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Home » Amministrativo Enti locali » Cassazione civile, sez. II, 27 marzo 2003, n. 4538

Cassazione civile, sez. II, 27 marzo 2003, n. 4538

RedazionediRedazione
27 Marzo 2003
inAmministrativo Enti locali, Civile e procedura civile, Sentenze
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con delibera del 2/7/1984 il consiglio di amministrazione della Cooperativa edilizia S. Sebastiano disponeva l’esclusione del socio Henrich Leiter per morosità.
La delibera era annullata dalla commissione di vigilanza con decisione del 25/11/1986 che, su ricorso della cooperativa, era annullata dal Consiglio di Stato con pronuncia del 16/1/1993, sul rilievo che il ricorso alla commissione era stato proposto tardivamente.
Con atto notificato il 29/12/1993 il Leiter conveniva in giudizio la cooperativa e gli amministratori per sentirli condannare al pagamento degli interessi, sulle somme versate alla cooperativa, dalla data dell’esclusione a quella della restituzione, nonché per ottenere, previo accertamento dell’illegittimità dell’esclusione, la condanna al risarcimento dei danni conseguenti.
L’adito Tribunale di Bolzano, con sentenza 23/10/1998, rigettava la domanda relativa agli interessi, mentre dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario circa la domanda di accertamento dell’illegittimità dell’esclusione del socio e l’inammissibilità della conseguente domanda di risarcimento del danno.
Pronunciando sul gravame del Leiter la Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, con sentenza 27/11/1999, in parziale riforma della decisione impugnata, accoglieva la domanda relativa agli interessi e rigettava la domanda di risarcimento del danno.
Considerava la corte che l’attore aveva proposto due domande aventi ad oggetto, rispettivamente, la richiesta di accertare l’illegittimità dell’esclusione e la richiesta di risarcimento dei danni derivati dall’illegittima esclusione, che correttamente il tribunale aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di accertamento dell’illegittimità della delibera di esclusione, trattandosi di questione concernente la qualità di socio di cooperativa edilizia attribuita alla competenza della Commissione di vigilanza e poi devoluta alla giurisdizione del Consiglio di Stato in sede di impugnativa delle deliberazioni di dette Commissioni; che sulla domanda di risarcimento danni sussisteva invece la giurisdizione del giudice ordinario; che tale domanda, diversamente da quanto affermato dal tribunale, era ammissibile ma doveva essere rigettata perché infondata; che, infatti, il Consiglio di Stato aveva constatato, con efficacia di giudicato, la decadenza del diritto del socio ad impugnare la delibera di esclusione, per cui doveva ritenersi vietato al Leiter chiedere il risarcimento del danno, connesso all’esclusione, presupponendo il relativo diritto la tempestività dell’impugnazione.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Bolzano il Leiter ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Hanno resistito con unico controricorso la cooperativa ed i componenti del consiglio di amministrazione. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite di questa Corte per l’esame del primo e del quinto motivo attinenti alla giurisdizione. Detti motivi sono stati dichiarati inammissibili con sentenza 11721/02.
La trattazione degli altri motivi di ricorso è stata poi assegnata a questa sezione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Occorre premettere che con la citata sentenza 11721/02, pronunciata da questa Corte a Sezioni unite, sono stati dichiarati inammissibili ponendo questioni di merito e non di giurisdizione – il primo ed il quinto motivo di ricorso relativi rispettivamente:
a) al lamentato errore commesso dalla Corte di appello nel dichiarare il proprio difetto di giurisdizione sulla domanda di accertamento dell’illegittimità della delibera di esclusione, domanda formulata non in via autonoma, bensì esclusivamente al fine dell’accertamento di un presupposto della domanda di risarcimento del danno;
b) alle parti della motivazione della sentenza impugnata con le quali la Corte di appello ha ritenuto inconferente il richiamo alla sentenza delle Sezioni unite 500/99 sulla risarcibilità degli interessi legittimi ed ha affermato che sulla richiesta di revoca della delibera di esclusione sarebbe competente esclusivamente il giudice amministrativo.
Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando errata applicazione degli articoli 2909 e 1306 cod.civ. e vizi di motivazione, lamenta l’errore commesso dalla Corte di appello nell’affermare che con la decisione del Consiglio di Stato 46193 sarebbe stata decisa definitivamente la questione della illegittimità, o meno dell’avvenuta esclusione di esso Leiter dalla cooperativa edilizia, con conseguente preclusione della proposizione della domanda di risarcimento danni.
Ad avviso del ricorrente con la detta pronuncia il Consiglio di Stato ha annullato la decisione della Commissione provinciale esclusivamente per motivi formali laddove la preclusione per effetto di giudicato sostanziale può scaturire solo da una situazione che abbia attribuito o preteso il bene preteso. Peraltro nel giudizio innanzi al Consiglio di Stato era stato chiesto l’annullamento dell’esclusione dalla cooperativa, mentre nel giudizio innanzi al giudice ordinario era stato chiesto solo il risarcimento del danno subito per l’illegittima esclusione.
L’oggetto dei due giudizi non è quindi identico sicché non sussiste un giudicato ostativo alle domande proposte nel giudizio in esame. Infine l’applicazione dell’articolo 1306 cod.civ. a favore dei membri del consiglio di amministrazione è errata perché la posizione di questi ultimi è del tutto diversa da quella della cooperativa: su questo punto l’impugnata sentenza non contiene alcuna motivazione.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omessa motivazione per non essersi la Corte di appello occupata della domanda di risarcimento danni proposta ex articolo 2043 cod.civ. con richiamo anche agli articoli 2392, 2394 e 2395 cod.civ., nonché alla nuova e più recente interpretazione del concetto di “danno ingiusto” di cui alla sentenza 500/99 delle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia vizi di motivazione sostenendo di aver basato la domanda di risarcimento danni anche sul fatto che l’esclusione dalla cooperativa era avvenuta con la commissione di diversi reati e precisamente: truffa, appropriazione indebita, estorsione, ipotesi delittuose di cui agli articoli, 2621, 2623 e 2631 cod.civ.. Al riguardo la Corte di appello ha affermato che il riferimento ai detti reati sarebbe irrilevante in quanto la richiesta di risarcimento danni era stata basata solo sull’avvenuta illegittima esclusione con la quale non era stato commesso nessuno dei reati indicati. Ad avviso del ricorrente questa affermazione è illogica e non è una motivazione.
La Corte rileva l’infondatezza delle dette censure che possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione logica e per la loro interdipendenza.
La controversia in esame è relativa ad una domanda risarcitoria ex articolo 2043 cod.civ. – proposta nei confronti di una cooperativa edilizia, operante con il contribuito dello Stato, oltre che degli amministratori di tale cooperativa – ed è anteriore – alla innovazione del sistema di riparto della giurisdizione introdotta con il decreto legge 80/1998 e con la legge 205/00.
Ciò posto bisogna osservare che, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale di questa Corte (tra le ultime sentenza 2588/02), il giudice ordinario è titolare del potere di disapplicare il provvedimento amministrativo quando l’oggetto della controversia al suo esame è costituito dalla pretesa di un diritto soggettivo perfetto e quando la valutazione della legittimità del provvedimento debba avvenire soltanto in via incidentale il che si verifica allorché l’atto amministrativo non assume rilievo come causa del diritto del privato, ma come mero antecedente, sicché la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come questione pregiudiziale in senso tecnico e non come questione principale.
Nel caso di specie il giudice di appello nella motivazione dell’impugnata sentenza ha evidenziato che il Leiter aveva «fatto valere il risarcimento dei danni esclusivamente quale diritto derivante dalla apparente illecita delibera di esclusione dd 2/7/1984» ed a sostegno delle sue pretese aveva dedotto «gli stessi motivi di impugnazione già fatti valere in via amministrativa ed in sede di giurisdizione amministrativa».
