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Home » Sentenze » Cassazione civile, sez. I, 20 settembre 2021, n. 25343

Cassazione civile, sez. I, 20 settembre 2021, n. 25343

RedazionediRedazione
3 Ottobre 2021
inSentenze, Banca Borsa Mercati finanziari
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Fatti di causa

1. Con sentenza del 14/30 marzo 2009, n. 107, il Tribunale di Modena respinse le domande, proposte da P.M. nei confronti di (...) Banca s.p.a. (per il prosieguo, breviter, Banca) e di (...) s.p.a. (d’ora in avanti, più semplicemente, P.), volte a “sentir dichiarare, in relazione ad una gestione patrimoniale, la violazione della clausola inerente la cd. leva finanziaria e l’applicazione non corretta di interessi e commissioni sui conti correnti relativi alla gestione patrimoniale ed accesi presso la Banca”, nonché ad ottenere la condanna delle menzionate convenute, in solido tra loro o ciascuna per quanto di ragione, alla restituzione e/o al risarcimento dei danni nella misura di cui agli invocati importi.

2. La Corte di appello di Bologna, decidendo sui gravami principale ed incidentale condizionato, rispettivamente del P. e della Banca, con sentenza del 10 febbraio 2017, n. 355, ha confermato parzialmente la pronuncia del tribunale modenese, rigettando tutte le domande avanzate dal primo ad eccezione della pretesa relativa alla illegittimità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi di cui al conto corrente n. 10403, con conseguente condanna della Banca alla restituzione della somma di Euro 110.501,77, oltre interessi dalla domanda al saldo.

2.1. In estrema sintesi, e per quanto qui di residuo interesse, quella corte: i) ha dichiarato inammissibile la richiesta del P., formulata solo nella sua seconda comparsa conclusionale di quel grado, di declaratoria di nullità del “rapporto di conto corrente n. (omissis) per inosservanza della forma scritta ad substantiam del relativo contratto” imposta dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117 (d’ora in avanti, T.U.B.) e di nullità “degli affidamenti concessi (nel (omissis)) dalla banca”. Secondo i giudici bolognesi, il tribunale, nell’accertare l’avvenuta regolare pattuizione per iscritto dei denunciati interessi ultralegali, contenuta nel contratto di apertura dell’indicato conto corrente e nei contratti di concessione di fidi, portanti la sola sottoscrizione del P., aveva implicitamente, ma chiaramente, ritenuto la validità, sotto un profilo formale, di tali contratti sui quali l’attore aveva peraltro fondato le proprie pretese risarcitorie. Sul punto, nessuna censura aveva sollevato l’appellante con l’atto introduttivo del giudizio di gravame, così determinando il passaggio in giudicato della relativa statuizione e la impossibilità di prendere nuovamente in esame la relativa questione; ii) ha disatteso l’eccezione di nullità dei contratti di gestione patrimoniale per indeterminabilità dell’oggetto, come formulata dal P.. Muovendo dal triplice rilievo che il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 (per il prosieguo T.U.F.) sancisce l’obbligo di forma scritta a pena di nullità rilevabile solo dal cliente del cd. contratto quadro e che l’art. 24 T.U.F. detta alcune “regole” particolari applicabili al servizio di gestione di portafogli, mentre l’obbligo di forma scritta per quest’ultimo contratto è sancito dal combinato disposto degli artt. 30 e 37 del Regolamento Consob n. 11522/1998, la corte felsinea ha affermato che, “con il contratto in esame, il cliente attribuisce all’intermediario, verso il pagamento di un corrispettivo, l’incarico di gestire una parte del proprio patrimonio finanziario con l’obiettivo di conseguire un risultato utile in relazione alle caratteristiche della gestione. L’oggetto del contratto è, dunque, da un lato, il servizio che l’intermediario si impegna a svolgere nell’interesse del cliente, dall’altro il compenso che il cliente si impegna a versare. Le norme del TUF e del Reg. Consob n. 1522/1998 che disciplinano tale rapporto non prevedono, invece, l’obbligatoria indicazione, al momento del conferimento dell’incarico, della natura e dell’ammontare dei beni conferiti, essendo il cliente libero di destinarli alla gestione in qualsiasi momento e per tutta la durata del rapporto, come pacificamente avvenuto nel caso di specie. Ed avendo il P. effettuato i conferimenti (in titoli e liquidità) dopo l’accensione del rapporto di gestione, i relativi contratti n. 70742 e n. 71575, redatti su moduli prestampati di P., risultano coerentemente in bianco nella parte destinata all’individuazione ed all’ammontare del patrimonio inizialmente conferito. D’altro canto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi la necessità, neppure prospettata dall’appellante, di stipulare un nuovo contratto di gestione ogni qualvolta il cliente decida di effettuare un nuovo conferimento”; iii) ha negato (come già il tribunale) la sussistenza del collegamento negoziale invocato dal P. tra la gestione patrimoniale da lui affidata alla P. con i contratti n. (omissis) e n. (omissis), conclusi il (omissis) ed il (omissis), e la concessione degli affidamenti da parte della banca. Conseguentemente, nemmeno ha ravvisato la denunciata violazione delle norme riguardanti la cd. leva finanziaria, ricavandosi dagli atti che mai l’appellante era risultato indebitato in misura superiore al patrimonio gestito dalla P.; iv) ha respinto gli assunti dell’appellante principale circa il preteso inadempimento, ascritto ad entrambe le originarie convenute, degli obblighi ex artt. 21 TUF e 28 del reg. Consob n. 11522/1998, su ciascuna di esse gravanti, ed ha dichiarato inammissibile, perché del tutto nuova, la contestazione relativa all’art. 29 del medesimo Regolamento; v) ha rigettato la doglianza del P. concernente l’errore in cui era incorso il tribunale nell’escludere la mala gestio e l’inadempimento del mandato di gestione (benchmark). Ha rilevato, in proposito, che, “per quanto concerne il rendimento delle gestioni, è pacifico che fu in linea con gli indici di borsa del periodo di riferimento come esposto in sentenza. Il rapporto individuato dal Dott. S. tra benchmark ed andamento della gestione cd. “grande” n. (omissis) è stato notevolmente ridimensionato dalla P. sulla base dei dati, non contestati, di cui al proprio doc. 18 (“riepiloghi contabili relativi al mandato n. (omissis)”) e rispetto a tali rilievi l’appellante ha continuato ad insistere nelle sue difese senza smentirli in maniera specifica. Date tali risultanze, va esente da censura la sentenza nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che il risultato delle gestioni fosse in linea anche con il “benchmark di riferimento”. In ogni caso, lo “scostamento annuo medio in negativo del 5,04%”, nel periodo (omissis), riconosciuto dalla P. appare trovare giustificazione nelle seguenti circostanze: i conferimenti avvennero (per oltre il 95%) in titoli che necessariamente condizionarono l’operato del gestore; il P. nell’elaborare personalmente il benchmark di riferimento in occasione del “cambio linea” dell’1.7.2002 (...), ebbe a prevedere un 75% di azionariato Italia che, negli anni precedenti, aveva avuto un andamento negativo e sul punto non c’è contestazione; il P. era solito intervenire nella allocazione degli investimenti mediante il rilascio di istruzioni particolari che anticipavano o si sovrapponevano alle strategie adottate dalla società di gestione, circostanza puntualmente richiamata in sentenza sulla base di precisi riferimenti documentali sui quali l’appellante non ha svolto alcuna difesa”.

