Fatto
1. Con ordinanza del 16/10/2015, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova convalidava il sequestro disposto in via di urgenza dalla P.G. in data 14.10.2015 sulla partita di pasta alimentare di 2700 colli identificata come “(omissis)” con ben visibile il marchio “(omissis)” seguito dall’indicazione “Napoli-Italia-pasta grano duro prodotta e confezionata for-produced for-pastificio L. Garofalo spa – via dei Pastai 42 – (omissis) (Na) Italy” e l’indicazione “made in Turkey” (merce di provenienza turca era diretta in Africa accompagnata da fattura dalla quale risultava venduta da una società francese con sede a (omissis) a società con sede in (omissis)) e ne disponeva il sequestro preventivo ravvisando sussistente il fumus del reato di cui all’art. 517 c.p. e L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 e del reato di cui all’art. 514 c.p. nonché il periculum in mora derivante dalla libera disponibilità dei beni per la definitiva immissione sul mercato.
Con ordinanza dell’11/12/2015, il Tribunale di Genova, pronunciando a seguito di istanza di riesame proposta nell’interesse dell’indagato M.M., confermava il suddetto decreto di sequestro preventivo.
Con sentenza n. 31485 del 9/6/2016 la 3^ Sezione penale di questa Corte Suprema, in accoglimento del ricorso proposto dal M., annullava l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Genova rilevando come la motivazione in punto di fumus delicti del provvedimento impugnato risultasse meramente apparente in quanto il Tribunale genovese si era limitato a richiamare, in ordine alla fattispecie criminosa oggetto dell’imputazione provvisoria (reato di cui alla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49 in relazione all’art. 517 c.p.), giurisprudenza di questa Suprema Corte, senza analizzare Né le concrete risultanze processuali Né l’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti.
Il Tribunale di Genova, quale Giudice del Riesame, con nuova ordinanza del 5/9/2016 – 6/9/2016, decidendo all’esito del rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, confermava nuovamente il decreto di sequestro preventivo impugnato.
2. Ricorre M.M., a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
Con un primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in relazione alla sussistenza del reato di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 in assenza della condotta di importazione, poiché la merce sequestrata era solo in transito da un paese straniero (Turchia) ad altro ((omissis)), entrambi extracomunitari, senza che fosse stata posta in essere alcuna attività di sdoganamento funzionale a una commercializzazione in Italia della merce medesima, solo temporaneamente depositata in area doganale.
In ogni caso, precisa, il ricorrente, anche in caso, di ritenuta rilevanza penale del fatto, nessuna responsabilità potrebbe essere addebitata al M., che ha adempiuto al mero obbligo di consegna della merce con l’imbarco su apposita nave merci nel porto turco con destinazione estera e a cui, quindi, non possono essere rimproverati i passaggi intermedi.
Con un secondo motivo, il ricorrente ribadisce l’insussistenza del fumus del reato contestato e deduce la violazione dell’art. 6 c.p. poiché l’emissione della fattura da parte del “Pastificio Lucio Garofalo S.p.A.” alla “Franco Africaine del Negoce S.a.S.” non rappresenterebbe prova di una futura commercializzazione in Italia, ma solo un atto fiscale dovuto nell’ambito di una vendita internazionale in cui è indicata anche la destinazione finale in (omissis), operazione, quindi, tutta svoltasi all’estero.
Con un terzo motivo, nel ricorso si deduce la violazione di legge poiché i fatti integrerebbero, eventualmente, solo l’illecito amministrativo, e non l’ipotesi penale, previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 non essendo stata apposta alcuna etichetta fallace e, anzi, essendo stata indicata la provenienza dalla Turchia e la dicitura “produced for” con il marchio della società italiana registrata presso il competente istituto turco.
Con un quarto ed ultimo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 627 c.p.p., comma 3 non avendo a suo dire il provvedimento impugnato motivato, in contrasto con il dictum della 3^ Sezione Penale di questa Suprema Corte, sulle doglianze difensive.
Chiede pertanto che questa Corte annulli l’ordinanza impugnata, con tutte le conseguenze di legge.
3. Il 18/11/2016 il P.G. presso questa Corte Suprema ha rassegnato ex art. 611 c.p.p. le proprie conclusioni scritte chiedendo il rigetto del proposto ricorso.