In particolare il Leiter – come risulta dalla lettura della decisione di cui si chiede l’annullamento e dello stesso ricorso – ha posto a base del preteso diritto al risarcimento del danno una fattispecie riconducibile all’articolo 2043 cod.civ. sostenendo l’illegittimità dell’esercizio del potere da parte della cooperativa edilizia (e, quindi, dell’atto di esclusione da detta cooperativa ) ed il verificarsi di un evento dannoso ritenuto ingiusto ed attribuibile ad una illecita condotta della cooperativa (e dei membri del direttivo) improntata a dolo o colpa.
La Corte di appello ha rigettato tale domanda perché la questione pregiudiziale – relativa alla legittimità o meno della delibera di esclusione da socio – era stata risolta in senso sfavorevole al Leiter non avendo questi impugnato tempestivamente la detta delibera.
La corte di merito ha al riguardo affermato che la domanda in questione era da rigettare presupponendo il suo accoglimento «una decisione opposta della questione pregiudiziale, cioè una decisione favorevole all’attore».
La corte territoriale ha infine ritenuto infondato il riferimento ai reati che sarebbero stati commessi dai membri del direttivo della cooperativa – in quanto l’asserita illecita esclusione dalla cooperativa edilizia «di per sé non corrisponde a nessuno dei reati citati» – nonché il richiamo alla sentenza di questa Corte 500/99.
In relazione a tale ultimo aspetto della controversia il giudice di secondo grado ha rilevato che la citata sentenza riguardava una richiesta di risarcimento danni a seguito di violazione di «interessi legalmente protetti» laddove il Leiter aveva «fatto valere quale criterio anticipato del diritto al risarcimento danni di diritto soggettivo all’annullamento di una delibera di esclusione apparentemente illecita e non un cosiddetto diritto legalmente protetto».
La corte distrettuale ha segnalato che la domanda risarcitoria del Leiter si basava «causalmente, direttamente ed esclusivamente sulla apparentemente illecita esclusione dalla cooperativa edilizia».
In tal modo la corte di merito ha in sostanza qualificato come questione principale e non pregiudiziale quella riguardante l’accertamento della asserita illegittimità della citata delibera di esclusione del 2/7/1984.
La decisione impugnata contrariamente a quanto sostenuto dal Leiter con i motivi di ricorso in esame è ineccepibile in quanto l’esame della fondatezza o meno della domanda del ricorrente comporta necessariamente la soluzione della detta questione circa la dedotta illegittimità di un atto amministrativo, e circa la esclusione o meno dello spiegamento di tutti gli effetti di tale atto nel giudizio innanzi al giudice ordinario dopo che in, sede di giustizia amministrativa era stata accertata la decadenza del Leiter dal diritto ad impugnare la delibera di esclusione dalla Cooperativa edilizia S. Sebastiano.
Nel caso in esame è evidente l’immediata, diretta e non occasionale collegabilità del richiesto risarcimento all’asserita illegittimità della delibera di esclusione: la pretesa risarcitoria risulta infatti espressamente fondata sul presupposto della contestata legittimità dell’atto di esclusione. Il richiesto accertamento circa la legittimità di detto atto non investe pertanto una questione pregiudiziale da affrontare e risolvere incidenter tantum ma costituisce un elemento essenziale del thema decidendum.
Occorre osservare che la giurisprudenza si è da tempo orientata, abbandonando orientamenti restrittivi che garantivano la tutela risarcitoria alle sole situazioni soggettive ascrivibili all’area dei diritti soggettivi (e addirittura, in un primo tempo, ai soli diritti soggettivi a carattere assoluto), nel senso che la norma sulla responsabilità aquiliana non è una norma (secondaria) volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme primarie, bensì una norma (primaria) che appresta una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui.
Sicché, non assume rilievo determinante la qualificazione formale della situazione giuridica soggettiva base o di partenza, sorgendo il diritto di credito al risarcimento dalla fattispecie autonoma costituita dalla lesione ingiusta di un interesse giuridicamente rilevante e meritevole di tutela. Un tale interesse non, è definibile a priori, stante l’atipicità dell’illecito civile delineato dall’articolo 2043 cod.civ., per cui compete al giudice, di volta in volta, selezionare gli interessi meritevoli di tutela valutandoli e comparandoli con altri, contrapposti, al fine di verificare sé vi è stata rottura del “giusto” equilibrio.