3. Per la cassazione di questa sentenza ricorrono L. e P.G.L., quali eredi di P.M., medio tempore deceduto, affidandosi a sei motivi. Resistono, con distinti controricorsi, (...) s.p.a. (già (...) Banca s.p.a.) e P. Investment Management S.G.R. s.p.a.. Risultano depositate memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c. ad opera di tutte le parti.

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo di ricorso, rubricato “violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla ritenuta sussistenza di giudicato interno sulla validità dei rapporti bancari oggetto di causa e alla conseguente omessa pronuncia sulla relativa eccezione; nullità della sentenza - violazione degli artt. 1421 c.c., D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117,D.Lgs. n. 59 del 1998, art. 23 in relazione alla nullità dei rapporti di c/c n. (omissis) e correlativi affidamenti per inosservanza dell’obbligo di forma (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4)”, è stato rinunciato, sicché è superflua una decisione in ordine alla sua fondatezza, o non (cfr. memoria ex art. 380-bis.1 dei ricorrenti, ricordandosi che “la rinuncia ad uno o più motivi di ricorso, che rende superflua una decisione in ordine alla fondatezza o meno di tali censure, è efficace anche in mancanza della sottoscrizione della parte o del rilascio di uno specifico mandato al difensore, in quanto, implicando una valutazione tecnica in ordine alle più opportune modalità di esercizio della facoltà d’impugnazione e non comportando la disposizione del diritto in contesa, è rimessa alla discrezionalità del difensore stesso, e resta, quindi, sottratta alla disciplina di cui all’art. 390 c.p.c. per la rinuncia al ricorso”. Cfr. Cass. n. 414 del 2021; Cass. n. 17893 del 2020; Cass. n. 22269 del 2016; Cass. n. 12638 del 2011; Cass. n. 11154 del 2006). 2. Il secondo motivo di ricorso, prospetta la “violazione degli artt. 1346,1362,1148 c.c., del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, artt. 30 e 37 del Reg. Consob n. 11522/98 in relazione alla eccezione di nullità dei contratti di gestione di patrimonio per indeterminabilità dell’oggetto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Si ascrive alla corte di appello di non aver dichiarato la nullità dei contratti di gestione, per indeterminabilità dell’oggetto, malgrado nei moduli contrattuali del (omissis) (gestione n. (omissis) di P.M.) e del 28.12.2001 (gestione n. (omissis) cointestata) lo spazio destinato all’indicazione del patrimonio conferito fosse risultato del tutto in bianco. Si assume che la corte predetta, “effettuando una non corretta interpretazione ermeneutica del contenuto dei contratti - i quali non dicono che la SGR (il riferimento è alla P.. Ndr) si impegna a gestire il patrimonio che sarà conferito nella gestione, ma fanno riferimento ad un preciso patrimonio che, però, non è in alcun modo individuato (il relativo spazio, infatti, è in bianco) - ha erroneamente ritenuto la validità dei contratti in relazione alla determinabilità dell’oggetto”. Si aggiunge che è priva di fondamento l’affermazione per la quale l’oggetto del contratto sarebbe costituito solo dal “servizio” di gestione.

2.1. Una siffatta doglianza si rivela infondata.

2.2. Invero, dal combinato disposto degli art. 30 e 37 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, applicabile ratione temporis, emerge che il contratto di gestione patrimoniale deve: a) indicare le caratteristiche della gestione; b) individuare espressamente le operazioni che l’intermediario non può compiere senza la preventiva autorizzazione dell’investitore; ove non siano previste restrizioni indicare espressamente tale circostanza; c) indicare le modalità attraverso cui l’investitore può impartire istruzioni vincolanti in ordine alle operazioni da compiere; d) con riguardo agli strumenti finanziari derivati, indicare se detti strumenti possono essere utilizzati per finalità diverse da quella di copertura dei rischi connessi alle posizioni detenute in gestione; e) indicare se l’intermediario è autorizzato a delegare a terzi l’esecuzione dell’incarico ricevuto, specificando, nel caso in cui la delega non riguardi l’intero portafoglio, gli strumenti finanziari, i settori o i mercati di investimento con riferimento ai quali l’autorizzazione viene rilasciata e, in ogni caso, gli eventuali limiti e condizioni dell’autorizzazione; f) specificare che l’investitore può recedere in qualsiasi momento dal contratto ovvero disporre, in tutto o in parte, il trasferimento o il ritiro dei propri valori, senza che gli sia addebitata alcuna penalità.

