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Home » Civile e procedura civile » Cassazione civile , sez. I, 8 ottobre 2008, n. 24866

Cassazione civile , sez. I, 8 ottobre 2008, n. 24866

RedazionediRedazione
5 Aprile 2016
inCivile e procedura civile, Sentenze
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Fatto

1.- La Meridiana s.p.a. Costruzioni Generali (infra, Meridiana), con atto notificato il 28 gennaio 2003, dava corso all’arbitrato oggetto dell’art. 11, del contratto di appalto stipulato il 3 giugno 2002 con la Laus Automobili s.p.a. (successivamente, Laus Holding s.p.a., di seguito, Laus), chiedendo la condanna di quest’ultima a pagare Euro 1.047.154,02, quale corrispettivo delle opere realizzate in virtù di detto contratto.
La Laus, con atto notificato il 15 febbraio 2003, designava il proprio arbitro, contestando la fondatezza della domanda; inoltre, deduceva l’avvenuta risoluzione del contratto, lamentando vizi delle opere realizzate e chiedendo, in riconvenzionale, la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni.
Il collegio arbitrale (di seguito, Collegio), nella udienza del 24 maggio 2003, sull’accordo delle parti, deliberava di osservare il rito di cognizione ordinario disciplinato dal codice di procedura civile.
Per quanto qui interessa, il Collegio:
a) con ordinanza del 21 novembre 2003 prorogava il termine per la pronuncia del lodo al 15 giugno 2004, disponendo procedersi all’assunzione di c.t.u.; b) con ordinanza del 9 dicembre 2003 sostituiva il c.t.u., disponendo che il consulente non avrebbe potuto tenere conto della documentazione prodotta dalla Laus con memorie depositate tardivamente il 3 ed il 18 novembre 2003, dichiarando decaduta la convenuta dalla prova per testi ed inammissibile la prova per testi articolata dalla Meridiana; c) nella udienza del 18 dicembre 2003 nominava un nuovo c.t.u., stante la rinuncia da parte di quello designato con l’ordinanza del 9 dicembre 2003;
d) con ordinanza del 30 dicembre 2003, rigettava l’istanza delle parti di revoca dell’ordinanza sub b).
All’udienza del 16 marzo 2004 le parti precisavano le conclusioni ed il Collegio disponeva l’acquisizione di una relazione di consulenza suppletiva, differendo la precisazione delle conclusioni all’udienza del 26 marzo 2004, rinviata al 29 marzo 2004, per assumere chiarimenti dal consulente.
Il Collegio, con ordinanza del 3 maggio 2004, disponeva la comunicazione alle parti della nota integrativa inoltrata il 14 aprile 2004.
Gli arbitri, riunitisi il 13 maggio 2004, dichiaravano irricevibili una serie di documenti indicati nella narrativa della sentenza qui impugnata (pg. 16); con lodo del 3 giugno 2004, comunicato alle parti il 9 giugno 2004:
– condannavano la Laus a pagare Euro 1.054.051,31, oltre IVA ed interessi legali dal 28 gennaio 2003, nonché il 60% delle spese di lite, dichiarando compensato tra le parti il residuo 40%;
– condannavano la Laus a pagare le spese della c.t.u., ponendo la residua parte a carico della Meridiana;
– condannavano la Laus a pagare il 60% delle spese del procedimento arbitrale (comprensive del compenso degli arbitri, da liquidare con separata ordinanza), ponendo la residua parte a carico della Meridiana.
2.- La Laus, con atto notificato il 13 ottobre 2004, conveniva in giudizio la Meridiana innanzi alla Corte d’appello di Salerno, deducendo la nullità del lodo e chiedendo che, previo espletamento di istruttoria, fosse dichiarato risolto il contratto di appalto per inadempimento della appellata, della quale chiedeva la condanna a pagare il costo delle prestazioni svolte dall’ing. R., nonché gli interessi di prefinanziamento sopportati per il ritardo dell’appaltatore.
La Meridiana si costituiva in giudizio, deducendo l’infondatezza della domanda e proponeva appello incidentale (dichiarato assorbito ed il cui contenuto non è indicato nella sentenza impugnata).
La Corte d’appello di Salerno, con sentenza del 25 ottobre 2006, rigettava l’impugnazione del lodo, affermando che tale rigetto non consente (…) l’esame delle doglianze incidentalii (non indicate nella pronuncia), condannando la Laus a pagare le spese del giudizio.