A lungo ha resistito la chiusura opposta alle istanze risarcitorie dei titolari di interessi legittimi di diritto pubblico, danneggiati dall’esercizio del potere amministrativo in modo non conforme a legge.
La tutela risarcitoria nei confronti dell’uso illegittimo della funzione pubblica è stata, infine, ritenuta pienamente ammissibile dalla sentenza delle sezioni unite della Corte 500/99, che ha così enunciato un principio che è stato condiviso anche dalla più recente giurisprudenza amministrativa, nell’esercizio della nuova competenza giurisdizionale assegnatale dall’articolo 7, comma terzo, della legge 1034/71 (nel testo sostituito dall’articolo 35, comma 4, decreto legislativo 80/1998, come novellato dalla legge 205/00).
Ai fini della proponibilità di un’azione risarcitoria per danni arrecati dall’esercizio del potere amministrativo non è più richiesto, quindi, che alla situazione, base, o di riferimento, sia restituita l’originaria consistenza del diritto soggettivo a seguito dell’annullamento dell’atto che ne aveva provocato l’affievolimento, ammettendosi anche il titolare di interesse legittimo cosiddetto mero ad accedere alla tutela aquiliana.
L’indagine deve ora concentrarsi sul quesito se sia consentito qualificare come non conforme al diritto oggettivo una condotta coerente con la situazione giuridica determinata dalla persistente efficacia, prevista dalla legge, di un atto amministrativo.
Una risposta di segno positiva è stata data dalla citata decisione delle Sezioni unite 500/99.
Infatti, nella prospettiva dell’indagine concernente i requisiti necessari perché sia astrattamente proponibile una domanda risarcitoria nei confronti dell’amministrazione pubblica per l’uso dannoso della funzione, la sentenza indicata ha enunciato il generale principio secondo cui si può azionare la pretesa risarcitoria anche senza il previo intervento demolitorio dell’atto ad opera del giudice amministrativo (o della stessa amministrazione). Si sottolinea, in particolare, l’autonomia tra le due giurisdizioni, corrispondente al diverso ambito dei due giudizi, che l’anno ad oggetto fattispecie differenti (l’illegittimità dell’atto, da una parte la sua illiceità, dall’altra). Si conclude, dunque, che nel giudizio ordinario si può e si deve procedere all’accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa siccome rappresenta uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 cod.civ., oltre che alle più complesse valutazioni estese all’accertamento della colpa e del nesso di causalità.
Premesso che, nell’ambito di una decisione limitata alla risoluzione della questione di giurisdizione, le affermazioni relative agli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 cod.civ., assumono la portata di obiter dictum e che, in ogni caso, la menzionata decisione delle Sezioni unite non riveste l’autorità delle pronunce emesse a norma dell’articolo 374, comma secondo, Cpc, la Corte ritiene di doversi discostare, nella decisione della controversia, dai principi espressi nei termini sopra riferiti dalla detta sentenza.
Sul piano dei principi propri dell’ordinamento amministrativo, è affidata, nei casi di attribuzione di potere provvedimentale, alla potestà disciplinatrice e ordinatrice dell’amministrazione la creazione della regola del caso concreto. All’atto programmatico che la esprime, tutti, compresa l’amministrazione, devono adeguare la propria condotta, indipendentemente dalla sua conformità alla legge (cosiddetto principio di dissociazione tra validità ed efficacia dell’atto), fino a quando l’invalidità non sia accertata secondo le procedure previste.
È vero che l’inoppugnabiliità dell’atto è nozione solo processuale in quanto esclude l’annullamento giurisdizionale, senza incidere sulla condizione giuridica dell’atto stesso, il quale, permanendo la sua non conformità alla legge, può essere per tale ragione rimosso dal suo autore ad ogni effetto (autotutela decisoria della pubblica amministrazione), ovvero rimosso dal giudice ai fini della decisione di una controversia, con valutazione incidentale, senza effetti di giudicato, della sua illegittimità (disapplicazione ex articolo 5 legge 2248/1865, all. E).