2.2.1. In particolare, l’art. 30 del Regolamento predetto, che disciplina il contenuto del cd. accordo quadro (poi richiamato, come si è visto, dall’art. 37), non prevede fra i requisiti essenziali del contratto l’ammontare dei conferimenti, stabilendo, invece, ai commi 1 e 2, tra l’altro, che “1. Gli intermediari autorizzati non possono fornire i propri servizi se non sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata all’investitore. 2. Il contratto con l’investitore deve: a) specificare i servizi forniti e le loro caratteristiche; b) stabilire il periodo di validità e le modalità di rinnovo del contratto, nonché le modalità da adottare per le modificazioni del contratto stesso; c) indicare le modalità attraverso cui l’investitore può impartire ordini e istruzioni; d) prevedere la frequenza, il tipo e i contenuti della documentazione da fornire all’investitore a rendiconto dell’attività svolta; (...); f) indicare le altre condizioni contrattuali eventualmente convenute con l’investitore per la prestazione del servizio”.

2.2.2. È evidente, allora, che l’oggetto del contratto di gestione di cui si discute è rappresentato, non già dall’ammontare dei conferimenti patrimoniali (in liquidità o in titoli), iniziali e/o successivi, - i quali sono posti in essere in esecuzione del contratto di gestione, quale cd. contratto quadro, mediante distinti negozi - bensì dal servizio fornito dall’intermediario. Nel caso di specie, è incontroverso che il P. aveva effettuato i conferimenti (in titoli ed in liquidità) dopo l’accensione del rapporto contrattuale, non anche in occasione della sua stipulazione, ed è per questa ragione che il contratto non recava (del tutto validamente, ai sensi della stessa normativa Consob appena richiamata) l’indicazione di alcun coevo conferimento.

2.3. Solo per completezza, infine, va aggiunto che l’affermazione dei ricorrenti secondo cui la corte di appello avrebbe interpretato non correttamente il contratto, in quanto le parti non avrebbero convenuto che P. si impegnasse “a gestire un patrimonio che sarà conferito nella gestione” ma avrebbero fatto riferimento “ad un preciso patrimonio che, però, non è in alcun modo individuato”, con conseguente violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1346 e 1418 c.c. e, per avere “erroneamente ritenuto la validità dei contratti in relazione alla determinabilità dell’oggetto” (cfr. pag. 23-24 del ricorso), non contesta alcuna effettiva violazione dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. (né dell’art. 1346 c.c.), ma si limita a non condividere le conclusioni cui è pervenuta la corte predetta nel ricostruire la fattispecie concreta sottoposta al suo vaglio. Conclusioni che, essendo frutto del libero apprezzamento riservato ai giudici di merito (come più approfonditamente si dirà scrutinando il terzo motivo), esulano dal presente giudizio di legittimità. 3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la “violazione dell’art. 115 c.p.c. per non avere il giudice, relativamente alla natura di finanziamenti all’investitore concessi sul c/c n. (omissis), posto a fondamento della decisione le prove dedotte dall’attore e giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, nonché dell’art. 116 c.p.c., per avere ricostruito erroneamente il fatto e avere, quindi, disapplicato il D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 23 e 30 e art. 47 del Reg. Consob n. 11522/98 - Violazione degli artt. 1321,1322,1326 e 1362 c.c. in relazione alla negata sussistenza di “collegamento negoziale” tra il contratto di intermediazione finanziaria e i contratti di finanziamento all’investitore stipulati con (...) e i contratti di gestione patrimoniale stipulati con P. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Si assume che la motivazione della corte distrettuale secondo cui “non vi è prova che i titoli conferiti nella gestione successivamente all’instaurazione del rapporto siano stati acquistati direttamente dalla Banca”, e nella parte in cui ha negato, anche in relazione alla volontà delle parti, la sussistenza di un collegamento negoziale fra i finanziamenti erogati dalla Banca al fine dell’acquisto dei titoli da immettere nella gestione, “realizza una violazione delle norme indicate nella rubrica del motivo ed opera una non corretta valutazione ermeneutica dell’accordo intervenuto tra le parti” (cfr. pag. 31 del ricorso).

3.1. Una siffatta doglianza si rivela complessivamente inammissibile alla stregua delle considerazioni tutte di cui appresso.

3.2. Invero, è utile ricordare che questa Corte ha chiarito, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 4226 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 27909 del 2020; Cass. n. 4343 del 2020; Cass. n. 27686 del 2018), che: a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto, intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente (perché, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro), ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua (pur corretta) interpretazione (cfr. Cass. n. 8782 del 2005); b) non integra invece violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., Sez. U., n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); d) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015). 3.2.1. La doglianza in esame si risolve, invece, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui i ricorrenti intenderebbero opporre, sotto la formale rubrica di violazione di legge, una diversa valutazione, totalmente obliterando, però, che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - come si è appena detto non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, ma deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 16700 del 2020. Si veda pure Cass., SU, n. 23745 del 2020, a tenore della quale, “in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare - con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni - la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa”). 3.3. In applicazione dei suesposti principi, allora, va rimarcato che la corte distrettuale - con una motivazione scevra da violazioni dei principi dettati in tema di onere della prova e di prova presuntiva, oltre che priva di vizi logici, siccome basata sulla puntuale e dettagliata descrizione e ponderazione di indici concreti - è giunta (come già il tribunale) alla conclusione che, nella specie, il quadro istruttorio desumibile dalla documentazione prodotta in atti, valutato in ciascun elemento e nel suo complesso, fosse idoneo a far escludere la prova della esistenza del preteso collegamento negoziale fra i finanziamenti erogati dalla Banca ed utilizzati dal P. per l’acquisto dei titoli da immettere nella gestione patrimoniale affidata alla P. ed il contratto di gestione patrimoniale medesimo; né potrebbe sostenersi, fondatamente, che l’argomentare del giudice di appello abbia trascurato alcuni dati dedotti dagli odierni ricorrenti, per la semplice ragione di averli ritenuti, esplicitamente, o implicitamente, irrilevanti.3.3.1. La corte bolognese, invero, ha ampiamente descritto (cfr. amplius, pag. 6-8 dell’impugnata sentenza) gli elementi istruttori che l’hanno indotta a quella conclusione, ed il corrispondente accertamento integra una valutazione fattuale, a fronte della quale gli odierni ricorrenti, con il motivo in esame, tentano, sostanzialmente, di opporvi una propria alternativa interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex multis, Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014). 3.3.2. In altri termini, L. e P.G.L. incorrono nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che “è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.“); 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure puntualizzato che, “ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione”; Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132,n. 4, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. 24434 del 2016). La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (cfr. Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020): il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017). 3.4. A tanto deve solo aggiungersi che si rivela parimenti inammissibile la censura di violazione degli artt. 1321,1322,1326,1362 c.c. rinvenibile nella seconda parte della doglianza in esame. 3.4.1. Infatti, i ricorrenti, pur contestando formalmente una violazione di legge, ancora una volta mirano ad una nuova - e preclusa, nel presente giudizio di legittimità - valutazione del merito della controversia per la quale è causa.

