche concernenti i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose.
Va premesso che l’art. 2, comma 3, lett. a), n. 4, della legge delega contempla l’abrogazione delle ipotesi di cui agli artt. 631 (Usurpazione), 632 (Deviazione di acque e modificazioni dello stato dei luoghi) e 633 (Invasione di terreni o edifici), primo comma, cod.
pen., «escluse le ipotesi di cui all’art. 639-bis» (Casi di esclusione della perseguibilità a querela), ovvero i casi in cui le condotte tipiche riguardino acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico.
Il legislatore delegato ha ritenuto, tuttavia, di non esercitare la delega con riferimento alla abrogazione delle fattispecie di reato di cui agli articoli 631, 632, 633 procedibili a querela aventi ad oggetto acque, fondi o immobili privati, rimarcandone la natura di condotte che, seppur attualmente ancora di scarsa incidenza sul carico giudiziario, meritano di conservare rilievo penale, in quanto attengono a fenomeni di occupazione di luoghi privati purtroppo in via di espansione.
Il decreto ha inteso, poi, dare attuazione all’art. 2, comma 3, lett. a), n. 5, della delega, che prevede l’abrogazione del (solo) primo comma dell’art. 635 cod. pen. (Danneggiamento), non attraverso una formale previsione di soppressione (al pari di quelle precedenti), bensì mediante la riformulazione di tale disposizione, con la contestuale “trasformazione” delle ipotesi circostanziali di cui al comma secondo di tale articolo in corrispondenti fattispecie autonome (articolo 2, comma 1, lett. l).
Nella relazione di accompagnamento si rende ragione di tale scelta metodologica, rivendicando trattarsi non di una riscrittura arbitraria delle disposizioni incriminatrici ad opera del legislatore delegato (teoricamente chiamato dalla legge delega soltanto ad un’opera di depenalizzazione e non a quella di una diversa costruzione delle fattispecie penali non toccate dall’intervento depenalizzante), quanto piuttosto del tenere conto, nella scrittura materiale di quanto delegato dal Parlamento, delle espunzioni che sono conseguenza della previsione di depenalizzazione, al fine di assicurare la piena intellegibilità della disposizione incriminatrice; valgono – anche in questo caso – le osservazioni in precedenza formulate in ordine ai margini di discrezionalità e di scelta nell’esercizio della delega, alla luce della giurisprudenza costituzionale.
In concreto, il nuovo art. 635 cod. pen. (Danneggiamento) dispone che «Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall’articolo 331, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». Il legislatore delegato ha, dunque, ritenuto di indicare come condotta di danneggiamento che conserva rilievo penale quella commessa su beni, sia pubblici che privati, in occasione dello svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, reputando che l’esecuzione del danneggiamento durante lo svolgimento di una manifestazione pubblica sia una condotta intrinsecamente minacciosa, dì particolare effetto intimidatorio e pericolosità sociale, tale da meritare una espressa menzione.
Il nuovo comma 2 dell’art. 635 contempla ora – come detto – ipotesi autonome di reato, laddove dispone che alla stessa pena prevista dal primo comma soggiace chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le categorie di beni già previste nella precedente formulazione della norma.
Le modifiche, infine, apportate in chiave di coordinamento agli artt. 635-bis, 635-ter, 635- quater e 635-quinquies cod. pen., dipendono dal fatto che il riferimento normativo alla circostanza di cui al numero 1) del secondo comma dell’articolo 635 non è più attuale, in quanto “superato” dalla nuova formulazione della incriminazione (articolo 2, comma 1, lett. m, n, o, p).

11. Le sanzioni pecuniarie civili.
L’elemento di evidente novità del decreto recante l’abrogazione di alcune fattispecie di reato è la previsione di una inedita figura sanzionatoria, quella delle “sanzioni pecuniarie civili”.
In particolare, il Capo secondo del decreto n. 7/2016 (artt. 3-13), intitolato «Illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili», ha ad oggetto sia la tipizzazione degli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili, in attuazione dell’art. 2, comma 3, lett. c) e d), della legge delega, sia le norme di disciplina di carattere sostanziale e processuale.