Ma, è altrettanto certo che, in assenza della rimozione dell’atto, il permanere della produzione degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria coerenza dell’ordinamento impedisce di valutare in termini di danno ingiusto gli effetti medesimi.
Altrimenti, dovrebbero essere possibili rimedi atti ad eliminarli o a farli cessare, ma così non è, in quanto il giudice del risarcimento del danno non è abilitato ad incidervi (per definizione, la controversia risarcitoria non ha ad oggetto l’esercizio della funzione amministrativa in quanto tale), restando così, sicuramente esclusa l’applicazione dell’articolo 2058 cod.civ. L’amministrazione, da parte sua, non è obbligata ad annullare di ufficio gli atti definitivi (non suscettibili, cioè, di ricorso amministrativo ordinario) di esercizio del potere non conformi a legge e può farlo solo per soddisfare uno specifico interesse pubblico, per definizione non coincidente con quello del soggetto danneggiato dall’atto.
Giunti alla conclusione che la situazione giuridica prodotta da un atto amministrativo può essere ritenuta non conforme al diritto oggettivo solo attuando la rimozione dell’atto stesso, sul piano delle regole processuali del giudizio ordinario intentato per il risarcimento dei danni cagionati dal patto stesso, ciò potrebbe avvenire esclusivamente mediante l’istituto della disapplicazione.
Ma, il pacifico orientamento espresso dalla giurisprudenza della Corte (ribadito di recente, del resto, proprio con riguardo a controversia concernente il risarcimento del danno da uso illegittimo della funzione, dalla sentenza 2588/02), è nel senso che il giudice ordinario può disapplicare l’atto amministrativo solo quando la valutazione della legittimità del medesimo debba avvenire in via incidentale, ossia quando l’atto non assume rilievo come causa della lesione del diritto del privato, ma come mero antecedente, sicché la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale.
Resta dunque escluso che l’indagine sulla sussistenza di uno (in primo in ordine logico-giuridico) degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 cod.civ. sia inerente a questione pregiudiziale suscettibile di essere decisa incidentalmente e senza effetti di giudicato.
Nella medesima prospettiva, del resto, si è collocata la motivazione della sentenza 500/99, che non ha affatto richiamato il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi, ma si è basata sull’autonomo potere del giudice del risarcimento del danno di accertare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 cod.civ..
Si sono già esposte le ragioni per le quali non può consentirsi con la tesi che una situazione giuridica la quale deve restare inalterata per volontà di legge – senza che ne sia consentita la rimozione neppure ai soli fini della decisione della controversia – possa nondimeno qualificarsi non conforme a legge e fondare il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 2043.
Altre considerazioni offrono sostegno ulteriore a tale risultato interpretativo. Il principio fondamentale di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, a cui presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, subirebbe un notevole vulnus ove fosse consentito far valere, sia pure ad altri fini, l’illegittimità.
Il sistema di tutela dei cittadini nei confronti del potere amministrativo non consente di ritenere che si possa rinunciare ad avvalersi della tutela specifica costituita dalla domanda di demolizione dell’atto, per optare per la tutela risarcitoria, soggetta al termine non di decadenza ma prescrizionale.
Se così fosse, l’amministrazione sarebbe posta nell’alternativa o di annullare l’atto di ufficio (ammesso che l’interesse pubblico specifico possa essere fatto coincidere con l’opportunità di contenere gli obblighi risarcitori e prevalga sull’interesse degli eventuali controinteressati), ovvero tenere fermo l’assetto di interessi pur in presenza di una condanna che si fondi sull’accertamento dell’illegittimità dell’atto, con evidente contraddizione con il principio generale, espresso chiaramente dall’ordinamento, secondo cui i fatti illeciti devono essere comunque repressi.