La pronuncia riteneva infondato il primo motivo, con il quale era stata denunciata la nullità del lodo per decorrenza del termine di cui all’art. 820 c.p.c., contestando l’applicabilità della sospensione processuale dei termini nel periodo feriale. Il giudice del merito affermava che il Collegio arbitrale, con norma di comportamento adottata in liminee aveva disposto il rinvio (…) tout court al rito ordinario disciplinato dal c.p.c.., quindi a tutte le norme che lo scandiscono, ivi compresa, pertanto, la disciplina della sospensione dei termini processuali durante il periodo ferialee (pg. 31).
A conforto, la sentenza osservava che il lodo arbitrale costituisce una risoluzione negoziale della controversiaa, quindi ad esso è applicabile il principio di conservazione del negozio stabilito dall’art. 1367 c.c..
Sul secondo motivo, con il quale era stata denunciata la violazione del principio del contraddittorio, in quanto non erano state ammesse le prove articolate dalla Laus, perché tardive, la Corte d’appello osservava che, avendo gli arbitri stabilito che il procedimento era disciplinato dalle norme del codice di rito civile, era applicabile l’art. 177 c.p.c..
Pertanto, gli arbitri potevano rilevare d’ufficio la decadenza dalla produzione di documenti e mezzi di prova.
La sentenza reputava, infine, non meritevole di accoglimento il terzo motivo di appello, con il quale era stata denunciata violazione di regole di diritto, quindi un error in iudicando, poiché di risolveva nella mera deduzione di erroneità, ovvero nella prospettazione di una interpretazione diversa, senza l’analitica indicazione di quali criteri ermeneutica gli arbitri abbiano mancato di osservaree.
La pronuncia affermava, infine, che la mancata dichiarazione della nullità del lodo impediva di passare alla fase rescissoria.
3.- Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso la Laus, affidato a sei motivi, illustrati con memoria; ha resistito con controricorso il Fallimento della Meridiana (la società è stata dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Nocera del 15 febbraio 2006), che ha anche depositato memoria.

Diritto

1.- La ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione di legge e, in particolare, dell’art. 816 c.p.c.; dell’art. 820 c.p.c., commi 1 e 4; dell’art. 829 c.p.c., comma 6, in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 33.
La Laus premette che il collegio arbitrale è stato costituito con l’accettazione della nomina da parte del terzo arbitro in data 10 maggio 2003, quindi il termine di 180 giorni per la pronuncia del lodo scadeva il 7 novembre 2003; con atto notificato agli arbitri ed alla Meridiana in data 20 novembre 2003 aveva manifestato la volontà di avvalersi della decadenza del termine.
A suo avviso, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la determinazione degli arbitri di applicare le norme del codice di rito civile comportava l’applicabilità della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale prevista dalla L. n. 742 del 1969.
Secondo la ricorrente, l’arbitrato da luogo ad un rapporto contrattuale, dal quale sorge l’obbligo degli arbitri di osservare il termine di pronuncia del lodo, che costituisce un termine sostanziale, di natura contrattuale, al quale non è applicabile la citata sospensione. Siffatta natura del termine sarebbe confortata dalla considerazione che la proroga e la decadenza sono riservate alle parti, appunto perché si tratta di determinazione concernente il contenuto del contratto.
Inoltre, la L. n. 742 del 1969, art. 1, stabilisce testualmente l’applicabilità della sospensione alle sole giurisdizioni ordinarie ed amministrative, quindi non è riferibile al procedimento arbitrale. In relazione a detto procedimento neppure sussistono le esigenze organizzative che giustificano la sospensione (conseguenti dal fatto che la maggior parte dei magistrati fruiscono delle ferie), mentre le esigenze di speditezza che sono alla base della scelta delle parti per l’arbitrato rendono incompatibile con il medesimo la sospensione in esame.
L’applicabilità della sospensione comporterebbe, infine, una proroga che le norme in tema di arbitrato riservano alle parti.
Pertanto, la sentenza avrebbe erroneamente ritenuto applicabile la sospensione, affermando che essa può essere adottata in limine dal Collegio arbitrale all’unanimità.