4. In data 10/4/2017 il difensore ricorrente ha depositato memoria ex art. 611 c.p.p. ribadendo i motivi del ricorso e insistendo nelle rassegnate conclusioni, rilevando:
1. L’erronea configurabilità del delitto di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 490 in luogo dell’illecito amministrativo ex art. 4, comma 49 bis della citata Legge.
Secondo il ricorrente la fallace indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci integra il reato previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 490 qualora “l’uso di segni, figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, (…1 fatto salvo quanto previsto dal comma 49 bis”. Ebbene, tale clausola di riserva regola, per l’appunto, il rapporto tra le due disposizioni. L’elemento differenziale e peculiare del comma 49 bis – il quale disciplina non già un reato, bensì un illecito amministrativo – è costituito dalla mancanza di “indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera” del prodotto o della merce, di talchè l’ambito di applicazione della norma sanzionatoria amministrativa è circoscritto al caso – obiettivamente meno grave – in cui il prodotto o la merce vengano commercializzati in mancanza di indicazioni tali da evitare fraintendimenti da parte del consumatore (il richiamo è a Sez. 3, 26.5.2014, n. 21256).
Così ricostruita la normativa applicabile, ben potrebbe allora ritenersi che il caso di specie rientri nell’ipotesi di fallace indicazione punita dalla citata Legge, art. 4, comma 49 bis con una sanzione amministrativa piuttosto che con una penale, in ragione del minor grado di offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato. D’altronde, si rileva in memoria che anche la giurisprudenza richiamata dallo stesso Procuratore Generale (Sez. 3, 15.12.2014, n. 52029) giunge alla medesima stessa conclusione, laddove esclude la configurabilità del delitto ex art. 4, comma 490, citata Legge, argomentando che “l’importatore non aveva apposto alcuna etichetta di provenienza fallace, ossia indicante falsamente un luogo di produzione, ma solo un’etichetta raffigurante il proprio marchio, tuttavia idoneo a trarre in inganno il consumatore sull’effettiva origine”.
Nel caso oggetto del presente procedimento – deduce ancora il ricorrente – l’insussistenza del delitto dei sopraccitato comma 49 risulterebbe in modo ancora più evidente in quanto non solo non è stata apposta alcuna etichetta di provenienza fallace, bensì – al contrario – i pacchi di pasta recano la stampigliatura “made in Turkey” (certamente leggibile). Inoltre, il marchio riportato sul fronte delle confezioni contiene la dicitura “produced for” anziché “produced by” Pastificio Garofalo, a riprova del fatto che la merce è stata prodotta da una società turca e non già direttamente dalla Garofalo. Si ribadisce poi – ad abundantiam – che il marchio de quo è del tutto legittimoe legittimamente utilizzato, nonché regolarmente registrato dalla società italiana non solo in Italia, ma anche presso il competente istituto turco.
Concludendo, all’indagato M., nella sua qualità di legale rappresentante della Garofalo, potrebbe secondo il ricorrente al più essere contestato l’illecito amministrativo disciplinato dal comma 49 bis, attesa la mancanza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera della merce alimentare, elemento – quest’ultimo – che consente di individuare il discrimen rispetto alla condotta penalmente rilevante a norma del comma 49.
2. Erronea configurabilità del delitto ex L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 nelle ipotesi di mero transito sul territorio italiano di merci in viaggio da/per Paesi extra-UE.
Secondo il ricorrente l’introduzione temporanea nel territorio italiano di merci prodotte all’estero e recanti indicazioni ingannevoli sull’origine o sulla provenienza delle stesse non integra il delitto di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, laddove essa sia finalizzata esclusivamente a consentire mere soste tecniche per il reimbarco su altra nave con destinazione estera (c.d. transhipment), non realizzandosi in tale ipotesi alcuno sdoganamento per la commercializzazione in Italia (il richiamo è alla sentenza Sez. 3, 21.1.2010, n. 8734), mil che si sarebbe verificato proprio nel caso in esame.
Secondo il difensore i rilievi mossi dal Procuratore Generale in ordine alla punibilità della condotta di mero transito non sono condivisibili, soprattutto laddove il P.G. instaura un parallelo, anzi una vera e propria analogia, tra la L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 e il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.