3.4.2. In particolare, a loro dire, il giudice di secondo grado avrebbe violato l’art. 1362 c.c., comma 2, (alcunché, invece, è spiegato in relazione alle ulteriori norme del codice civile citate nella rubrica del motivo), non dando rilievo, nel valutare l’intenzione delle parti protagoniste della vicenda oggetto del presente giudizio, al comportamento dalle stesse tenuto.

3.4.3. È palese, però, che così argomentando, ciò che essi contestano alla decisione impugnata non è tanto il mancato rispetto del canone ermeneutico sopra indicato, quanto il maggior rilievo riconosciuto, nell’ambito della valutazione delle risultanze di fatto riservata al giudice di merito, ad alcuni dei vari comportamenti delle parti piuttosto che ad altri, i quali, secondo la loro ricostruzione, avrebbero dimostrato l’asserito collegamento negoziale sussistente tra il contratto di conto corrente e la gestione patrimoniale affidata a P..

3.4.4. Occorre ricordare, allora, che, come ancora recentemente ribadito, nelle rispettive motivazioni, da Cass. n. 14938 del 2018 e Cass. n. 25470 del 2019, il sindacato di legittimità sull’interpretazione degli atti privati, governata da criteri giuridici cogenti e tendente alla ricostruzione del loro significato in conformità alla comune volontà dei contraenti, costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile, in sede di legittimità, solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (essendo, a questo scopo, imprescindibile la specificazione dei canoni e delle norme ermeneutiche che in concreto sarebbero state violate, puntualizzandosi - al di là della indicazione degli articoli di legge in materia in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sarebbe discostato) e nel caso di riscontro di una motivazione contraria a logica ed incongrua, e cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione in sé (occorrendo, altresì, riportare, nell’osservanza del principio dell’autosufficienza, il testo dell’atto nella parte in questione). Inoltre, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando siano possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (su tali principi, cfr., ex plurimis, Cass. n. 24539 del 2009, Cass. n. 2465 del 2015, Cass. n. 10891 del 2016; Cass. n. 7963 del 2018, in motivazione). 3.4.5. In altri termini, il sindacato suddetto non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ed afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà privata operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr., ex aliis, Cass., SU, n. 2061 del 2021; Cass. n. 2465 del 2015; Cass. n. 10891 del 2016). 3.4.6. La censura neppure può, poi, essere formulata mediante l’astratto riferimento a dette regole, essendo imprescindibile, come si è già anticipato, la specificazione dei canoni in concreto violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia, eventualmente, discostato dagli stessi, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella decisione impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni (cfr. Cass., SU, n. 2061 del 2021; Cass. n. 28319 del 2017; Cass. n. 25728 del 2013). 3.5. Non va dimenticato, infine, che, come precisato dalla qui condivisa giurisprudenza di legittimità, l’”accertare la natura, l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici” (cfr. Cass. n. 11974 del 2010, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 2216 del 2018. In senso sostanzialmente conforme, si vedano pure Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 18585 del 2016; Cass. n. 1875 del 2012; Cass. n. 11974 del 2010; Cass. n. 24792 del 2008; Cass. n. 18884 del 2008). 4. Il quarto motivo di ricorso, recante “violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24,comma 1, lett. “c”, (come vigente all’epoca dei fatti) e art. 41, comma 1, artt. 37, 38 e art. 47, comma 1, del Regolamento n. 11522/98 in relazione al contestato inadempimento alla normativa sulla “leva finanziaria” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, ascrive alla decisione impugnata di aver negato la sussistenza del contestato inadempimento alla normativa riguardante la cd. leva finanziaria esclusivamente sul presupposto della autonomia dei contratti di gestione rispetto ai finanziamenti. Ritenendosi, invece, la sussistenza del “collegamento negoziale” di cui al precedente terzo motivo, il giudice dell’appello, con corretta applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24, comma 1, lett. “c”, (nel testo utilizzabile ratione temporis), art. 41, comma 1, artt. 37, 38 e art. 47, comma 1, del Regolamento n. 11522/98, per i quali l’investitore non può essere indebitato oltre il patrimonio conferito se non alle condizioni previste dalle stesse norme (in particolare, l’autorizzazione del cliente a fare uso della leva finanziaria e in che misura; nonché l’indicazione del limite massimo di perdite al raggiungimento delle quali l’intermediario finanziario è tenuto a riportare la leva finanziaria ad un valore pari ad uno), avrebbe dovuto concludere per la sussistenza del contestato inadempimento agli obblighi posti dalle medesime norme, ovvero ritenere le convenute inadempienti ai medesimi obblighi per non avere adottato, in relazione alla particolare modalità operativa con la quale il complesso rapporto era stato attuato, cautele idonee ad evitare che il cliente potesse essere indebitato oltre il patrimonio gestito.

4.1. Tale doglianza, presupponendo l’esistenza di quel collegamento negoziale invece negato dai giudici di entrambi i gradi del merito, si rivela insuscettibile di accoglimento tenuto conto di quanto si è già detto quanto alla inammissibilità del terzo motivo di ricorso volto a contestare proprio il riportato convincimento di quei giudici.