In conclusione la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: Dica l’ecc.ma Corte se è facoltà degli arbitri in un arbitrato rituale estendere, con il provvedimento di disciplina della procedura, assunto ex art. 816 c.p.c., comma 3, la sospensione feriale di cui alla L. n. 742 del 1969, al termine stabilito dall’art. 820 c.p.c., per l’assunzione della decisione.
La Laus, con il secondo motivo, denuncia nullità della sentenza per assoluta mancanza di motivazione in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 55.
A suo avviso, con il primo motivo di impugnazione del lodo aveva dedotto che il provvedimento degli arbitri del 24 maggio 2003, con il quale avevano deciso che il procedimento doveva ritenersi regolato dalle norme del codice di rito civile, non poteva riferirsi anche alla L. n. 742 del 1969.
La censura è stata rigettata dalla Corte territoriale con la seguente motivazione: come chiaramente emerge dalla norma di comportamento adottata in limine dal Collegio arbitrale, all’unanimità, il rinvio fu disposto tout court al rito ordinario disciplinato dal c.p.c.., quindi a tutte le norme che lo scandiscono, ivi compresa la disciplina della sospensione feriale dei terminii.
Secondo la ricorrente, la sentenza avrebbe contraddittoriamente riferito il contenuto del provvedimento a norme site al di fuori del c.p.c. e, comunque, non avrebbe esplicitato le ragioni della conclusione.
Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione di legge e specificamente dell’art. 1367 c.c., in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 33.
La Laus, ancora con riferimento alla questione del termine di pronuncia del lodo, deduce che la sentenza ha ritenuto che l’applicabilità della sospensione in esame conseguirebbe anche dalla regola dell’art. 1367 c.c.. Tuttavia, avrebbe fatto ricorso a tale norma per interpretare il provvedimento degli arbitri e ritenere che si riferisse anche alla L. n. 742 del 1969, con esito in contrasto con la lettera e la ratio della medesima, che sarebbe quella i conservare l’efficacia del negozio, non di ampliarne il contenuto, secondo un principio enunciato da Cass. n. 3293 del 1997.
In riferimento a detto mezzo, la ricorrente formula, infine, il seguente quesito di diritto: Dica l’ecc.ma Corte se l’art. 136 c.c., autorizza il Giudice ad interpretare un atto negoziale in modo da attribuire ad esso un effetto maggiore rispetto a quello, pur sempre utile, emergente dalla sua letteraa.
La ricorrente, con il quarto motivo, denuncia violazione e falsa applicazione di legge e specificamente della L. n. 742 del 1969, art. 1, in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 33, ancora in riferimento alla parte della sentenza che ha ritenuto applicabile la sospensione dei termini nel periodo feriale al termine sopra indicato.
Secondo la Laus, il termine dell’art. 820 c.p.c., benchè previsto da una norma del codice di rito, non ha natura processuale, bensì contrattuale; quindi anche ritenendo applicabile la L. n. 742 del 1969, al procedimento arbitrale, comunque non potrebbe riguardare il termine in esame.
In relazione a detto motivo, la Laus formula il seguente quesito di diritto Dica l’ecc.ma Corte se la sospensione feriale dei termini processuali di cui alla L. n. 742 del 1969, art. 1, ove pure richiamata dagli arbitri col provvedimento che stabilisce le norme da osservare per il procedimento, possa riguardare il termine contrattuale per la decisione di un arbitrato rituale, così come stabilito dalle parti o, in mancanza, dall’art. 820 c.p.c…
1.2.- Con il quinto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione di legge e specificamente dell’art. 816 c.p.c., art. 828 c.p.c., comma 1, n. 9, in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 33.
La Laus premette che all’udienza ex art. 183 c.p.c., del 3 ottobre 2003 gli arbitri disposero rinvio all’udienza del 17 ottobre 2003, ai sensi dell’art. 184 c.p.c., concedendo i doppi termini di cui al primo comma di detta norma.
Tuttavia, gli arbitri, con ordinanza del 9 dicembre 2003, revocarono il provvedimento d autorizzazione al deposito dei documenti ed alla formulazione di istanze istruttorie, dichiarando decaduta essa ricorrente da ogni prova, per scadenza dei termini previsti dal codice di rito civile.