Ma – si rileva – la condotta di mero transito, esplicitamente prevista e punita in materia di traffico illecito di sostanze stupefacenti (“chiunque (…) passa o spedisce in transito sostanze stupefacenti… “), non trova invece espressa previsione nella citata Legge, art. 4, comma 49, il quale ultimo si limita a disciplinare le ipotesi di “importazione”, “esportazione” e “commercializzazione”.
Estendere l’alveo delle condotte punibili ai sensi del sopraccitato comma 490, includendovi anche il mero transito di merci, comporterebbe una palese violazione del divieto di analogia della legge penale ex art. 25 Cost., comma 2, art. 1 c.p. e art. 14 preleggi.
Ne deriverebbe, dunque, che la condotta di mero transito, punibile essa sì ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, non è invece idonea ad integrare il delitto ex citata Legge, art. 4, comma 490, in quanto, in tal caso, è necessario che la presentazione della merce in dogana sia prodromica allo sdoganamento e dunque funzionale al contatto col consumatore italiano.
Insiste, pertanto, per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e pertanto il proposto ricorso va rigettato.
2. Preliminarmente, va ricordato, in punto di diritto che, ai sensi dell’art. 321 c.p.p., la concessione del sequestro preventivo è subordinata alla sussistenza del pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati. E, soprattutto – il che appare assolutamente dirimente nel caso che ci occupa – che l’art. 325 c.p.p. prevede, contro le ordinanza in materia di appello e di riesame di misure cautelari reali, che il ricorso per cassazione possa essere proposto per sola violazione di legge.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito, tuttavia, come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (vedasi Sez. U, n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov, rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13.10.2009, Bosi, rv. 245093).
Ancora più di recente è stato precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l’”iter” logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato. (così sez. 6, n. 6589 del 10.1.2013, Gabriele, rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416,323,476,483 e 353 c.p. con riguardo all’affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative). Di fronte all’assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell’atto.
Va anche aggiunto che, anche se in materia di sequestro preventivo il codice di rito non richiede che sia acquisito un quadro probatorio pregnante come per le misure cautelari personali, non è però sufficiente prospettare un fatto costituente reato, limitandosi alla sua mera enunciazione e descrizione, ma è invece necessario valutare le concrete emergenze istruttorie per ricostruire la vicenda anche in semplici termini di “fumus”.
3. Nel caso in esame, si è senz’altro al di fuori di tali ipotesi perché il Tribunale di Genova appare avere seguito un percorso motivazionale del tutto coerente.
Com’è noto, la L. 24 dicembre 2003 n. 350, art. 4 (legge Finanziaria 2004), prevede al comma 49 (così modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 9, dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 2-ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 941, dal della L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 17, comma 4, – successivamente abrogato dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 8, – e, dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 5, con la decorrenza indicata nel cit. art. 16, comma 7) che: “L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “made in Italy””.
A sua volta, il citato art. 4, comma 49-bis (aggiunto dal del D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 6, con la decorrenza indicata nel cit. art. 16, comma 7, e poi così modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 43, comma 1 quater, nel testo integrato dalla Legge di conversione 7 agosto 2012, n. 134), prevede espressamente che: “Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da 4 indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.
Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000”.
Pacifico è che, dal combinato disposto di tali commi discende, da un lato, l’intervenuta depenalizzazione dell’uso ingannevole del marchio da parte delle aziende italiane, laddove, diversamente, resta di rilevanza penale l’uso indebito dell’indicazione “made in Italy”, già punita come “falsa indicazione dell’origine” dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, e ora dal citato D.L. n. 135 del 2009, art. 16, comma 4, (che prevede l’aumento di un terzo delle pene previste dall’art. 517 c.p.), per i prodotti non interamente disegnati, progettati, lavorati e confezionati in Italia, che risultino indebitamente contrassegnati con un’etichetta del tipo “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o “full made in Italy”, etichette evidentemente idonee a presentare il prodotto come interamente realizzato in Italia, qualunque siano la lingua o i simboli impiegati.
L’approdo giurisprudenziale di questa Corte di legittimità teso ad evidenziare la distinzione tra tale figura di reato e l’illecito amministrativo di cui al comma 49 bis della medesima norma è ben compendiato, ad avviso del Collegio, nelle sentenze Sez. 3, n. 21256 del 5/2/2014, Uberti, Rv. 259721 e Sez. 3, n. 52029 del 6/11/2014, Vagnarelli, Rv. 261515.