Il carattere informativo e ricognitivo della presente relazione circoscrive l’analisi alla descrizione delle principali caratteristiche della nuova figura introdotta (sulla falsariga della relazione di accompagnamento allo schema del decreto), cui si aggiunge una limitata esplorazione dei primi profili di problematicità evidentemente legati all’assenza di sicuri conforti normativi e giurisprudenziali.
L’articolo 3 (Responsabilità civile per gli illeciti sottoposti a sanzione pecuniaria) costituisce la norma fondante del nuovo sistema: il primo comma della disposizione prevede che, qualora i fatti previsti dal successivo comma 4 siano commessi dolosamente, obblighino, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, a norma delle leggi civili, anche al pagamento della sanzione civile pecuniaria stabilita dalla legge. Il legislatore ha dunque previsto che solo la commissione di uno di tali illeciti in forma dolosa può comportare l’applicazione aggiuntiva di una sanzione punitiva di natura civile, adottando una scelta disciplinare omogenea rispetto al coefficiente soggettivo d’imputazione in origine previsto in sede penale ai fini della responsabilità.
Il secondo comma chiarisce che il termine prescrizionale per l’obbligo del pagamento della sanzione pecuniaria civile è lo stesso di quello concernente il risarcimento del danno (richiamando espressamente l’art. 2947, comma 1, cod. civ.).
La puntuale tipizzazione degli illeciti – contenuta, come detto, nell’art. 4 del decreto – tiene conto del tenore letterale della legge delega e, cioè, da un lato, della previsione dell’istituzione di sanzioni pecuniarie civili «in relazione ai reati di cui alla lettera a)» e, dall’altro, di quanto prescritto dalla delega a proposito dell’individuazione tassativa «delle condotte alle quali si applica» la sanzione pecuniaria civile; nel dare contenuto alle fattispecie, il legislatore delegato ha tuttavia – in linea di principio – mantenuto immutati i confini delle fattispecie abrogate.
Per quanto concerne, invece, la determinazione dei limiti edittali, in conformità alla prescrizione proveniente dal delegante di indicare tassativamente «l’importo minimo e massimo della sanzione», il legislatore ha ritenuto preferibile, considerata la natura civilistica delle sanzioni pecuniarie, prevedere due distinte clausole generali sanzionatorie, caratterizzate da un grado di crescente afflittività: la prima spazia da euro cento ad euro ottomila; la seconda da euro duecento ad euro dodicimila; conseguentemente, gli illeciti civili sono stati ripartiti in due gruppi corrispondenti alle due previsioni sanzionatorie sopraindicate, secondo la loro diversa gravità desunta dalle originarie pene.
Con particolare riferimento all’illecito di ingiuria, il decreto ha adattato i contenuti normativi dell’art. 599 cod. pen. al nuovo contesto della tutela sanzionatoria civile: si prevede, infatti, che il giudice possa non applicare la sanzione pecuniaria civile sia in caso di ritorsione (articolo 4, comma 2), che in caso di provocazione (articolo 4, comma 3). Il legislatore delegato ha giudicato, inoltre, inopportuno prevedere per l’illecito civile di ingiuria una disposizione analoga a quella contemplata dall’art. 596 cod. pen. in tema di esclusione della prova liberatoria: alla base di tale scelta sono state poste sia esigenze di semplificazione, sia, soprattutto, la convinzione che, a seguito della depenalizzazione dell’ingiuria, sia preferibile rimettere la questione al prudente apprezzamento del giudice civile. Infine, il decreto prevede un trattamento sanzionatorio più afflittivo (articolo 4, comma 4, lett e), per le ipotesi di “ingiuria qualificata”, in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato o sia commessa in presenza di più persone (originariamente previste dall’art. 594, commi 3 e 4, cod. pen.).
Con particolare riguardo agli illeciti civili aventi ad oggetto falsità in scritture private (articolo 4, comma 4, lett. a, b, c, d), il legislatore delegato ha stimato conveniente – in considerazione della stretta connessione con l’azione di risarcimento del danno – eliminare i riferimenti normativi al fine di profitto, circoscrivendo la punibilità alle sole ipotesi effettivamente produttive di danno.