Ad avviso della Laus, il provvedimento di revoca non sarebbe giustificato da alcuna disposizione imperativa ed avrebbe leso il suo diritto al contraddittorio. Siffatta censura è stata rigettata dalla Corte territoriale, ritenendo che, avendo gli arbitri stabilito che il procedimento era disciplinato dalle norme del codice di rito civile, era applicabile l’art. 177 c.p.c..
La ricorrente richiama quindi Cass. n. 12517 del 1993 e n. 10192 del 1999, per sostenere che il giudizio arbitrale è caratterizzato dalla libertà delle forme e gli arbitri possono modificare le regole del codice di rito civile, anche qualora abbiano ritenuto di applicarle.
Pertanto, una volta derogate le preclusioni istruttorie degli artt. 183 e 184 c.p.c., non potevano rimeditare detta soluzione, pena la lesione del diritto al contraddittorio delle parti.
La ricorrente formula, infine, il seguente quesito di diritto: Dica l’ecc.ma Corte se, nell’arbitrato rituale, gli arbitri possono, senza violare il diritto al contraddittorio delle parti, revocare il provvedimento col quale, col consenso delle parti medesime, avevano autorizzato il deposito di memorie istruttorie, e con ciò dichiarare inammissibili le memorie e i documenti nelle more depositati in osservanza del provvedimento revocatoo.
La ricorrente, con il sesto motivo denuncia nullità della sentenza per assoluta mancanza di motivazione in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 55.
Secondo la Laus, con l’atto di appello aveva dedotto che gli arbitri, avendo autorizzato il deposito di documenti e di memorie, avevano inteso derogare le norme del codice di rito civile, ma la Corte territoriale ha rigettato la censura limitandosi ad affermare che, ai sensi dell’art. 177 c.p.c., il giudice deve dichiarare inammissibili le istanze istruttorie articolate successivamente alla maturazione delle preclusioni processuali.
A suo avviso, la sentenza sarebbe quindi del tutto carente di motivazione in ordine a questo punto.
2.- I primi quattro motivi vanno esaminati congiuntamente, in quanto logicamente e giuridicamente connessi, poiché censurano la sentenza, sotto differenti profili, nella parte in cui ha ritenuto applicabile al termine per la pronuncia del lodo la sospensione dei termini processuali stabilita dalla L. n. 742 del 1969.
I motivi sono fondati, entro i limiti e nei termini precisati di seguito.
2.1.- L’arbitrato in esame, di cui è incontroversa la natura rituale, deve ritenersi disciplinato, ratione temporis, dalle norme del codice di rito civile, nel testo vigente anteriormente alle modificazioni introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006.
La questione posta con i primi quattro mezzi richiede di stabilire se al termine entro il quale gli arbitri devono pronunciare il lodo, fissato dall’art. 820 c.p.c., comma 1, (nella specie, non derogato dalle parti) in 180 giorni dall’accettazione della nomina, sia applicabile la sospensione dei termini processuali prevista dalla L. n. 742 del 1969. La chiara indicazione della norma e del termine che si assume violato (l’art. 820 c.p.c., comma 1, ed il termine fissato da detta disposizione) rende palese che è ascrivibile a mera improprietà il riferimento talora operato da entrambe le parti al termine di deposito del lodo, essendo incontroverso che nella specie è in contestazione l’applicabilità della citata sospensione feriale al termine entro il quale deve essere pronunciato il lodo.
2.2.- La sentenza ha accertato e dato atto, senza che il punto sia stato contestato, che: l’accettazione degli arbitri (avendo riguardo a quella dell’ultimo arbitro) è avvenuta il 10 maggio 2003, data nella quale il collegio si è costituito; le parti, per il deposito del lodo, non hanno fissato un termine diverso da quello stabilito dall’art 820 c.p.c., comma 1, (180 giorni); la Laus, con atto notificato alla Meridiana ed al suo difensore, nonché al Presidente del collegio arbitrale, datato 18.11.03 (…) partecipava di non avere più interesse alla prosecuzione dell’arbitrato, ritenendo il Collegio arbitrale decaduto dalla possibilità di pronunziare il lodo per superamento del termine di cui all’art. 820 c.p.c.., (pg. 9 della sentenza); gli arbitri, con ordinanza del 21 novembre 2003, hanno prorogato, ai sensi dell’art. 820 c.p.c., comma 2, il termine per la pronuncia del lodo, occorrendo assumere mezzi istruttori ed avendo ritenuto non spirato il termine dell’art. 820 c.p.c., comma 1, poiché sarebbe stata applicabile la sospensione dei termini nel periodo feriale dal 1 agosto al 15 settembre 2003.