La prima pronuncia chiarisce che, in tema di tutela penale dei prodotti dell’industria e del commercio, la “fallace indicazione” del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati in dogana per l’immissione in commercio integra: a) il reato previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, qualora, attraverso indicazioni false e fuorvianti o l’uso con modalità decettive di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di origine italiana; b) l’illecito amministrativo previsto dalla citata Legge, art. 4, comma 49-bis, qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise, ma non ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente la decisione impugnata avesse affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, per aver presentato alla dogana stendibiancheria di origine cinese recanti sulla confezione la bandiera nazionale ed indicazioni solo in lingua italiana tra cui la dicitura “prodotto di qualità testato a norma Europea”).
In applicazione dei medesimi principi, con la sentenza 52029/2014 è stata ritenuta, invece, integrare l’illecito amministrativo previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49-bis, – e non il reato di cui all’art. 517 c.p. l’importazione dall’estero di prodotti recanti un’etichetta raffigurante un marchio, nella specie, “(omissis)”, idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto.
In tale pronuncia si opera un articolato excursus della normativa applicabile a casi come quello in esame, con particolare riferimento all’art. 4 citato, riaffermandosi, condivisibilmente, l’assunto che, in subiecta materia, debba essere riconosciuto carattere generale alla disposizione contenuta nella L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, che sanziona l’importazione, l’esportazione e la commercializzazione dei prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine, nonché l’abuso dei marchi d’impresa al fine di indurre il consumatore a ritenere che la merce sia di origine italiana.
A seconda dei casi, pertanto, la condotta punibile può essere realizzata: a) mediante la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine che integra la fattispecie di “falsa indicazione” dell’origine ed è punibile ai sensi dell’art. 517 c.p. (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 39093 del 24/4/2013, Benigni, Rv. 257615); b) mediante l’utilizzo di un’etichetta del tipo “100% made in italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o “full made in Italy”, per contrassegnare prodotti non interamente disegnati, progettati, lavorati e confezionati nel nostro Paese, costituendo la stessa un’ipotesi aggravata di “falsa indicazione” dell’origine, punibile, ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 135 del 2009, art. 16, comma 4, e dell’art. 517 c.p., con le pene previste da quest’ultima disposizione, aumentate di un terzo, che rende questa previsione speciale rispetto alla precedente, di portata generale (v., ad esempio, sul punto: Sez. 3, n. 28220 del 05/04/2011, Fatmir, Rv. 250639); c) mediante “l’uso di segni, figure e quant’altro” che induca il consumatore a ritenere, anche in presenza dell’indicazione dell’origine o provenienza estera della merce, che il prodotto sia di origine italiana, trattandosi esemplificativamente dei casi in cui sul prodotto sono apposti segni e figure tali da oscurare, fisicamente e simbolicamente, l’etichetta relativa all’origine, rendendola di fatto poco visibile e non individuabile all’esito di un esame sommario del prodotto, realizzandosi in questo caso la fattispecie di “fallace indicazione”, punibile ai sensi dell’art. 517 c.p. (v., sul punto: Sez. 3, n. 19746 del 09/02/2010, Follieri, Rv. 247485); d) mediante l’uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell’imprenditore titolare o licenziatario, in modo “da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine”, a meno che i prodotti importati o esportati non siano accompagnati da indicazioni “evidenti” sull’esatta origine geografica o sulla loro provenienza estera ovvero il titolare del marchio o il suo licenziatario si impegnino ad apporre tali indicazioni nella fase di commercializzazione. Si tratta, com’è evidente, in quest’ultimo caso, di un’ipotesi speciale di “fallace indicazione” dell’origine disciplinata nei suoi tratti generali dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, la quale è punita con una sanzione amministrativa, piuttosto che con una penale, in ragione del minor grado di offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato, costituito, secondo la giurisprudenza, dalla correttezza commerciale nei rapporti tra imprenditori e nei confronti dei consumatori, ovvero dallo stesso ordine economico (v., in termini: Sez. 3, n. 2648 del 09/11/2005 – dep. 20/01/2006, Giordani, Rv. 232961).
Lo stesso art. 4, comma 49 bis, configura la fattispecie di uso decettivo del marchio come sussidiaria, prevedendo un’apposita clausola di riserva volta a preservare la sua applicazione nei casi specifici da essa individuati.