11.1. (segue) La disciplina.
Nel silenzio della legge delega in ordine alla disciplina dei nuovi illeciti civili, il legislatore delegato ha provveduto ad individuare due aspetti fondamentali caratterizzanti il nuovo istituto.
La prima scelta è quella di affidare al giudice civile la competenza ad irrogare le sanzioni pecuniarie civili, ritenendola logica conseguenza del ruolo accessorio attribuito dal delegante all’istanza punitiva rispetto al profilo compensativo.
La seconda opzione concerne la previsione della devoluzione delle somme esatte a titolo di sanzioni pecuniarie civili in favore dello Stato, sub specie della Cassa delle ammende.
La disposizione non trova riscontro in una direttiva della legge delega, che però sul punto è stata interpretata in senso quanto meno non ostativo, pur nel contesto di un quadro normativo caratterizzato da scelte dissonanti (posto che nell’ordinamento sono previste anche ipotesi in cui del provento della pena privata beneficia la persona offesa dall’illecito, come nel caso, ad esempio, dell’art. 12 l.n. 47 del 1948, c.d. legge sulla stampa, in riferimento alla riparazione pecuniaria, prevista in aggiunta rispetto al risarcimento dei danni): a favore della destinazione pubblicistica della sanzione, la relazione governativa di accompagnamento allo schema di decreto pone la funzione general-preventiva e compensativa sottesa alla minaccia della sanzione pecuniaria civile, nonché la vocazione pubblicistica di quest’ultima, che renderebbe incoerente la destinazione del provento alla persona offesa.
Il decreto fissa, poi, le regole essenziali alle quali deve uniformarsi il giudice civile in sede di accertamento della responsabilità, dal punto di vista sostanziale.
L’art. 5 (criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie) stabilisce che, in sede di determinazione dell’importo, il giudice si attenga ad un parametro di proporzionalità alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento del soggetto responsabile, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della propria azione, alla personalità e alle condizioni economiche dell’agente.
L’espresso riferimento all’indice di commisurazione rappresentato dalla reiterazione dell’illecito ha reso, perciò, indispensabile disciplinare i presupposti e le condizioni necessarie perché l’illecito sia considerato “reiterato”: l’art. 6 (Reiterazione dell’illecito) prevede che si abbia reiterazione quando l’illecito civile è compiuto entro quattro anni dalla commissione, da parte dello stesso soggetto, di un’altra violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile che sia della stessa indole e che sia stata accertata con provvedimento esecutivo. Sempre in rapporto alla reiterazione quale indice di commisurazione della sanzione, i commi 2 e 3 della disposizione in esame precisano, rispettivamente, la nozione di “violazioni della stessa indole” in termini sostanzialmente omogenei alle indicazioni normative di cui all’art. 8-bis l. n. 689 del 1981, in tema di reiterazione della violazione amministrativa.
L’articolo 7 (Concorso di persone) prende, invece, in considerazione l’eventualità che alla realizzazione di uno o più illeciti previsti all’articolo 4 cooperino più individui, disponendo – in linea con quanto stabilito dall’art. 5 l.n. 689 del 1981 – che, in tal caso, ciascun concorrente soggiaccia alla correlativa sanzione pecuniaria civile.
Gli articoli 8 e 9 sono dedicati alla disciplina processuale.
Il legislatore delegato, anche tenuto conto della funzione marcatamente general-preventiva sottesa alla comminatoria della sanzione pecuniaria civile e delle connotazioni pubblicistiche del profilo “punitivo”, ha inteso non far dipendere l’applicazione della sanzione pecuniaria dalla volontà della “persona offesa”, ritenendo tale opzione sostanzialmente imposta dalla previsione della destinazione pubblicistica del provento della stessa. E’ previsto, dunque, che il giudice possa irrogare la sanzione pecuniaria civile solo nel caso in cui accolga la domanda di risarcimento del danno. Nel silenzio del legislatore delegante, non è stata introdotta alcuna norma di disciplina volta a incidere sul quantum di prova necessario ai fini dell’inflizione della sanzione punitiva, ritenendosi sufficiente il raggiungimento del livello probatorio normalmente occorrente in un processo civile e, in particolare, ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento del danno: la scelta di uniformare lo standard probatorio, allineandolo a quello contemplato nell’ordinamento civile, è giustificata – nella relazione di accompagnamento – da esigenze di coerenza e di funzionalità pratico-applicativa.