Pertanto, qualora sia esclusa l’applicabilità della sospensione in esame, il termine di 180 giorni per la pronuncia del lodo era decorso alla data della proroga disposta dagli arbitri.
Inoltre, la Laus aveva fatto valere la perenzione del termine nell’osservanza delle prescrizioni stabilite dall’art. 821 c.p.c., quindi poteva denunciare innanzi alla Corte d’appello, come è accaduto, la causa di nullità prevista dall’art. 829 c.p.c., n. 6, (Cass. n. 4207 del 2006; n. 6069 del 2004).
2.3.- Posta questa premessa, va affermato che la disciplina della sospensione dei termini nel periodo feriale, stabilita dalla L. n. 742 del 1969, non è applicabile al termine dell’art. 820 c.p.c., comma 1.
L’istituto della sospensione dei termini in periodo feriale è tipico della giurisdizione e, come è reso chiaro dalla lettera della L. n. 742 del 1969, art. 1, concerne esclusivamente il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative. La sua applicabilità è, quindi, condizionata dalla sussistenza di un requisito soggettivo, consistente nella celebrazione del processo da parte di un giudice, il quale faccia parte di una giurisdizione ordinaria o amministrativa. L’impossibilità di una differente esegesi è confortata, tra l’altro, dalla considerazione che l’applicabilità della legge ai processi militari in tempo di pace è stata possibile soltanto attraverso una sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, parziale, dell’art. 1, di detta legge, anche in quanto, a fronte della lettera della norma, il giudice delle leggi ha escluso l’ammissibilità di un’interpretazione adeguatrice (Corte cost. n. 278 del 1987).
L’arbitrato non è, invece, riconducibile alla giurisdizione; rinviene il suo fondamento nel potere delle parti di disporre dei diritti soggettivi e costituisce espressione di autonomia negoziale, senza che, a questo fine, rilevi la distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.
Entrambi gli arbitrati hanno, infatti, natura privata; la differenza tra l’uno e l’altro tipo non consiste nel fatto che con il primo le parti attribuiscono agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, ma va ravvisata nella circostanza che, nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime formale del procedimento arbitrale; nell’arbitrato irrituale esse affidano all’arbitro la soluzione di controversie, mediante lo strumento negoziale ed una composizione amichevole o un negozio di accertamento (tra le più recenti, per tutte, Cass. n. 14972 del 2007; n. 6985 del 2007; n. 24059 del 2006).
La questione concernente l’attribuzione della risoluzione di una determinata controversia agli arbitri attiene al merito, non alla giurisdizione o alla competenza, poiché i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici e l’effetto della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria (tra le molte, Cass. n. 15445 del 2007; n. 24681 del 2006).
La irriconducibilità dell’arbitrato alla giurisdizione è confortata dalla giurisprudenza costituzionale.
La legittimazione degli arbitri rituali a sollevare questione di legittimità costituzionale è stata, infatti, riconosciuta sottolineando che, a questo scopo, non occorreva addentrarsi nella complessa problematica relativa alla natura giuridica dell’arbitrato rituale in quanto, per aversi giudizio a quo ai fini stabiliti dall’art. 1, Legge Cost. n. 1 del 1948, è sufficiente che sussista esercizio di funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge da parte di soggetti, pure estranei all’organizzazione della giurisdizione, posti in posizione super partes (sentenza n. 376 del 2001).
La ratio della pronuncia va, quindi, colta nell’esigenza di garantire che coloro i quali sono chiamati ad applicare la legge in posizione super partes (tra questi, gli arbitri rituali), indipendentemente dalla fonte della loro legittimazione, non siano costretti a stabilire una regolamentazione di un dato rapporto che sia frutto di leggi della cui conformità alla Costituzione abbiano motivo di dubitare, ma possano, in tal caso, provocare una pronuncia della Corte delle leggi.
La sentenza n. 376 del 2001, in questa parte, da quindi continuità all’orientamento della Corte costituzionale, che ha costantemente escluso la riconducibilità dell’arbitrato nell’alveo della giurisdizione (sentenze n. 127 del 1977; n. 2 del 1963), in coerenza con la considerazione che il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24 Cost., comma 1) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102 Cost., comma 1, (sentenza n. 221 del 2005).
