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    Cassazione civile sez. I, 12 dicembre 2013, n. 27733

    Redazionedi Redazione12 Dicembre 2013
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    Cassazione civile sez. I, 12 dicembre 2013, n. 27733

    Svolgimento del processo
    Con separati atti di citazione i sig.ri C. D. e C. L. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Cassino, la Banca Popolare del Cassinate (BPC) e il Credito Italiano (già Banca Agricola Nord Calabria di San Marco Argentano-BANC, ora Unicredit Banca).
    Esponevano di essere, la prima, socia e, il secondo, socio amministratore delle società Starter s.p.a. e s.r.l.; il sig. D. C., amministratore delle società In Auto e Auto In, a saldo di forniture effettuate dalla Starter, consegnò vari assegni di conto corrente tratti presso la BPC al sig. C. Leandro, il quale li girò per l’incasso alla BANC; quest’ultima diede più volte la disponibilità delle somme, consegnando assegni circolari versati sul conto corrente della Starter, ciò che portò il C. a ritenere che la richiesta di benefondi fosse stata positiva; successivamente il direttore della BCP restituì un gruppo di assegni insoluti (e non protestati con varie motivazioni) alla BANC, la quale vanamente ne chiese l’immediata copertura alla BCP, lamentando l’irregolarità del suo comportamento in relazione alla negoziazione e al mancato protesto dei titoli; successivamente la BANC ottenne decreto ingiuntivo, per l’importo di £. 1.773.022.377, e iscrisse ipoteca nei confronti delle società Starter, cui seguì il loro fallimento.
    Tanto premesso, C. D. deduceva di essere estranea alle predette vicende, per effetto delle quali, in quanto fideiussore (insieme a C. L.) delle due società, si era trovata ad essere debitrice di circa tre miliardi di lire, di avere subito azioni civili e penali e ogni sorta di umiliazioni, tanto da abbandonare l’attività lavorativa, e chiedeva la condanna di BPC e BANC al risarcimento dei danni patrimoniali, esistenziali e alla vita di relazione. Analoghe conclusioni erano formulate da C. Leandro, il quale rappresentava, tra l’altro, di avere visto azzerare la sua partecipazione sociale, perduto la carica di amministratore e la possibilità di gestire la società, nonché di intrattenere rapporti di conto corrente e di svolgere attività economica.
    La sentenza del tribunale, che rigettò le domande attoree e ritenne assorbita la domanda di garanzia avanzata dalla BPC verso la BANC e C. Leandro, è stata impugnata in appello dai C. e, in via incidentale, da BPC. La Corte di appello di Roma, con sentenza 19 settembre 2006, ha rigettato l’appello dei C., dichiarato assorbito quello incidentale della BCP e condannato gli attori alle spese processuali.
    Ad avviso della corte, i danni lamentati dagli attori, soci e fideiussori delle società, erano causalmente riconducibili a comportamenti dei due istituti di credito convenuti “che avevano inciso essenzialmente sul patrimonio delle due società Starter” e, quindi, costituivano mera conseguenza di danni patrimoniali subiti direttamente dalle stesse società, fallite per effetto delle condotte illecite dei convenuti, né era ravvisabile un danno risarcibile in favore dei ricorrenti quali fideiussori delle società. La corte, per effetto della decisione negativa sulla titolarità del diritto al risarcimento, ha ritenuto precluso l’accertamento della concreta sussistenza dei danni e ha dichiarato assorbito il motivo di appello incidentale spiegato in via subordinata dalla BCP.
    Avverso questa sentenza ricorrono per cassazione i sig.ri C. mediante tre motivi, cui resistono la BANC e la BCP; quest’ultima propone ricorso incidentale cui resiste l’Unicredit. Le parti hanno presentato memorie illustrative.
    Motivi della decisione
    1.- Nel primo motivo del ricorso principale, i sig.ri C., nel denunciare violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2350, 2377, 2395, 2484 ce, 99, 100, 112 e 116 c.p.c, 41 e 42 c.p. e vizio di motivazione, chiedono di dare risposta positiva al quesito se i soci di società di capitali (nella specie, assoggettate a fallimento) siano legittimati a chiedere ai terzi responsabili il risarcimento dei pregiudizi subiti alla loro partecipazione sociale, nonché il risarcimento degli ulteriori danni per la impossibilità di intraprendere attività economiche e per la chiusura dei conti correnti personali, nonché alla vita di relazione, in conseguenza delle sofferenze personali subite.