5. Il quinto motivo di ricorso prospetta la “falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla contestata violazione dell’art. 29 Reg. Consob n. 11522/98; nullità della sentenza Violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21 e art. 23, comma 6, in relazione al contestato inadempimento agli obblighi comportamentali come posti dagli artt. 28, comma 2, e 29 del Regolamento Consob n. 11522/98, nonché in relazione alla negata sussistenza del nesso di causalità tra l’inadempimento all’obbligo di cui all’art. 28, comma 2, e il danno (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4)”. Si assume, in particolare, che: i) “del tutto erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto “nuova” ed inammissibile (omettendo la pronuncia al riguardo) l’eccezione relativa all’inadempimento, da parte delle convenute, al fondamentale obbligo posto dall’art. 29 del Reg. Consob n. 11522/98”. Nella citazione introduttiva di primo grado, infatti, la difesa del P., pur non avendo espressamente richiamato la norma appena menzionata, ne aveva indicato chiaramente il contenuto. Secondo i ricorrenti, peraltro, essendo stata contestata fin dal primo atto difensivo la violazione, da parte di (...) e di P., del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21 la corte distrettuale avrebbe dovuto ritenere inclusa in tale contestazione anche l’eccezione di mancato rispetto degli obblighi di cui all’art. 29 del regolamento Consob n. 11522 del 1998; ii) “nella vicenda in esame, (...) (ex Rolo) ha indubbiamente agito sia come “intermediario finanziario” (erogando i finanziamenti all’investitore ed acquistando, in nome dello stesso, i titoli da immettere nelle gestioni), sia quale “mandataria” ed “ausiliaria” della SGR (il riferimento è alla P.. Ndr)”, sicché “ravvisandosi inadempimenti agli obblighi comportamentali, la responsabilità è tanto di (...) quanto della SGR”.

5.1. Una siffatta doglianza si rivela insuscettibile di accoglimento nel suo complesso.

5.2. Invero, quanto al suo primo profilo, la questione che si pone attiene al significato da attribuire alle espressioni lessicali utilizzate nel contenuto testuale della domanda introduttiva, come riportate nella sentenza impugnata e nell’odierno ricorso, venendo in rilievo, pertanto, l’interpretazione della domanda, che è operazione riservata al giudice del merito, il cui risultato è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (cfr. Cass. n. 2148 del 2004, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 11103 del 2020), e dunque risulti “travisato” il contenuto della domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio con conseguente errato convincimento che il suo successivo sviluppo costituisca domanda nuova (cfr. Cass. n. 11755 del 2004 e Cass. n. 12909 del 2004, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 11103 del 2020). Il giudice, in tal caso, deve procedere, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, indipendentemente dalle espressioni adoperate dalla parte, ad accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto (cfr. Cass. n. 27428 del 2005; Cass. n. 11103 del 2020, in motivazione), soccorrendo, a tal fine, esclusivamente il criterio ermeneutico volto ad indagare il contenuto che emerge dal testo dell’atto, secondo il significato fatto palese dalle parole in base alla loro connessione logica, ed evincibile dalla complessiva lettura del contenuto dell’atto, avuto riguardo anche alla situazione dedotta in giudizio ed allo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Cass. n. 10340 del 2003; Cass. n. 3041 del 2007; Cass. n. 11103 del 2020, in motivazione), restando esclusi - evidentemente - i criteri ermeneutici (soggettivi ed oggettivi) previsti per gli atti negoziali, che implicano la ricerca della comune intenzione delle parti (cfr. Cass. n. 4754 del 2004; Cass. n. 24847 del 2011; Cass. n. 25853 del 2014; Cass. n. 11103 del 2020).

5.2. Tanto premesso (pure volendosi soprassedere sul fatto che la statuizione che ha deciso sul corrispondente motivo di gravame risulta assistita dallo svolgimento delle ragioni giustificative della pronuncia, sicché, non sussisterebbe la asserita nullità per omessa pronuncia. Cfr. in motivazione, la già citata Cass. n. 11103 del 2020), il motivo si palesa, in parte qua, privo di fondamento.

5.2.1. Infatti, il generico richiamo, nella citazione introduttiva di primo grado, al contenuto dell’art. 29 del regolamento Consob n. 11522 del 1998 non può certamente considerarsi come l’avvenuta proposizione di una domanda fondata anche su tale disposizione. Soltanto in sede di gravame, invece, il P., proprio richiamando quanto genericamente esposto sul punto in citazione, ha sollevato e sviluppato la tesi (del tutto nuova, con conseguente inammissibilità della corrispondente domanda ivi formulata) dell’asserita violazione, da parte delle convenute/appellate, di quanto sancito dall’art. 29 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998.