In contrario, non giova richiamare la giurisprudenza costituzionale che ha esteso l’istituto in esame ad una serie di termini non riconducibili alla legge n. 742 del 1969, in parte superando la stessa distinzione tra termini sostanziali e processuali (sentenze n. 40 del 1985; n. 255 del 1987), comunque, affermando che essa s’impone quando la possibilità di agire in giudizio costituisca per il titolare l’unico rimedio per far valere un suo diritto (sentenze n. 380 del 1992; n. 49 del 1990).
In queste pronunce l’estensione è stata, infatti, sempre correlata al compimento di atti innanzi ad organi giurisdizionali, valorizzando l’esigenza di garantire il diritto di difesa, in riferimento alla sua tutela innanzi a detti organi ed in relazione a procedimenti di tale natura, nei quali occorre la difesa tecnica (in tal senso è anche la sentenza n. 380 del 1992, che ha ricondotto il procedimento esaminato in quella categoria che sopravvive in forza della 6^ disposizione transitoria della Costituzione).
La carenza del presupposto per l’applicabilità della sospensione in esame ha carattere dirimente nel senso della sua irriferibilità al procedimento arbitrale, secondo una soluzione condivisa dalla dottrina prevalente, tra l’altro, anche ritenendo che il termine dell’art. 820 c.p.c., non sia un termine giudiziario.
2.3.1.- Della ragionevolezza di questa interpretazione non è possibile dubitare.
La diversità tra le due situazioni, sotto i profili soggettivo ed oggettivo, e l’incomparabilità tra l’esercizio del diritto nel processo e mediante un procedimento arbitrale, costituiscono ragioni sufficienti a fare escludere la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Inoltre, neppure può prospettarsi l’irragionevolezza intrinseca dell’interpretazione qui accolta.
Il sindacato di ragionevolezza intrinseca – svincolato da un tertium comparationis e fondato sull’’esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equitàà (Corte cost. n. 421 del 1991) -, secondo la giurisprudenza costituzionale, può infatti trovare ingresso solo se l’irrazionalità o iniquità delle conseguenze della norma sia manifesta e irrefutabile (sentenze n. 46 del 1993; n. 81 del 1992), pena l’alterazione dell’assetto delle competenze tra i diversi poteri e l’esercizio di un controllo della discrezionalità del legislatore ordinario oltre i limiti ed i casi in cui la succitata esigenza ed il principio di coerenza della legge e di razionalità normativa lo permettono, allo scopo di scongiurare un vulnus di valori di rango costituzionale.
Nella specie, è manifesta l’inesistenza di una irragionevolezza intrinseca di siffatto rilievo.
Uno dei caratteri essenziali dell’arbitrato è, infatti, l’esigenza di celerità, la quale costituisce una delle ragioni fondanti della scelta delle parti per la risoluzione delle controversie attraverso questo mezzo alternativo alla giurisdizione che, a sua volta, fonda una serie di deroghe alla stessa L. n. 742 del 1969, ed è coerente con l’inapplicabilità allo stesso dell’istituto in esame.
La concorde opzione delle parti per l’arbitrato esclude anche che una di esse possa incontrare ingiustificate difficoltà nell’esercizio del diritto di difesa conseguenti alla scelta dell’altra di esercitare l’azione in prossimità della sospensione dei termini. Inoltre, è ben noto agli arbitri, che accettano volontariamente l’incarico, di dovere adempiere entro un termine insuscettibile di sospensione nel periodo feriale; infine, la stessa circostanza che il termine dell’art. 820 c.p.c., comma 1, è rimesso all’autonomia delle parti, stante il carattere suppletivo e derogabile di quello fissato dalla norma, rende palese che queste possono ponderare la scelta nella sua identificazione e fissarne uno più lungo, qualora ritengano di prevedere una stasi del procedimento nel periodo feriale.
Siffatte argomentazioni impongono di ritenere manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale della L. n. 742 del 1969, art. 1, interpretato nel senso dell’inapplicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale al termine dell’art. 820 c.p.c., comma 1, sollevata nella memoria dal Fallimento, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost..
