Fatto
Con la sentenza specificata in epigrafe, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale di Trani con la quale era stata rigettata la domanda proposta dall’odierno ricorrente nei confronti dell’INPS, avente ad oggetto l’accertamento del suo diritto – per l’intero periodo in cui era stato iscritto nelle liste di mobilità – alla corresponsione, nel mese di febbraio di ogni anno d’iscrizione, della misura intera dell’assegno per il nucleo familiare, erogata dall’INPS in misura ridotta, con condanna dell’Istituto al pagamento della relativa differenza, da quantificarsi in corso di causa o in separato giudizio.
Ritenevano i giudici di appello che, essendo il reclamato assegno collegabile, nella specie, non alla effettiva prestazione lavorativa, bensì all’indennità di mobilità, a questa esso accedeva quale prestazione accessoria, sicché la sua misura doveva essere rapportata, sotto il profilo temporale, alla misura dell’indennità;
pertanto, essendo l’indennità di mobilità ragguagliata alle giornate di effettiva disoccupazione, anche l’assegno per il nucleo familiare doveva essere rapportato ai giorni di disoccupazione, con la conseguenza che correttamente l’Istituto aveva rapportato l’assegno reclamato, spettante per il mese di febbraio, alla durata di 28 o 29 giorni di tale mese e non a quella del mese intero (o di trenta giorni).
Per la cassazione di questa sentenza il lavoratore ricorre sulla base di un unico motivo.
L’Istituto deposita procura e partecipa all’udienza di discussione.
Diritto
Con l’unico articolato motivo il ricorrente deduce violazione del D.L. n. 69 del 1988, art. 2, convertito in L. n. 153 del 1988, del D.P.R. n. 797 del 1955, artt. 11, 12 e 59 e della L. n. 223 del 1991, art. 7, comma 10.
Assume che, nella specie, non si discute della misura dell’importo dell’indennità di mobilità dovuta nel mese di febbraio, bensì dell’importo – dovuto nello stesso mese – del diverso istituto dell’assegno per il nucleo familiare, con la conseguenza che è del tutto improprio il riferimento, da parte della Corte di merito, alla disciplina della predetta indennità.
Richiama, poi, la specifica disciplina dell’assegno di cui trattasi e sostiene che nel caso di specie ricorre una delle ipotesi in cui il mancato svolgimento della prestazione lavorativa viene equiparato alla prestazione effettiva, consentendosi al lavoratore di percepire la provvidenza de qua nonostante la sua inattività.
Pone, quindi, il seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: “se, ai fini della percezione dell’ANF nella misura intera, sia sufficiente che il lavoratore in mobilità rimanga tale, nel mese di riferimento, per almeno 104 ore (se operaio) o 130 (se impiegato) e se ha ragione, questa difesa, a ritenere che la durata del mese sia un dato assolutamente irrilevante a quei fini, con la conseguenza che, anche nel mese di febbraio, ove l’inattività dovuta a mobilità raggiunga la richiamata soglia oraria, l’assicurato avrà titolo per ricevere l’ANF nell’intera misura mensile”.
Il ricorso è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare, con la sentenza n. 6155 del 2004, che l’erogazione dell’assegno per il nucleo familiare previsto dal D.L. 13 marzo 1988, n. 69, art. 2, convertito, con modificazioni, nella L. 13 maggio 1988, n. 153, presuppone – alla stregua della funzione previdenziale assunta dall’istituto rispetto alla originaria funzione di mera integrazione del salario – l’effettivo svolgimento di attività lavorativa, come si evince dalla disciplina generale sugli assegni familiari di cui al D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, e successive modificazioni ed integrazioni, richiamata dal terzo comma del predetto art. 2, la quale – ad eccezione di alcune particolari situazioni specificamente indicate (malattia, infortunio etc.) – commisura la entità degli assegni relativi a ciascun periodo di paga alle “giornate prestate” e ad un numero minimo di ore lavorate con la conseguenza che, al di fuori delle predette situazioni particolari (e di quelle specificamente contemplate da altre disposizioni, quali i periodi di cassa integrazione e di mobilità e quelli di permesso o aspettativa per motivi politici o sindacali), gli assegni non spettano per i periodi in cui, pur essendo formalmente in essere il rapporto, sia tuttavia carente la prestazione lavorativa in conseguenza della insussistenza del sinallagma funzionale del contratto.
E sempre nella citata sentenza si è ritenuto che il collegamento con la prestazione effettiva è confermato, poi, dalla previsione normativa (nello stesso T.U. e in altre specifiche disposizioni) di situazioni nelle quali il mancato svolgimento dell’attività di lavoro è equiparato alla prestazione effettiva. In relazione a tali situazioni, infatti, è evidente la eccezionalità di disciplina rispetto alla regola generale, atteso che la previsione sarebbe superflua ove si configurasse un collegamento esclusivo fra il diritto all’assegno e la retribuzione, sì da far ritenere la corresponsione dell’assegno in carenza di prestazione effettiva, ma in presenza di retribuzione, come un’ipotesi normale.