Del resto, l’assenza di autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento dell’atto è esplicitamente sancita dal diritto positivo e la regola è stata confermata con l’intervento legislativo attuato con la legge 205/00.
La riserva di giurisdizione ordinaria in tema di “diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità (rectius di illegittimità) dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre”, stabilita dall’articolo 30, comma secondo, regio decreto 1054/24 Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) e dall’articolo 7, comma terzo, legge 1034/71 (vecchio testo), era stata, pacificamente e da epoca risalente, riferita dalla giurisprudenza della Corte alla pretesa risarcitoria avanzata a sussidio e completamento di quella ottenuta in sede di giurisdizione amministrativa.
Non si ravvisano, perciò, valide ragioni in grado di suffragare la tesi secondo cui il legislatore del 2000, avendo optato per l’accentramento della tutela dinanzi al giudice amministrativo attribuendogli competenza, nell’ambito della sua giurisdizione, su tutte le questioni relative ai diritti patrimoniali consequenziali, tra le quali quelle relative all’eventuale risarcimento del danno (articolo 7, comma terzo, legge 1034/71), nel testo sostituito dalla legge 205/00), abbia inteso escludere l’autonomia fra giudizio di annullamento e giudizio di risarcimento del danno, con effetti innovativi, sul punto, del dato normativo preesistente.
Si è già avvertito che, nella sostanza, l’apparato concettuale che induce a negare l’autonomia dell’azione di annullamento dell’atto amministrativo rispetto all’azione di risarcimento dei danni prodotti dagli effetti dell’atto, giustifica anche la più generale conclusione circa l’impossibilità di qualificare in termini di fatto illecito una situazione giuridica che l’ordinamento riconosce come verificata e produttiva di effetti, se non rimossa mediante gli specifici rimedi previsti.
Invero, sia nei rapporti paritetici, fuori cioè dell’ambito dell’esercizio del potere pubblico, tra cittadini e pubblica amministrazione, sia in quelli interprivati, molteplici sono le ipotesi in cui è accordato preminente rilievo all’esigenza di certezza, sicché l’interessato ha l’onere di contestare la conformità al diritto di determinate situazioni mediante l’impugnazione di atti o comunque reagendo entro termini di decadenza.
Ove non adempia a tale onere, non gli è consentito ottenere con l’azione risarcitoria l’accertamento della non conformità a legge della situazione, accertamento che, come si è detto, deve farsi necessariamente in via principale e con efficacia di giudicato, vertendo su uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 cod.civ..
Così, ad esempio, non sarebbe consentito domandare il risarcimento del danno per essere stati assoggettati illegittimamente a sanzione amministrativa mediante ordinanza-ingiunzione non impugnata ai sensi della legge 689/81, o comunque indipendentemente dall’impugnazione, il lavoratore licenziato non può scegliere di optare per il risarcimento del danno, senza impugnare il recesso secondo le prescrizioni della legge 604/66; lo stesso deve dirsi per il caso di mancata impugnativa di delibere condominiali o societarie.
L’esito di rigetto del ricorso discende, dunque, dal seguente principio di diritto:
«la non conformità di una situazione giuridica al diritto oggettivo (cosiddetta antigiuridicità in senso oggettivo), quale elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 2043 cod.civ., non può essere accertata in via incidentale e senza efficacia di giudicato, sicché, ove l’accertamento in via principale sia precluso nel giudizio risarcitorio in quanto l’interessato non sperimenta, o non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza, transazione, ecc.), i rimedi specifici previsti dalla legge per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la domanda risarcitoria deve essere rigettata perché il fatto produttivo del danno non è suscettibile di essere qualificato illecito».
In definitiva devono essere rigettati il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso dopo il già pronunciato rigetto del primo e del quinto motivo con la sopra citata sentenza delle Sezioni unite 11721/02.
Per la sussistenza di giusti motivi le spese del giudizio di legittimità vanno per intero compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso alla c.c. del 5 dicembre 2002
Depositata in cancelleria in data 27 marzo 2003.

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