SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 29/7 e l/8/2002 il Ministero dell’Interno proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Trento del 30/5/2002, con la quale era stato condannato al pagamento, in solido con il Commissariato del Governo, dell’importo di Euro 216.391,49 in favore della Carrozzeria Cirè s.n.c., quale corrispettivo per la custodia di veicoli sottoposti a sequestro.
Nella resistenza della Carrozzeria Cirè s.n.c. la Corte d’Appello di Trento in riforma della gravata decisione rigettava la domanda proposta da quest’ultima, quale originaria attrice, nei confronti del Commissariato del governo, e condannava il Ministero dell’Interno al pagamento della minor somma di Euro 51.643,11 (oltre agli interessi di legge dal 28 agosto 2000 e ad I.V.A. se dovuta), che, disattendendo le tariffe di categoria elaborate dall’A.N.C.S.A. (Associazione Nazionale Centri Soccorso Autoveicoli ) prese a base di calcolo dal giudice di prime cure, così rideterminava in base alle tariffe vigenti e agli usi locali. Disponendo altresì la compensazione per 1/3 delle spese del 1^ grado di giudizio e per intero di quelle del gravame.
Avverso la suddetta decisione della Corte di merito la Carrozzeria Cirè s.n.c. propone ora ricorso per Cassazione, affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso il Ministero dell’Interno e il Commissariato del Governo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1^ motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1781 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Deduce di essere creditrice delle controparti relativamente alle somme pretese a titolo di corrispettivo per le erogate prestazioni di trasporto e custodia di 111 veicoli.
Si duole che nella determinazione di quanto a tale titolo spettantele la Corte d’Appello abbia fatto riferimento “solo in via indicativa, non quindi in maniera conforme, alle tariffe ACI ed agli usi locali”, in quanto a tale stregua essa ha applicato un “criterio di liquidazione soggettivo ed incontrollabile, e non già oggettivo e predeterminato, così distaccandosi dal principio fissato in materia dalla Corte Costituzionale con sentenza 21 aprile 1989, n. 230”.
Con il 2 motivo denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 571 del 1982, art. 12, anche con riferimento all’art. 1781 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che siano “destituite di ogni fondamento” le tariffe applicate dalla Corte di merito.
Solleva eccezione di costituzionalità dell’art. 1781 c.c., risultando “violato l’impegno assunto dall’Amministrazione con il Custode all’atto del conferimento dell’incarico di corrispondere il compenso pattuito”.
Con il 3 motivo denunzia incongrua, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che “Per le ragioni sopra esposte e la palese contraddittorietà tra le argomentazioni che sottendono valutazioni di natura pubblicistica e per converso privatistiche, la decisione si manifesta viziosamente motivata. D’altra parte neppure il Giudice di 2^ grado ha argomentato in merito alle ragioni che possono avere indotto a ritenere applicabile ai rapporti intercorrenti tra l’Amministrazione dell’Interno e l’odierno ricorrente ipotesi contrattuali diverse che non possono essere analogicamente estese alla fattispecie perché non contrattualizzate.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati in quanto connessi, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
Risponde a consolidato principio posto da questa Corte che il ricorso per Cassazione deve invero contenere tutti gli elementi previsti dall’art. 366 c.p.c..
In particolare, il requisito della esposizione sommaria dei fatti di causa prescritto – a pena di inammissibilità – dall’art. 366 c.p.c., n. 3, postula che il ricorso per Cassazione, pur non dovendo necessariamente contenere una parte relativa alla esposizione dei fatti strutturata come premessa autonoma e distinta rispetto ai motivi o tradotta in una narrativa analitica o particolareggiata dei termini della controversia, offra, almeno nella trattazione dei motivi di impugnazione, elementi tali da consentire una cognizione chiara e completa non solo dei fatti che hanno ingenerato la lite, ma anche delle varie vicende del processo e delle posizioni eventualmente particolari dei vari soggetti che vi hanno partecipato, con esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, in modo che si possa di tutto ciò avere conoscenza esclusivamente dal ricorso medesimo, senza necessità di attingere ad altri elementi o atti (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 22/5/1999, n. 4998), ivi compresa la sentenza impugnata (v. Cass., 28/6/2006, n. 2803), non potendo al riguardo invero nemmeno distinguersi fra esposizione del tutto omessa ed esposizione insufficiente (v. Cass., 3/2/2004, n. 1959).
I motivi posti a fondamento dell’invocata Cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) e sotto quale profilo, abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronunzia di merito, in termini cioè insufficienti ed inidonei a consentire di bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v. Cass., 4/6/1999, n. 5492).
Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per Cassazione costituisce infatti diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali, e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo – ancorchè la legge non lo prevedaallorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2).
Principi che, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per Cassazione, e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di Cassazione nel quale la trattazione si esaurisce nell’udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), depongono per l’affermazione del principio per il quale il motivo di ricorso per Cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), deve essere necessariamente specifico, ed articolarsi nell’enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo.
L’onere di specificazione deve essere allora in tal caso assolto tenendo conto delle regole processuali che presiedono alla rilevazione dell’errore ed alla sua deducibilità come motivo di impugnazione, in modo che la Corte venga posta nella condizione di procedere ad un controllo mirato sugli atti processuali in funzione di quella verifica (v. Cass., 4/3/2005, n. 4741).
Sotto altro profilo, va richiamato il costante orientamento di questa Corte secondo cui quando nel ricorso per Cassazione, pur denunziandosi violazione e falsa applicazione della legge (anche) con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate o con l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, e la formulazione risulta come nel caso operata con rinvio ad altri atti del processo, ivi compresa la stessa sentenza impugnata, in modo non chiaro ed intellegibile della questione in base alla lettura del solo ricorso, il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (v. Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 20/1/2006, n. 1108).