5.2.2. Affatto condivisibilmente, quindi, la corte distrettuale: i) ha evidenziato che, nell’atto di citazione in prime cure, il P., “dopo aver richiamato la normativa del settore, si limitò in concreto a lamentare che, “nel caso de quo, né l’istituto di credito né la società di gestione gli avevano effettivamente spiegato (..) il tipo è la natura della gestione patrimoniale scelta nonché il rischio conseguente con riferimento a tutti i parametri utili per consentire al cliente di effettuare una scelta consapevole, né lo avevano informato della valenza e portata dell’operazione “posta in essere in costante ed elevatissimo conflitto d’interessi” e del fatto che il mandato conferito alla società di gestione gli avrebbe impedito di sindacare le relative scelte di investimento e, se del caso, intervenire in proposto”, senza lamentar (anche nelle memorie successive) la violazione dell’art. 29 del menzionato Regolamento Consob. Trattasi, come è evidente, di espressioni del tutto generiche, laddove il presupposto per l’applicazione dell’art. 29 citato consiste nel fatto che l’investitore intenda effettuare delle operazioni finanziarie non adeguate al proprio profilo di rischio. Il comma 3 della disposizione in questione recita che “gli intermediari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione”. Pertanto, perché possa ritenersi violato l’obbligo informativo testè descritto, è imprescindibile dare prova del fatto che le operazioni poste in essere dall’investitore non erano adeguate al relativo profilo di rischio. Circostanza che il P. nemmeno ha allegato, avendo la corte di appello affermato che quest’ultimo “non ha in prime cure contestato l’adeguatezza dei contratti di gestione per cui è causa, né dei titoli (non è chiarito quali) successivamente acquistati e poi ivi conferiti rispetto al suo profilo di rischio (esperto ed aggressivo investitore dotato di grandi disponibilità economiche” (cfr. pag. 14 della sentenza impugnata); ii) ha ritenuto che la questione non potesse essere posta, per la prima volta, in sede di gravame. “Non può infatti ritenersi, come vorrebbe l’appellante, che la dedotta violazione dell’obbligo di informazione previsto dall’art. 21 TUF di per sé comprenderebbe anche la contestazione di inosservanza dell’art. 29 Reg Consob essendo il relativo obbligo di condotta “esplicativo del dovere dell’intermediario di agire nell’interesse del cliente”. Basti dire che, mentre l’intermediario è sempre tenuto a fornire le dovute formazioni sulla natura ed i rischi connessi agli investimenti fatti dal cliente per il suo tramite, l’obbligo di tenere la condotta imposta dall’art. 29 Reg. Consob sussiste unicamente qualora l’investimento non sia adeguato al profilo del cliente per oggetto, tipologia, frequenza o dimensione, circostanza che deve essere allegata tempestivamente in causa per entrare a far parte del thema probandum e del thema decidendum nel rispetto del contraddittorio, il che non è avvenuto nel caso di specie” (cfr. pag. 13-14 della sentenza impugnata). Tale pronuncia, dunque, va esente da censura sul punto, in quanto conforme al principio di diritto, ripetutamente enunciato da questa Corte, secondo cui “in virtù del principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, il giudice ha il potere-dovere di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in giudizio, nonché all’azione esercitata in causa, potendo porre a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti, purché i fatti necessari al perfezionamento della fattispecie ritenuta applicabile coincidano con quelli della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, essendo allo stesso vietato, in forza del principio di cui all’art. 112 c.p.c., porre a base della decisione fatti che, ancorché rinvenibili all’esito di una ricerca condotta sui documenti prodotti, non siano stati oggetto di puntuale allegazione o contestazione negli scritti difensivi delle parti” (cfr. Cass. n. 11103 del 2020; Cass. n. 30607 del 2018).

5.3. Immeritevole di accoglimento è anche il secondo profilo della doglianza di cui al motivo in esame, che, come si ricorderà, contesta ai giudici di secondo grado di aver violato gli artt. 21 e 23 T.U.F. nonché gli artt. 28, comma 2, e 29 del Regolamento Consob n. 111522/98 per non aver riconosciuto l’inadempimento delle convenute/appellate agli obblighi comportamentali previsti in tali articoli. 5.3.1. Invero, va innanzitutto evidenziato che i ricorrenti fondano la loro censura su di un presupposto di fatto la cui sussistenza è stata incontrovertibilmente esclusa nel precedenti gradi di giudizio. A differenza di quanto sostenuto dai primi (cfr. pag. 46 del ricorso), infatti, non è emerso che (...) abbia mai agito come mandataria e/o ausiliaria di P. né, tanto meno, come intermediario finanziario, pertanto non era gravata da alcun obbligo informativo.

5.3.2. Altrettanto è a dirsi quanto alla loro affermazione che la sentenza impugnata non avrebbe rispettato le disposizioni sopra indicate pure in relazione all’analisi della gestione degli investimenti affidata a P.. Anche in questo caso, la censura avversaria si basa sull’errato presupposto dell’esistenza di un collegamento negoziale tra i rapporti intercorsi con la Banca e la gestione patrimoniale affidata a P. e di un ruolo attivo di (...) nell’effettuazione dei vari investimenti (“il giudice dell’appello (...) avrebbe dovuto dare rilievo al fatto che al cliente non è stato in alcun modo evidenziato che, in relazione alla particolare modalità operativa suggerita dalla banca (acquisto dei titoli da parte di (...) in utilizzo dei finanziamenti e loro contestuale conferimento nella gestione), sarebbe stato certamente opportuno adottare le cautele che, al pari di quelle previste con leva finanziarla superiore ad uno, potevano e dovevano attuarsi in rapporto alla stessa particolare modalità operativa per evitare che le perdite superassero un certo limite e cagionassero l’indebitamento dell’investitore, e ciò inserendo particolari disposizioni nei contratti di gestione (che erano, come evidenziato dai relativi contratti, “a istruzioni particolari”)”. Cfr. pag. 48 del ricorso): circostanze, queste, negate dai giudici di merito ed in relazione alle quali è sufficiente, da un lato, il richiamo a quanto si è già riferito scrutinandosi il terzo ed il quarto motivo di ricorso; dall’altro, rimarcare che la corte bolognese ha escluso incontrovertibilmente che la “particolare modalità operativa” cui fanno riferimento i ricorrenti sia stata effettivamente applicata, sicché è palese che non vi era alcuna ragione giustificatrice per applicare la normativa prevista per investimenti con una leva finanziaria maggiore rispetto a quella che caratterizzava le operazioni effettivamente poste in essere dal sig. P. (con leva finanziaria pari ad 1).

5.3.3. La decisione impugnata, dunque, non ha violato in alcun modo le disposizioni indicate dai ricorrenti e, al contrario, si rivela corretta pure nella parte in cui esclude qualsivoglia inadempimento dei propri obblighi comportamentali in capo a P.. Invero, alla pag. 13 di tale decisione, si legge che, “all’atto di sottoscrizione del contratto di gestione n. (omissis), il P. dichiarò di non voler rilasciare alcuna informazione sulla sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari e sulla sua situazione finanziaria, pur avvertito che “la richiesta è avanzata nel mio/nostro esclusivo interesse”. Coerentemente, la allegata scheda informativa è in bianco nella parte relativa alla esperienza in materia finanziaria ed alla situazione finanziaria (quest’ultima con barratura) e risulta compilata solo la parte relativa “agli obiettivi di investimento e propensione al rischio” con il contenuto richiamato dall’appellante (...). Lo stesso dicasi per quanto concerne il contratto di gestione n. (omissis) sottoscritto dal P., da sua moglie e dai suoi figli il (omissis). Anche in quella occasione i clienti si rifiutarono di fornire le richieste informazioni sulla loro esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari e sulla loro situazione finanziaria e, stante tale legittima scelta, la sezione destinata ad indicare le relative informazioni è in bianco mentre è riportato l’obiettivo di rendimento “un portafoglio orientato ad investimenti a basso grado di rischio e con una significativa componente in quelli con alto grado di rischio. Risulta dunque osservato il disposto dell’art. 28, comma 1, lett, a) Reg. Consob)”.