L’eccezione sollevata in riferimento all’art. 97 Cost., è manifestamente inammissibile per palese inconferenza del parametro, in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, il principio del buon andamento non riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale ed i provvedimenti che ne costituiscono espressione (tra le molte, Corte cost. n. 455 del 2006), quindi, a fortiori, non può essere evocato in relazione alla disciplina del procedimento arbitrale.
2.4.- Esclusa la diretta applicabilità della L. n. 742 del 1969, ad avviso della Corte d’appello la sospensione del termine dell’art. 820 c.p.c., comma 1, sarebbe conseguita dalla circostanza che, come chiaramente emerge dalla norma di comportamento adottata, in limine, dal Collegio arbitrale, all’unanimità il rinvio fu disposto tout court al rito ordinario disciplinato dal c.p.c., e, pertanto, necessariamente a tutte le norme che comunque lo scandiscono, ivi compresa, pertanto, la disciplina della sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale (così, testualmente, pg. 31 della sentenza).
A conforto di questa esegesi, la pronuncia ha dedotto che al lodo è applicabile il principio della conservazione del negozio (art. 1361 c.c.) (recte, art. 1367 c.c.), in virtù del quale, nel dubbio, il negozio deve interpretarsi nel senso in cui esso possa avere qualche effetto anzichè in quello secondo cui non ne avrebbe alcuno (pg. 31 della sentenza).
In questa parte, la sentenza non è immune dalle censure denunciate dalla Laus.
Secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata – quindi degli atti posti in essere dagli arbitri – si traduce in una indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice del merito ed è censurabile in questa sede per vizi di motivazione o per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (per tutte, Cass. n. 7500 del 2007; n. 27168 del 2006; n 8296 del 2005), vizi correttamente fatti valere dalla ricorrente.
La determinazione alla quale ha fatto riferimento la Corte territoriale, quale riportata nella sentenza, consiste nella deliberazione degli arbitri di seguire il rito ordinario disciplinato dal c.p.c., per quanto riguarda lo svolgimento dell’arbitrato, salvo deroghe deliberate unanimemente dal Collegio e, in ogni caso, nel rispetto del principio del contraddittorioo (pg. 28 della sentenza; negli stessi termini è riportata la determinazione degli arbitri a pg. 9 del controricorso).
Pertanto, risulta chiara l’erroneità della motivazione svolta nella pronuncia, in quanto incongrua, insufficiente e resa in violazione della lettera dell’atto.
Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono elencate negli artt. 1362 – 1371 c.c., secondo un ordine gerarchico, con la conseguenza che le norme degli artt. 1362 – 1365 c.c., precedono quelle integrative recate dagli artt. 1366 – 1371 c.c., escludendone l’applicabilità quando le prime rendano palese la comune volontà dei contraenti. Pertanto, qualora il senso letterale delle espressioni impiegate riveli con chiarezza e univocità la volontà comune e non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo avuto di mira, il giudice del merito deve arrestarsi al significato letterale delle parole e non può fare ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici, se non (fuori dell’ipotesi dell’ambiguità della clausola) previa rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale (Cass. n. 415 del 2006; n. 19475 del 2005; n. 20791 del 2004; n. 10493 del 2001).
La determinazione da parte degli arbitri, all’inizio del procedimento, della applicabilità del complesso della disciplina del processo ordinario, siccome riferita appunto esclusivamente alle norme del codice di rito, in assenza di ogni ulteriore specificazione, anche in considerazione della diversa sedes materiae della disciplina della sospensione in esame, può infatti essere riferita esclusivamente alla disciplina dello svolgimento del giudizio, non all’applicabilità di un istituto non collocato nel codice di rito civile e che neppure è di generale applicazione a tutti i processi governati dal medesimo.
Il risultato, imposto dalla univoca lettera, è peraltro coerente con il contenuto del potere meramente suppletivo attribuito agli arbitri dall’art. 816 c.p.c., comma 3.
Questo potere concerne, infatti, soltanto le regole del giudizio stabilite dal c.p.c., non la sospensione del termine per la pronuncia del lodo, secondo una conclusione che è la sola coerente con la considerazione che la disciplina del termine in esame – per sua natura e struttura, “essenziale” (Cass. n. 10462 del 1994) – è anche sottratta alla disponibilità degli arbitri e dei difensori (Cass. n. 6069 del 2004; n. 10910 del 2003) ed è suscettibile di proroga da parte dei primi esclusivamente nel caso e per le ragioni indicate nell’art. 820 c.p.c., comma 2.