Non sono infatti sufficienti affermazioni apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente porre invero la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la pronunzia impugnata (Cass., 21/8/1997, n. 7851).
Deve infine ribadirsi che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (cfr., in particolare, Cass., 25/2/2004, n. 3803).
La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già, come evidentemente suppone l’odierna ricorrente, il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 20/10/2005, n. 20322; v. Cass., 27/4/2005, n. 8718).
Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.
In violazione dei richiamati caratteri di specificità, inammissibilmente essa si limita infatti a genericamente ed apoditticamente denunziare che nell’impugnata sentenza la “Corte d’Appello di Trento ritiene, in poche righe, che sia errata la decisione del Giudice di 1^ grado, avendo acriticamente recepito la quantificazione del compenso proposta dalla SNC Carrozzeria Cirè”, laddove in base al D.P.R. n. 571 del 1982 i compensi del custode dovevano essere liquidati dal Prefetto.
Ancora, del pari apoditticamente essa afferma che non vi fosse dunque “obbligo di considerare le tariffe unilateralmente determinate dall’Associazione delle imprese”. E che i rilievi mossi in ordine alla vigenza delle tariffe applicate, in particolare quelle dell’Associazione Nazionale Centri Soccorso Autoveicoli “sono destituite di ogni fondamento e ben sono state disattese dal Giudice di primo grado”.
Pur denunziando violazione e falsa applicazione di norme di diritto in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lungi dall’indicare i ravvisati profili di erronea interpretazione di norme da parte della Corte di merito, e dal fornire la prospettazione della diversa lettura delle medesime ritenuta viceversa “corretta” (cfr. Cass., 8/5/2006, n. 10500), a tale stregua parte ricorrente si limita invero ad argomentare in termini di mera contrapposizione, in sede di legittimità invero non consentita (v. Cass., 8/3/2007, n. 5353; Cass., 16/1/2007, n. 828; Cass., 23/8/2006, n. 18375), sostanzialmente dolendosi dello sfavorevole esito della lite, contrario alle sue aspettative.
La formulata denunzia esula, pertanto, dalla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).
L’”eccezione di costituzionalità” nel caso dedotta, va d’altro canto osservato, non può invero nemmeno considerarsi tale, non risultando ivi prospettata alcuna questione di legittimità costituzionale, ma al più una doglianza di inadempimento contrattuale.
Laddove, nell’affermare che “l’attività di custodia … in nulla si differenzia da quella effettuata durante il periodo in cui i beni sono sottoposti a sequestro”, sicché “in mancanza di altri validi parametri di riferimento ben può essere tenuto in considerazione il tariffario applicato per la custodia di mezzi sequestrati … risalente al 1998 che ha ricevuto l’espressa approvazione della stessa appellata”; e nel determinare quanto spettante all’odierna ricorrente facendo luogo ad una valutazione equitativa sulla base delle tariffe vigenti ed usi locali relative a fattispecie sostanzialmente analoghe, la Corte di merito ha invero argomentato movendo da una ravvisata ontologica identità dell’attività di custodia (cfr. Cass., 17/9/2003, n. 13673) espletata con riferimento a beni sottoposti sia a sequestro che a confisca.
A tale stregua, essa ha fatto sostanzialmente applicazione di quanto affermato da Corte Cost. 21/4/1989, n. 230 nel dichiarare l’incostituzionalità per irragionevolezza della disciplina normativa prevedente un diverso regime indennitario, con riferimento all’attività del custode di bene sottoposto a sequestro penale e a quella del custode di bene sottoposto rispettivamente a sequestro penale ed a sequestro.
Sotto altro profilo, va ribadito che il vizio di motivazione su un punto decisivo, denunziabile per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, postula invero che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo, in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico.
Se l’omessa valutazione viceversa dipende da una falsa percezione della realtà, nel senso che il giudice per una svista, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, ritiene inesistente un fatto o un documento la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli stessi atti di causa, è invece configurabile un errore di fatto deducibile esclusivamente con l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, (v. Cass., 25/8/2006, n. 18498; Cass., 27/5/2005, n. 15672. Conformemente v. Cass., 18/1/2006, n. 830; Cass., 2/3/2006, n. 4660).
Orbene, a fronte dell’affermazione contenuta nell’impugnata decisione secondo cui “l’attività di custodia … in nulla si differenzia da quella effettuata durante il periodo in cui i beni sono sottoposti a sequestro, sicché “in mancanza di altri validi parametri di riferimento ben può essere tenuto in considerazione il tariffario applicato per la custodia di mezzi sequestrati … e risalente al 1998 che ha ricevuto l’espressa approvazione della stessa appellata”, la ricorrente si è invero limitata ad apoditticamente dedurre che “la decisione si manifesta viziosamente motivata” e che “il Giudice di 2^ grado ha argomentato in merito alle ragioni che possono avere indotto a ritenere applicabili ai rapporti intercorrenti tra l’Amministrazione dell’Interno e l’odierno ricorrente “ipotesi contrattuali diverse”, insuscettibili di estensione analogica alla fattispecie in esame in quanto “non contrattualizzate”.
Lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, tali deduzioni, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, nonché in termini di contrapposizione in sede di legittimità – come già più sopra sottolineato – non consentita, si risolvono in realtà nel sollecitare, cantra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. n. 12984 del 2006; Cass., 14/3/2006, n. 5443).
All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza e si pongono a carico della ricorrente Carrozzerie Cirè s.n.c. come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.