5.3.4. Parimenti è stata data corretta applicazione anche all’art. 28, comma 2 del medesimo Regolamento, avendo la corte distrettuale sottolineato, da un lato, che “i contratti di gestione patrimoniale in atti contenevano una chiara ed esauriente descrizione delle caratteristiche e del grado di rischio connesso al tipo di investimento prescelto, puntualmente ed analiticamente riportata da P. nelle sue difese alle quali si rimanda, descrizione che l’appellante era sicuramente in grado di comprendere data la sua profonda conoscenza dei mercati finanziari. Parimenti esaurienti e chiare erano le informazioni contenute nel modulo di scelta della originaria linea di gestione “Europrofilo 7” ed in quelli di modifica della linea sottoscritti nel corso del rapporto”; dall’altro, che al P. erano state fornite tutte le informazioni necessarie circa la natura ed i rischi degli investimenti che si apprestava ad effettuare (cfr., amplius, pag. 14-15 della menzionata decisione).

5.3.5. Neppure decisiva risulta, poi, la contestazione avanzata da L. e P.G.L. quanto all’effettivo valore della dichiarazione resa dal loro dante causa, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alle informazioni ricevute dall’istituto circa gli investimenti (cfr. pag. 47-48 del ricorso). 5.3.5.1. Infatti, pure volendosi soprassedere sul fatto che si tratterebbe, evidentemente, di questione di merito, va evidenziato che l’ampia informativa ricevuta dal P. in relazione alle varie operazioni non è stato l’unico elemento considerato dalla corte felsinea al fine di verificare il rispetto degli obblighi di informazione gravanti su P.. Detta corte, invero, ha ritenuto che i contratti da lui sottoscritti contenessero già tutte le indicazioni che la normativa di settore prevede che l’investitore riceva al momento di effettuare le varie operazioni. La dichiarazione rilasciata dal cliente, pertanto, ha rappresentato soltanto un’ulteriore conferma del corretto operato da parte della società intermediaria.

5.3.5.2. In secondo luogo, benché sia indubbio che una tale dichiarazione non equivalga ad una confessione (né, per la verità, una siffatta natura le è stata attribuita dalla sentenza impugnata), è altrettanto innegabile che dalla stessa il giudice può trarre argomenti di prova, come, evidentemente, è avvenuto nel caso di specie.

5.3.5.3. A tanto deve solo aggiungersi che: i) come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, l’investitore il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, deve allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole; incombe, invece, sull’intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall’ambito di quelle dovute (cfr. tra le più recenti ed esaustive sul tema, Cass. n. 10111 del 2018, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 16126 del 2020); l’ulteriore profilo di doglianza riguardante il nesso di causalità è assorbito dalla conferma dell’alternativa ratio decidendi del difetto di inadempimento dell’obbligo informativo.

5.3.6. In definitiva, quindi, pure questa censura si risolve, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale ed al successivo suo apprezzamento come effettuati dalla corte distrettuale (e dal giudice di prime cure) circa la puntuale osservanza degli obblighi informativi tutti gravanti sulle convenute/appellate (su entrambe o su ciascuna di esse per quanto di specifica competenza), cui i ricorrenti intenderebbero opporre, inammissibilmente (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019), sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione, così nuovamente obliterando che, come si è ampiamente già esposto scrutinandosi il terzo motivo, la denuncia di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass. n. 26300 del 2018). 6. Il sesto motivo di ricorso, denunciando “violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24, artt. 37, 38, 29, 40, 41 e 42 del Regolamento intermediari in relazione alla inosservanza del “benchmark”“, ascrive alla corte territoriale di non avere riconosciuto la mala gestio di P. nell’esecuzione del contratto di gestione patrimoniale nonostante la mancata osservanza del benchmark. Secondo i ricorrenti, il solo scostamento - in negativo, nella misura dello 5,04% annuo medio, nel periodo (omissis) - della gestione dal benchmark di riferimento, riconosciuto, tra l’altro, dalla stessa P., avrebbe determinato, di per sé, un inadempimento di quest’ultima.

6.1. Una siffatta doglianza si rivela inammissibile perché volta ad ottenere, sostanzialmente, una nuova valutazione in ordine al preteso inadempimento della menzionata società di gestione invece ritenuto insussistente dalla corte di merito (“va esente da censure la sentenza nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che il risultato delle gestioni fosse in linea anche con il benchmark di riferimento”. Cfr. pag. 16 della sentenza impugnata), la quale ha ritenuto giustificato detto scostamento alla stregua delle seguenti circostanze: “i conferimenti avvennero (per oltre il 95%) in titoli che necessariamente condizionarono l’operato del gestore; il Pergrehi nell’elaborare personalmente il benchmark di riferimento in occasione del “cambio linea” dell’1.7.2002 (...1, ebbe a prevedere un 75% di azionariato Italia che, negli anni precedenti, aveva avuto un andamento negativo e sul punto non c’è contestazione; il P. era solito intervenire nella allocazione degli investimenti mediante il rilascio di istruzioni particolari che anticipavano o si sovrapponevano alle strategie adottate dalla società di gestione, circostanza puntualmente richiamata in sentenza sulla base di precisi riferimenti documentali sui quali l’appellante non ha svolto alcuna difesa” (cfr. pag. 16-17 della medesima sentenza). 6.2. Orbene, è noto che il contratto di gestione individuale di portafoglio, previsto dall’art. 1, comma 5 T.U.F., consiste in un’attività di gestione personalizzata di strumenti finanziari che si svolge nel tempo: correlativamente, il gestore deve tenere un comportamento diligente per tutta la durata del rapporto. Tant’è - ha spiegato questa Corte - che la sua attività non potrebbe valutarsi globalmente compensando le perdite provocate con i guadagni ottenuti (cfr. Cass. n. 9024 del 2020, in motivazione; Cass. n. 4393 del 2014).