    Nel secondo motivo del ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 ce, 99, 100, 112 e 116 c.p.c, 41 e 42 c.p. e vizio di motivazione, i ricorrenti chiedono di dare risposta positiva al quesito se due istituti bancari, che abbiano posto in essere comportamenti illeciti nei confronti di due società, devono rispondere dei danni arrecati alla sfera giuridica dei soci. In particolare, quanto a C. Leandro, per la perdita della carica di amministratore delegato ricoperta nelle società e dei relativi emolumenti, di ogni possibilità lavorativa e della stessa possibilità di intrattenere rapporti bancari (stante la segnalazione alla Centrale Rischi) , nonché per i danni personali subiti anche all’immagine e all’identità personale, ecc.; quanto a C. D., per la perdita della possibilità di intrattenere rapporti bancari e per lo sconvolgimento della propria vita, avendo dovuto abbandonare la professione forense fino ad allora svolta per dedicarsi, dopo tre anni di depressione e di inattività, alla professione di insegnante, e per il pregiudizio alla vita di relazione, in conseguenza delle gravi afflizioni subite e della perdita della serenità familiare.
    1.1.- I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi tra loro, sono fondati nei limiti di cui sì dirà.
    Questa Corte ha da tempo affermato che i soci di una società di capitali non hanno titolo per avanzare pretese risarcitorie nei confronti del terzo che con il suo comportamento illecito abbia danneggiato la società, con conseguente depauperamento del patrimonio personale degli stessi soci, per la perdita del capitale investito nella società e della possibilità di incassare utili di gestione, atteso che la perfetta autonomia patrimoniale inerente alla personalità giuridica della società comporta la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello personale dei soci, dalla quale derivano l’esclusiva imputazione alla società stessa dell’attività svolta in suo nome e delle relative conseguenze patrimoniali passive, essendo la responsabilità del socio limitata al bene conferito, e l’esclusiva legittimazione della società all’azione risarcitoria nei confronti del terzo che con la propria condotta illecita abbia recato pregiudizio al patrimonio sociale; mentre gli effetti negativi sull’interesse economico del socio (riduzione del valore della quota e compromissione della redditività dell’investimento) costituiscono mero riflesso di detto pregiudizio e non conseguenza diretta ed immediata dell’illecito (v. Cass. n. 17938 del 2005; sez. un., n. 27346 del 2009).
    Di questo principio – che rappresenta il naturale completamento del divieto (posto dall’art. 2395 cc. con riferimento agli “atti colposi o dolosi degli amministratori”) di risarcire al socio il cd. danno riflesso nel caso in cui l’autore del danno sia un terzo – la corte romana ha fatto erronea applicazione, senza indagarne la ratio e verificarne la integrale applicabilità nella fattispecie, in relazione alla concreta tipologia dei danni dedotti dai ricorrenti.
    La ratio sottesa a quel principio è stata così enucleata da questa Corte: “se si ammettesse che i soci di una società di capitali possano agire per ottenere il risarcimento dei danni procurati da terzi alla società, in quanto incidenti sui diritti derivantigli dalla partecipazione sociale, non potendosi negare lo stesso diritto alla società, si finirebbe con il configurare un duplice risarcimento per lo stesso danno” (Cass. n. 27346 del 2009 cit.). La dottrina ha messo in evidenza le incongruenze cui darebbe luogo la possibilità per il socio di agire a tutela del proprio patrimonio individuale, a fronte di illeciti che, colpendo il patrimonio comune, postulano che l’azione risarcitoria sia di pertinenza della società, in quanto rimedio funzionale ad un vantaggio collettivo, poiché gli effetti positivi della reintegrazione del patrimonio sociale devono riguardare tutti i soci in misura paritaria.
    È vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma – fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall’art. 2497 cc.
    (come modificato dal d.lgs. n. 6 del 2003), in tema di responsabilità dell’ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano – il sistema del diritto societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società. Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico-patrimoniale del socio e che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio.
    A questa seconda categoria di danni appartengono quelli derivanti dalla perdita della redditività e del valore della partecipazione (v. Cass. n. 6364 del 1998) e della possibilità di conseguire gli utili (v. Cass. n. 6558 del 2011), nonché dalla perdita del capitale sociale “che è un bene della società e non dei soci” (v. Cass. n. 15220 del 2010, n. 10271 del 2004, n. 9385 del 1993) e delle potenzialità reddituali della stessa, ecc. Poiché a questa tipologia appartengono i danni dedotti prevalentemente nel primo motivo, in particolare quelli arrecati alla loro partecipazione sociale, intesa come coacervo di diritti gestori, amministrativi e liquidatori, bene ha fatto la sentenza impugnata ad escluderne la risarcibilità in favore dei soci ricorrenti uti singuli.