Ora, è indubbio che nel caso di specie ricorre appunto una di quelle ipotesi eccezionali in cui l’assegno in questione non è collegabile alla effettiva prestazione lavorativa, in quanto il legislatore ha equiparato determinati periodi di inattività lavorativa alla prestazione effettiva in ragione all’esigenza sociale di sostegno temporaneo di alcune categorie di lavoratori (cfr. Cass. 6155/04, cit.).
Nel caso della mobilità, in particolare, il sostegno economico si riferisce alla condizione di disoccupazione del lavoratore, già licenziato, nel periodo di ricerca di una nuova occupazione e si realizza, pertanto, non già mediante l’integrazione salariale, come nell’ipotesi della cassa integrazione, bensì mediante una distinta indennità, analoga all’indennità di disoccupazione (cfr. Cass., sez. un., n. 11326 del 2005).
La corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare durante il periodo di mobilità, prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 7, comma 10, prescinde dunque dal rapporto lavorativo; e la non collegabilità dell’assegno allo svolgimento effettivo della prestazione lavorativa esclude che per la determinazione della misura del relativo importo possa farsi riferimento alle regole normali che disciplinano siffatto assegno, le quali sono modulate con riferimento esclusivo all’ipotesi in cui vi sia una prestazione lavorativa e non, come nella specie, che dalla stessa si prescinda del tutto.
Viene in rilievo, al riguardo, l’art. 59 (come sostituito dalla L. n. 1038 del 1961, art. 15) del T.U. sugli assegni familiari approvato con D.P.R. n. 797 del 1955, rimasto in vigore, a norma del quale “entro ciascun periodo di pagamento della retribuzione gli assegni base corrispondenti spettano per intero, qualunque sia il numero di giornate di lavoro prestate, qualora permanga la continuità del rapporto di lavoro ed il lavoratore abbia compiuto nel mese almeno 104 ore lavorative se operaio e 130 se impiegato” (comma 1) e “qualora la durata del lavoro compiuto nel mese risulti inferiore ai limiti suddetti, spettano tanti assegni giornalieri quante sono le giornate di lavoro effettivamente prestate” (comma 2).
È evidente che tale dettagliata disciplina dettata per l’erogazione della prestazione è inapplicabile nel caso in esame, perché la sua operatività presuppone la commisurazione dell’assegno alla effettività della prestazione lavorativa che invece, nella specie, manca.
Né è utilizzabile, ai fini di cui trattasi, la previsione di cui al secondo comma della disposizione esaminata, essendo la regola ivi prevista pur sempre collegata allo svolgimento dell’attività lavorativa, sia pure espletata in misura inferiore al tetto prefissato dal precedente comma.
Sul piano sistematico, dunque, deve ritenersi che il richiamato della L. n. 223 del 1991, art. 7, comma 10, nel prevedere che “per i periodi di godimento dell’indennità di mobilità spetta l’assegno per il nucleo familiare di cui al D.L. 13 marzo 1988, n. 69, art. 2, convertito con modificazioni, dalla L. 13 maggio 1988, n. 153”, costituisca norma speciale rispetto al citato art. 59 del T.U. del 1955, che condiziona l’erogazione del beneficio ad una effettiva prestazione di lavoro.
La specialità della norma, su cui si radica il diritto del lavoratore in mobilità alla corresponsione della provvidenza di cui trattasi, comporta l’attrazione, per quello che riguarda la spettanza dell’assegno in questione, nella disciplina propria dell’indennità di mobilità nell’ambito della quale il diritto all’assegno, in ipotesi appunto di messa in mobilità del lavoratore, trova la sua fonte genetica, la sua ratio ed il suo specifico collegamento.
Nell’ipotesi in esame, pertanto, la stretta interdipendenza tra indennità di mobilità ed assegno per il nucleo familiare implica che tale assegno è dovuto nei limiti in cui spetta l’indennità di mobilità, la quale è stabilita, alla stregua della disciplina dell’indennità di disoccupazione, su base giornaliera pur essendo corrisposta con cadenza mensile e conseguentemente è dovuta in ragione dei giorni di cui è composto il mese di febbraio di ciascun anno (cfr. Cass. n. 12747 del 2008).
In risposta al quesito posto dal ricorrente, deve, pertanto, affermarsi che l’assegno per il nucleo familiare dovuto, ai sensi della L. legge n. 223 del 1991, art. 7, comma 10, ai lavoratori iscritti nelle liste di mobilità va determinato, in considerazione della specialità della normativa che lo prevede, su base giornaliera, e cioè secondo il criterio proprio dell’indennità di mobilità, trovando nella relativa disciplina la sua fonte genetica, la sua ratio ed il suo specifico collegamento; esso, perciò, deve essere corrisposto in ragione dei giorni di cui è composto il mese di febbraio di ciascun anno e non nella misura intera rapportata al mese, ovvero a trenta giorni, non trovando applicazione, in considerazione della specialità della regolamentazione, il parametro di cui all’art. 59, commi 1 e 2 (come sostituito dalla L. n. 1038 del 1961, art. 15) del T.U. sugli assegni familiari approvato con D.P.R. n. 797 del 1955.
Il dispositivo della sentenza impugnata è, quindi, conforme al principio di diritto sopra enunciato, anche se la motivazione va parzialmente integrata nel senso sopra indicato.
Il ricorso di conseguenza va rigettato.
La novità della questione induce il Collegio a compensare fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, il 26 marzo 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2009