6.2.1. Inoltre, giusta l’art. 42 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998 (applicabile ratione temporis), “1. Ai fini della definizione delle caratteristiche della gestione, l’intermediario deve indicare all’investitore un parametro oggettivo di riferimento coerente con i rischi a essa connessi al quale commisurare i risultati della gestione. 2. Tale parametro deve essere costruito facendo riferimento a indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo”, e la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “nei contratti aventi ad oggetto la gestione di portafogli di valori mobiliari, il benchmark, cioè la linea d’investimento prescelta dal cliente, di cui all’art. 42 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, importa la costituzione di obblighi di condotta da parte del gestore, rappresentando un parametro di riferimento coerente con i rischi della gestione, al quale devono essere commisurati i risultati di questa” (cfr. Cass. n. 23568 del 2020, nonché, in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 24 del 2017).

6.2.2. Ciò implica che la corte di appello doveva valutare se nell’arco di tempo della gestione, l’intermediario fosse stato, o meno, adempiente agli obblighi che gli incombevano: al giudice del gravame si imponeva, in particolare, di apprezzare se la condotta di quest’ultimo fosse stata conforme alla linea di investimento prescelta dall’originario attore.

6.3. In quest’ottica, allora, se è vero che, come già è stato condivisibilmente ritenuto da questa Suprema Corte, il benchmark prescelto, pur non imponendo al gestore di acquistare titoli nelle proporzioni indicate, costituisce un modo per valutare la razionalità e l’adeguatezza dell’attività dell’intermediario, per cui, ove la gestione sia risultata in contrasto con il predetto parametro e, quindi, con i rischi contrattualmente assunti dagli investitori, l’intermediario risponde delle perdite che gli stessi abbiano, per l’effetto, subito (cfr. Cass. n. 23568 del 2020; Cass. n. 24 del 2017; Cass. n. 8089 del 2016), è altrettanto innegabile che, nella specie, la corte distrettuale ha spiegato, affatto adeguatamente, le ragioni (tra esse merita rilievo l’affermazione che “il P. era solito intervenire nella allocazione degli investimenti mediante il rilascio di istruzioni particolari che anticipavano o si sovrapponevano alle strategie adottate dalla società di gestione, circostanza puntualmente richiamata in sentenza sulla base di precisi riferimenti documentali sui quali l’appellante non ha svolto alcuna difesa”) che l’hanno indotta a concludere nel senso che il descritto scostamento (peraltro di modesta entità) non potesse influire sul risultato delle gestioni, comunque ritenuto “in linea anche con il benchmark di riferimento”.

6.3.1. In altri termini, ciò che il Collegio intende rimarcare è che, in una fattispecie, come quella in esame, in cui non vi è stata alterazione della concordata composizione del portafoglio titoli, affinché sia effettivamente configurabile una mala gestio dal parte del gestore, per asseriti risultati negativi della gestione, non è sufficiente il mero scostamento dal benchmark prescelto (altrimenti ricorrendo un’ipotesi di responsabilità sostanzialmente oggettiva), dovendosi, invece, valutare pure le ragioni di detto scostamento al fine di individuare eventuali, concreti profili di negligenza e/o imprudenza e/o imperizia del gestore medesimo, che, peraltro, possono essere rivelati anche dall’entità dello scostamento stesso.

6.3.2. Nella specie, come si è già anticipato, la corte distrettuale ha accertato che le indicazioni impartite dall’investitore quanto alle proporzioni tra le categorie di titoli destinate a caratterizzare il suo patrimonio affidato in gestione erano state rispettate ed ha ritenuto che “il risultato delle gestioni fosse in linea anche con il benchmark di riferimento”, valutando lo scostamento del 5,04 % annuo medio, in negativo, per 5 anni, dal (omissis), come modesto, sicché non significativo, di per sé, di colpa.

6.3.3. A fronte di questo motivato convincimento, quindi, l’odierna censura: i) da un lato, si risolve, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui i ricorrenti, ancora una volta, intenderebbero inammissibilmente opporre, sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass. n. 7119 del 2020); II) dall’altro, laddove assume che “anche ove le istruzioni date dal cliente in corso di rapporto fossero state idonee a comportare uno scostamento del benchmark, il gestore avrebbe dovuto farlo presente al cliente ed astenersi dall’eseguire operazioni idonee a comportare il predetto scostamento, ovvero ed eventualmente, mutare, in accordo con il cliente, l’originario benchmark” (cfr. pag. 54 del ricorso), si rivela del tutto nuova e, come tale, inammissibile in questa sede perché implicante accertamenti di carattere fattuale in ordine alla specifica tipologia ed all’effettivo contenuto delle istruzioni di volta in volta impartite al fine di rapportarle alla concreta condotta da esigersi dall’intermediario (cfr. Cass. n. 7922 del 2015, a tenore della quale “in tema di gestione di patrimonio mobiliare, è configurabile la responsabilità dell’intermediario finanziario che abbia dato corso ad un ordine, ancorché vincolante, ricevuto da un cliente non professionale, concernente un investimento particolarmente rischioso, atteso che la professionalità del primo, su cui il secondo abbia ragionevolmente fatto affidamento in considerazione dello speciale rapporto contrattuale tra essi intercorrente, gli impone comunque di valutare l’adeguatezza di quell’operazione rispetto ai parametri di gestione concordati, con facoltà, peraltro, di recedere dall’incarico, per giusta causa, qualora non ravvisi tale adeguatezza”. In senso conforme si veda pure la successiva Cass. n. 1376 del 2016). 7. In definitiva, l’odierno ricorso va respinto, restando le spese di questo giudizio di legittimità a carico di L. e P.G.L., in solido tra loro, giusta il principio di soccombenza, altresì dandosi atto - in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 - che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti, in via solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna L. e P.G.L., in solido tra loro, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano, in favore di ciascuna delle controricorrenti, in Euro 20.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti, in via solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

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