Il terzo comma dell’articolo 8 in esame stabilisce che il giudice non possa applicare la sanzione pecuniaria civile qualora l’atto introduttivo sia stato notificato nella peculiare forma stabilita dal codice di procedura civile in caso di persona irreperibile. Poiché nel processo penale la stessa legge n. 67 del 2014 ha introdotto norme che consentono di pervenire alla condanna solo laddove l’imputato abbia avuto conoscenza certa del procedimento a suo carico, al fine di assicurare analoghe garanzie nell’ambito della tutela sanzionatoria civile, si è escluso che il giudice possa irrogare la sanzione laddove la notifica dell’atto introduttivo sia avvenuta nelle forme di cui all’art. 143 cod. proc. civ., concernente le modalità di notificazione a persona irreperibile. Peraltro, le predette garanzie e cautele vengono meno laddove, anche nel corso del giudizio, emerga con certezza che il convenuto, sebbene non costituitosi, abbia avuto conoscenza della pendenza del procedimento.
In funzione di “chiusura” delle norme di disciplina di natura processuale, il comma 4 dell’articolo 8 stabilisce che, ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria civile, si osservano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili: il riferimento all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile è spiegato anche come mezzo di assicurazione circa il rispetto delle garanzie processuali minime per l’irrogazione di una sanzione che, per quanto di natura civilistica36, ha una ineliminabile componente afflittiva che, in qualche modo, potrebbe assimilarla ad una sanzione tipica della “materia penale”, alla stregua della giurisprudenza della Corte EDU sui diritti convenzionali all’equo processo.
L’articolo 9 (Pagamento della sanzione) rinvia ad un successivo decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, per quel che concerne la disciplina delle modalità e del termine di pagamento, nonché delle forme di riscossione dell’importo dovuto; la medesima disposizione prevede, altresì, la possibilità e le modalità di rateizzazione dell’adempimento, il divieto di copertura assicurativa e la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di pagamento (sulla falsariga di quanto già previsto dall’art. 7 legge n.689/1981, in tema di illeciti amministrativi), in considerazione del carattere “personale” della responsabilità da illecito sottoposto a sanzione civile pecuniaria.
Si è prevista espressamente la rateizzazione per ragioni di omogeneità con le sanzioni amministrative, stante comunque la successiva previsione della devoluzione dei proventi alla Cassa delle ammende quale istituto pubblico, e non ai privati.
Come già accennato, nel silenzio della delega, il decreto (art. 10 – Destinazione del provento della sanzione) ha ritenuto maggiormente in linea con la finalità general-preventiva attribuita dal legislatore all’istituto delle sanzioni pecuniarie civili prevedere che i proventi di queste ultime siano devoluti a favore della Cassa delle ammende. Peraltro, a favore della soluzione adottata, si è pure indicata la necessità di non accrescere il contenzioso civile che, invero, sarebbe alimentato facendo intravedere all’offeso una seria possibilità di arricchimento37.
Al fine di assicurare la concreta operatività della disposizione in materia di reiterazione, l’articolo 11 (Registro informatizzato dei provvedimenti in materia di sanzioni pecuniarie civili) stabilisce che, con decreto del Ministro della Giustizia, siano adottate norme aventi ad oggetto la tenuta di un registro, in forma automatizzata, per l’iscrizione dei provvedimenti con cui il giudice applica la sanzione pecuniaria civile.
Nel silenzio della legge delega riguardo alla disciplina intertemporale, il legislatore – analogamente a quanto operato in sede di depenalizzazione – ha ritenuto di introdurre (articolo 12) una disciplina transitoria per i fatti commessi in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del decreto, per i quali non sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, prevedendo, in deroga alla regola generale sull’efficacia della legge nel tempo indicata dall’art.