Nonostante il carattere dirimente di siffatta considerazione, per ragioni di completezza, va sottolineato che è anche erroneo il riferimento al criterio dell’art. 1367 c.c., così come operato dalla sentenza impugnata, nei termini sopra riportati.
Siffatto criterio, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ha carattere integrativo e sussidiario rispetto agli altri recati dall’art. 1362 c.c. e ss.; quindi, qualora questi ultimi consentano di individuare adeguatamente il significato e la portata dell’atto, detto criterio non può trovare applicazione, neppure in funzione della conservazione del negozio, non potendo tale finalità essere conseguita attraverso un’interpretazione sostitutiva della volontà delle parti (per tutte, tra le più recenti, Cass. n. 7972 del 2007).
Inoltre, sebbene il principio vada inteso nel senso che nei casi dubbi, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse, evitando perciò di adottare una soluzione che renda l’atto improduttivo di effetti, resta comunque ferma l’impossibilità di operare una esegesi sostitutiva della volontà delle parti (Cass. n. 19994 del 2004) e l’esigenza, propria di detto criterio, non di attribuire all’atto un significato tale da assicurare la sua più estesa applicazione, bensì di privilegiare quella che consente all’atto di avere un qualche effetto, specie se l’interpretazione più ampia è esclusa dall’applicazione dei prioritari criteri ermeneutici posti dal codice civile (Cass. n. 3293 del 1997).
Nella specie, l’esegesi più ampia è esclusa dai poteri degli arbitri e dalla lettera dell’atto; comunque, neppure sarebbe stata consentita dalla ratio della norma in esame, posto che l’interpretazione coerente con la formulazione dell’atto bene consentiva la produzione di tutti gli effetti suoi tipici e propri, consistenti nell’applicabilità delle regole stabilite dal codice di rito nello svolgimento del procedimento arbitrale.
2.5.- In accoglimento dei motivi in esame, ai quesiti formulati con il primo ed il quarto motivo va data la seguente soluzione: L’istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale non è applicabile al termine stabilito dall’art. 820 c.p.c., comma 1, che gli arbitri hanno facoltà di derogare esclusivamente nei casi e nei modi stabiliti dal secondo comma di detta norma.
Al quesito formulato con il terzo motivo va data la seguente soluzione: Il principio di conservazione dell’art. 1367 c.c., va inteso nel senso che nei casi dubbi, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse, evitando perciò di adottare una soluzione che renda l’atto improduttivo di effetti; siffatto principio non permette, invece, di svolgere una esegesi sostitutiva della volontà delle parti e di attribuire all’atto un significato tale da assicurarne la più estesa applicazione (soprattutto se l’interpretazione più ampia sia esclusa dall’applicazione dei prioritari criteri ermeneutici posti dal codice civile), ma rende possibile privilegiare quella che consente all’atto di avere un qualche effettoo.
Dall’accoglimento dei mezzi in esame consegue la cassazione della sentenza.
I restanti motivi restano assorbiti e la causa deve essere rinviata alla stessa Corte d’appello che, in diversa composizione, provvedere al riesame della controversia, nell’osservanza dei principi sopra enunciati, non essendo preclusa la fase rescissoria dalla nullità del lodo, provvedendo anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Il lodo arbitrale emesso oltre il termine deve, infatti, ritenersi nullo, non anche emesso in carenza radicale di potestas iudicandi degli arbitri, dato che, a norma dell’art. 821 c.p.c., il decorso del termine per la decisione non può essere fatto valere come causa di nullità del lodo se la parte, prima della deliberazione di quest’ultimo, non abbia notificato alle altre parti e agli arbitri che intende far valere la decadenza. La possibilità che, con il mancato adempimento di tale onere, la nullità del lodo sia sanata è, all’evidenza, incompatibile con l’esclusione radicale della potestas iudicandi, con la conseguenza che la declaratoria di nullità del lodo per tale causa non impedisce alla corte di appello il passaggio alla fase rescissoria ai sensi dell’art. 830 c.p.c., comma 2, (Cass. n. 4207 del 2006).

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi quattro motivi del ricorso, dichiara assorbiti i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Salerno, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

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