    Tuttavia, come si evince in parte dallo stesso primo motivo e, soprattutto, dal secondo, i ricorrenti avevano dedotto anche danni ulteriori, patrimoniali e (soprattutto) non patrimoniali, che la corte del merito ha giudicato anch’essi come indiretti, senza fornire però alcuna spiegazione circa la possibilità – in relazione alla quale soltanto si spiega la preclusa ammissibilità dell’azione diretta dei soci – dì rivendicarli come propri da parte della società, alla luce della illustrata ratio del principio richiamato dalla medesima corte, che è quella dì evitare l’esposizione del danneggiante ad una duplice richiesta risarcitoria. Ci si riferisce ai danni patrimoniali che i ricorrenti deducono di avere subito come persone, prima che come soci, sul piano dell’attività economica e a quelli non patrimoniali per le ripercussioni negative sulla loro vita personale e di relazione.
    Questa Corte ha avuto occasione di affermare che l’ente pubblico socio di una società di capitali ha azione diretta (nei confronti degli amministratori della società, dinanzi al giudice contabile) per il risarcimento del danno all’immagine che può prodursi “immediatamente” in capo ad esso, “per il fatto stesso di essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s’identifica con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, indipendentemente dall’essere o meno configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all’immagine della medesima società” (Cass., sez. un., n. 26806 del 2009).
    Ciò dimostra che un danno non è dipendente o “giuridicamente” riflesso per il solo fatto che uno analogo possa essere subito anche dalla società o, al limite, da tutti i soci, occorrendo invece che costituisca esattamente una porzione di quello stesso danno subito dalla (e risarcibile alla) società, la cui reintegrazione a favore del socio sarà (e potrà essere) indiretta. Quando questa possibilità non sussiste, in presenza di danni arrecati alla sfera personale (all’immagine, all’onorabilità, ecc.) e patrimoniale del socio (si pensi alla perdita di opportunità economiche e lavorative o alla riduzione del ed. merito creditizio), il danno rimane pur sempre diretto e, quindi, risarcibile al socio dal terzo responsabile.
    2.- Il terzo motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059, 1936-1957 ce, 116 c.p.c, 41 e 42 c.p. e vizio di motivazione, è corredato da un quesito nel quale si chiede se il terzo che ha danneggiato con la sua condotta il patrimonio del debitore principale e ne ha provocato il dissesto, determinando conseguentemente l’obbligo del fideiussore di pagare i debiti non soluti, sia tenuto a risarcire al fideiussore il danno determinato dall’attivazione della garanzia, che in mancanza dell’illecito non sarebbe avvenuta.
    2.1.- Il motivo è fondato.
    Si legge nella sentenza impugnata che, a seguito del fallimento delle società, i ricorrenti erano rimasti obbligati ad adempiere senza subire un incremento dell’obbligazione garantita, cioè “con le stesse modalità e per i medesimi importi garantiti”, con conseguente esclusione di un danno risarcibile in loro favore.
    In tal modo, tuttavia, la corte del merito, non avendo valutato che il dissesto delle società Starter era stato, in tesi, causato dal comportamento delle banche convenute nel giudizio, da cui era derivata l’attivazione delle fideiussioni che non vi sarebbe altrimenti stata, non si è avveduta che l’azione proposta dai ricorrenti (quali fideiussori) aveva natura extracontrattuale, a norma dell’art. 2043 ce, facendo essi valere un danno ingiusto (nell’ampia nozione, generalmente accolta, comprensiva di qualsiasi lesione di interessi giuridicamente rilevanti) causato dal comportamento imputabile al creditore, non inerente ai rapporti diretti tra creditore e fideiussore a norma degli artt. 1944-1948 ce, ma alla violazione degli obblighi nascenti dal rapporto contrattuale tra creditore e debitore principale (v. Cass. n. 18086 del 2013).
    3.- La BCP propone ricorso incidentale condizionato avverso la statuizione con cui la sentenza impugnata ha dichiarato assorbito (a suo avviso, erroneamente) l’appello incidentale da essa spiegato in via subordinata in caso di accoglimento del gravame principale, al fine di conseguire il riconoscimento del proprio diritto di rivalsa (nei confronti di BANC e di C. Leandro) dalle conseguenze dannose derivanti dalla eventuale condanna al risarcimento in favore degli attori C..
    3.1.- Esso è inammissibile, trattandosi di un ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa solleva questioni che il giudice di appello non ha deciso in senso ad essa sfavorevole avendole ritenute assorbite, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (tra le tante, Cass., sez. un., n. 14382 del 2002).
    4.- In conclusione, in accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, dovrà riesaminare la vicenda processuale alla luce dei principi sopra esposti, valutando nel merito le domande risarcitorie che siano ammissibili, nonché liquidare le spese del giudizio di cassazione.
    P.Q.M.
    La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

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