SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 18 maggio 2011 presso la Corte d’appello di Campobasso, P.A.M., in proprio e quale accomandataria della Essedue di Paolini Anna Maria s.a.s., ha proposto, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale sofferto a causa della non ragionevole durata di una procedura fallimentare, iniziata con la dichiarazione di fallimento della Essedue di Paolini Anna Maria s.a.s., avvenuta con sentenza del Tribunale di Lanciano del 24 aprile 1992, ancora pendente alla data di proposizione della domanda.
L’adita Corte d’appello ha rigettato la domanda ritenendo che la domanda stessa avrebbe dovuto essere proposta dal curatore del fallimento della società.
Per la cassazione di questo decreto P.A.M., in proprio e quale accomandataria della Essedue di Paolini Anna Maria s.a.s., ha proposto ricorso sulla base di un motivo; l’intimata Amministrazione ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza.
Con l’unico motivo del ricorso la ricorrente denuncia violazione del combinato disposto della L. Fall., art. 43, comma 1 e art. 46, comma 1, nonché della L. n. 89 del 2001, art. 2, richiamando la giurisprudenza di legittimità che riconosce la legittimazione del fallito alla proposizione della domanda di equa riparazione, laddove invece la Corte d’appello ha ritenuto che detta legittimazione spetterebbe nei limiti della dimostrazione della inerzia degli organi fallimentari.
Il ricorso è fondato.
Ritiene il Collegio che debba essere condiviso l’orientamento espresso da Cass. n. 17261 del 2002; Cass. n. 12807 del 2003, dal quale la Corte d’appello di è discostata aderendo ad altra pronuncia di questa Corte (Cass. n. 3117 del 2005).
Secondo le prime due decisioni, invero il fallito rientra tra i titolari del diritto alla ragionevole durata di procedimento fallimentare, come configurato dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, è ciò sulla base del rilievo che la procedura fallimentare riguarda lui prima e più di chiunque altro. Ciè è poi confermato in modo indiscutibile dalla tutela che lo stesso ordinamento gli assicura, nell’ambito del procedimento che conduce alla dichiarazione del fallimento (basti pensare al suo diritto alla preventiva audizione, risultante dalla disposizione della L. Fall., art. 15, dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 141 del 1970), a causa delle molte e rilevanti conseguenze giuridiche che la declaratoria di fallimento ed il successivo procedimento esecutivo concorsuale sono destinati direttamente a produrre nella sua sfera giuridica. Quanto poi al procedimento concorsuale vero e proprio, molteplici sono le norme che prevedono o presuppongono la possibilità di intervento e di interlocuzione del fallito. Il fatto poi che, perdurando tale procedimento, egli sia soggetto anche a gravose limitazioni di carattere personale vale ulteriormente a dimostrare che – ai fini della titolarità del diritto alla ragionevole durata del processo, e nell’accezione che ad un simile termine deve essere riconosciuta in siffatto contesto normativo – il fallito è parte del processo fallimentare essendo la sua posizione giuridica direttamente interessata al maggiore o minor protrarsi di tale processo nel tempo.
Tale orientamento appare maggiormente rispondente alla logica della L. n. 89 del 2001 e alla configurazione del diritto della parte alla ragionevole durata del procedimento in termini di diritto fondamentale e dell’indennizzo alla stessa spettante in caso di violazione in termini di ristori di un pregiudizio morale. D’altra parte, ove si consideri che il curatore fallimentare è un organo della procedura fallimentare e che ai fini della valutazione della durata della stessa deve tenersi conto anche della sua condotta e dei suoi comportamenti, potendosi quindi ipotizzare proprio con riferimento alla domanda di equa riparazione per irragionevole durata della procedura un conflitto di interessi tra il curatore e il fallito, appare ragionevole ribadire la legittimazione del fallito alla proposizione della domanda di cui alla L. n. 89 del 2001. Il diverso orientamento non tiene poi conto delle conseguenze personali della dichiarazione di fallimento e del protrarsi irragionevole della detta condizione per la mancata conclusione della procedura. Né può essere sottaciuto che “la perdita della capacità processuale del fallito a seguito della dichiarazione di fallimento non è assoluta ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto – e per essa al curatore – è concesso eccepirla, con la conseguenza che se il curatore rimane inerte ed il fallito agisce per conto proprio, la controparte non è legittimata a proporre l’eccezione Né il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di capacità” (Cass. n. 17418 del 2004; Cass. n. 15713 del 2010).
Il provvedimento impugnato va quindi cassato atteso che la Corte d’appello si è discostata dal principio di diritto per cui “la disciplina dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo trova applicazione anche nel caso in cui il ritardo lamentato si riferisca al procedimento esecutivo concorsuale cui da vita la dichiarazione di fallimento, ed anche in favore del fallito, il quale, in quanto parte del processo fallimentare, è titolare del diritto alla ragionevole durata di esso”.
Il decreto impugnato va quindi cassato, con rinvio alla Corte d’appello di Campobasso, la quale, in diversa composizione, procederà all’esame della domanda di equa riparazione facendo applicazione dell’indicato principio di diritto. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Campobasso, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2013