11 disp. prel. cod. civ., l’applicazione della sanzione pecuniaria civile quando la parte danneggiata decida di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno e disponendo in tal caso l’applicazione delle disposizioni relative al processo civile.
In ordine ai procedimenti penali in corso, se ancora in fase di indagine il Pubblico Ministero dovrà evidentemente procedere secondo le forme consuete, richiedendo l’archiviazione perché il fatto non è (più) previsto come reato; se invece l’azione penale è stata esercitata, trova applicazione la regola generale dell’art. 129 cod. proc. pen., per la quale il giudice, “in ogni stato e grado del processo”, dichiara di ufficio con sentenza che il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.
L’ipotesi invece di già intervenuta condanna irrevocabile per uno dei reati oggetto di abrogazione è specificamente regolata dal comma secondo dell’art. 12 del d. lgs. n. 7/2016, secondo il quale «Se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice dell’esecuzione provvede con l’osservanza delle disposizioni dell’articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale».
Un ultimo interrogativo riguarda la possibilità per il giudice penale, contestualmente alla sentenza di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, di provvedere sul risarcimento del danno reclamato dall’eventuale parte civile e, congiuntamente, sulle parallele nuove sanzioni pecuniarie civili; facoltà che risponderebbe al fine di non costringere la parte civile a coltivare una nuova defatigante azione davanti al giudice civile, con quanto ne consegue anche in termini di pericolo di prescrizione dell’illecito civile medesimo.
Al riguardo, l’assenza di una disposizione transitoria analoga a quella indicata dall’art. 9, comma 3, del decreto legislativo n. 8 del 2016 – secondo cui nei procedimenti penali per i reati depenalizzati da quel decreto, quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili – sembrerebbe far propendere per la opposta soluzione secondo cui il giudice deve limitarsi alle statuizioni penali, essendo onere della parte offesa (anche ove costituita come parte civile nel processo penale così definito), di promuovere eventuale azione davanti al giudice civile, competente anche per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili; la parallela regola individuata per la depenalizzazione pare, infatti, costituire un’eccezione, nominativamente prevista (al pari dell’art. 578 cod. proc. pen.), alla disciplina generale di cui all’art. 538 cod. proc. pen. – secondo cui il giudice penale decide anche sulla responsabilità civile solo quando pronuncia sentenza di condanna – e come tale, dunque, non suscettibile di applicazione analogica.

Redattori: Pietro Molino Luigi Barone Alessandro D’Andrea Maria Emanuela Guerra Il vice direttore Giorgio Fidelbo

Articolo tratto da: Massimario della Corte di Cassazione

Tags: DepenalizzazioneReato

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      • Interessi appalti pubblici
      • Piano di ammortamento
      • Tasso di interesse Tan e Taeg
      • Interessi legali
    • Termini date e scadenze
      • Giorni tra due date
      • Data futura o passata
      • Età anagrafica esatta
      • Prescrizione diritti
      • Termini processuali
    • Contributo unificato Diritti di copia
      • Diritti di copia
      • Contributo unificato
    • Fatturazione imposte e tasse
      • Nuova IMU
      • Imu e Tasi
      • Imposte compravendita
      • Imposte locazione
      • Fattura diretta e inversa
      • Scorporo IVA
    • Rivalutazione proprietà rendite
      • Quote ereditarie
      • Usufrutto nuda proprietà
      • Valore catastale immobili
      • Rivalutazione Istat
      • Svalutazione monetaria
      • Pensione di reversibilità
    • Patteggiamento e mediazione
      • Costi mediazione civile
      • Aumento riduzione pena
    • Compenso professionale
      • Compenso curatore fallimentare
      • Compenso delegato alla vendita
      • Calcolo fattura avvocato
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    • Percentuali e quote
      • Calcolo percentuale diretto ed inverso
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      • Calcolo quote percentuali
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      • Tabella diritti di copia
      • Contributo unificato
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