4. Chiarito il quadro normativo di riferimento, occorre dunque verificare la doglianza del ricorrente che ritiene censurabile il provvedimento impugnato per avere ritenuto il fumus del delitto di cui all’art. 517 c.p., in relazione alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, ritenendo che, da un lato, non ricorressero le condizioni per ritenere sussistente l’illecito penale (Né quello di cui all’art. 517 c.p. Né quello previsto dalla L. citata, art. 4, comma 49) e, dall’altro, che la condotta posta in essere dal ricorrente medesimo, a tutto concedere, avrebbe potuto essere qualificata come fallace indicazione e, dunque, soggetta, per effetto della novella del 2009, alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal citato art. 4, comma 49 bis.
Orbene, tali doglianze sono infondate, nei limiti del sindacato in questa sede consentito, ovvero, come detto, di un’assenza di motivazione tale da integrare la violazione di legge.
Il Tribunale di Genova ha argomentatamente e logicamente dato atto del perché, in termini di fumus commissi delicti, ha ritenuto le indicazioni apposte sulla pasta fallaci, tali da ingannare il consumatore sulla provenienza della merce stessa e da integrare l’ipotesi penalmente rilevante.
A tali conclusioni i giudici liguri sono pervenuti in considerazione del fatto che, mentre i caratteri relativi all’area geografica – Napoli Italia – e alla ditta produttrice “prodotta e confezionata for produced for pastificio L. Garofalo s.p.a. (omissis)” erano bene evidenti sulla confezione, la dicitura “made in Turkey”, sulla base di un esame diretto ad opera degli stessi giudici, era confinata sotto la data di scadenza, poco leggibile e apposta con inchiostro diverso, facilmente rimuovibile. Tali indicazioni, quindi, sono state ritenute idonee ad ingenerare nel pubblico (e cioè nel consumatore medio dello specifico settore), la convinzione che la merce fosse di origine italiana o che, comunque, nel nostro Paese avesse subito almeno una lavorazione sostanziale, circostanza questa esclusa dallo stesso ricorrente che afferma che l’intero ciclo produttivo sarebbe avvenuto in Turchia.
I giudici del riesame hanno, inoltre, ravvisato il fumus della condotta di importazione e di commercializzazione sanzionata dalla citata L. n. 350 del 2003, art. 4 e art. 517 c.p. confutando argomentatamente l’altro rilievo difensivo oggi riproposto, in ordine al mero transito sul territorio italiano, ritenendo argomentatamente esservi stata una introduzione almeno temporanea nel territorio italiano e risultando la commercializzazione da parte del Pastificio Garofalo con sede a (omissis) proprio dalla fattura emessa in favore della ditta francese “Franco Africaine del Negoce S.a.S.” con sede a (omissis).
Anche tali considerazioni appaiono incensurabili in sede di giudizio cautelare reale di legittimità, avendo peraltro il tribunale genovese posto l’accento sul fatto che il magazzino dove era temporaneamente custodita la merce sequestrata si trova nell’area doganale e, quindi, in territorio italiano ai sensi dell’art. 6 c.p., e che, pertanto, anche la presenza temporanea della merce, ancorchè destinata all’estero, appare condotta idonea a integrare l’importazione – nel senso di introduzione – della stessa nel territorio italiano.
Peraltro, i giudici del gravame cautelare si soffermano ampiamente in motivazione sulla condotta di commercializzazione, valorizzando la documentazione fiscale in atti. Ed in particolare rilevano come la fattura, atto necessario per la vendita del bene e, quindi, per commercializzare lo stesso, sia stata emessa dalla società rappresentata dal ricorrente “Pastificio Lucio Garofalo S.p.A. con sede in (omissis), compiendo sul territorio italiano parte del processo di messa in circolazione – e, quindi, della condotta illecita – a nulla rilevando che nella fattura sia indicata la clausola FOB, ossia l’indicazione del porto d’imbarco concordato in Turchia.
In ultimo va rilevato che non appare fondata neanche la doglianza circa un’asserita violazione dell’art. 627 c.p.p., comma 3 in quanto il tribunale genovese, a differenza che con l’ordinanza del 2015 poi annullata con la sentenza 31485/2016 di questa Corte di legittimità, appare avere congruamente ed argomentatamente risposto a tutti i motivi di gravame propostigli.
5. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 aprile 2017.
Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2017