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    Penale Procedura Penale Sentenze

    Cassazione penale, sez. V, 20 aprile 2018, n. 17923

    Redazionedi Redazione26 Agosto 2018Aggiornato il:26 Agosto 2018
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    Cassazione penale, sez. V, 20 aprile 2018, n. 17923

    Cassazione penale, sez. V, 20 aprile 2018, n. 17923

    Fatto

    1. In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Rovereto, in data 23 ottobre 2014, che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva riconosciuto P.C. colpevole del delitto continuato di furto aggravato e di utilizzazione indebita di carta del tipo “bancomat” intestata a M.P., la Corte di appello di Trento riqualificava il fatto di cui al capo B) della rubrica, riconoscendovi il delitto di cui al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 55, comma 9, nella forma tentata, e, per l’effetto, riduceva la pena inflitta all’imputato, confermando nel resto la sentenza appellata.
    2. Ricorrono per cassazione il Procuratore generale distrettuale e l’imputato.
    2.1. La parte pubblica denuncia il vizio di violazione di legge, in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 55, deducendo che il giudice censurato aveva errato nell’applicazione della norma menzionata, posto che il delitto di utilizzazione indebita di carta di pagamento del tipo “bancomat”, nel caso all’esame, doveva considerarsi consumato e non tentato, atteso che, per la prevalente giurisprudenza di legittimità, ai fini della consumazione del delitto in parola è sufficiente una qualsivoglia modalità di utilizzazione della carta “bancomat”, a prescindere dall’effettivo conseguimento del denaro, al cui prelievo è funzionale la detta utilizzazione. Eccepisce, altresì, il vizio di motivazione, derivante dall’insuperabile illogicità desumibile dai passaggi argomentativi nei quali, per un verso, s’era affermato che, per il configurarsi del delitto di cui al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 55, comma 9, occorre la mera utilizzazione del “bancomat” e, per altro verso, s’era sostenuto che l’inserimento della carta all’interno del dispositivo automatico per il prelievo del denaro contante e la ripetuta digitazione di numeri a caso, non disponendo il soggetto agente del PIN, sono operazioni tali da integrare il mero tentativo del delitto medesimo.
    2.2. Il difensore del ricorrente P. articola due motivi.
    2.2.1. Con il primo motivo denuncia il vizio di motivazione, assumendo che il delitto di furto era stato ricondotto al P. sulla base di un ragionamento del tutto congetturale – valorizzando la mera somiglianza del soggetto ripreso dalle telecamere di sorveglianza, nel mentre era intento nelle operazioni con il “bancomat” compiute presso lo sportello bancario, con l’imputato e le sensazioni soggettive della polizia giudiziaria cui le indagini erano state delegate -, come tale in contrasto con i criteri di valutazione della prova indiziaria cristallizzati dall’art. 192 c.p.p., e sulla base della mera “contiguità temporale” con il fatto della utilizzazione del “bancomat”.
    2.2.2. Con il secondo motivo deduce il vizio argomentativo, con riguardo alla riqualificazione del fatto di cui al capo B) della rubrica nei termini del delitto di tentata utilizzazione indebita della carta “bancomat” sottratta alla M., piuttosto che in quello del delitto di ricettazione, posto che la mancata conoscenza del codice PIN associato alla carta ne rendeva impossibile qualsivoglia utilizzazione rispetto allo scopo che con essa si voleva conseguire. Donde, non essendoci prova certa quanto alla riconducibilità del furto della carta “bancomat” al P., a questi poteva ascriversi esclusivamente il delitto di cui all’art. 648 c.p. quanto al possesso della carta di provenienza furtiva, da qualificarsi anche ai sensi del secondo comma della norma in parola, atteso il modesto valore della cosa costituente l’oggetto materiale del reato. Prospetta, altresì, il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 522 c.p.p. e in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 56 e art. 55, comma 9, e al riguardo sostiene, in riferimento al primo profilo, che il giudice censurato, riqualificato il fatto di cui al capo B) alla stregua dell’art. 648 c.p., comma 2, avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Pubblico Ministero, trattandosi di fatto del tutto nuovo rispetto a quello originariamente contestato; in riferimento al secondo profilo, assume che l’autonomia del delitto tentato – rispetto a quello consumato – di utilizzazione indebita di carta “bancomat” avrebbe imposto al giudice di accogliere, in ragione dei limiti di pena compatibili con quelli che consentono il patteggiamento e la sospensione dell’esecuzione della pena con messa alla prova, l’istanza di applicazione dei detti istituti. Istanza che, invece, non aveva ricevuto alcuna considerazione da parte del decidente, che aveva eluso l’obbligo di motivazione quantomeno a sostegno del rigetto.

    CONSIDERATO IN DIRITTO

    Il ricorso del Procuratore Generale è fondato, mentre quello dell’imputato deve essere rigettato per essere destituite di giuridico fondamento le deduzioni in esso articolate.
    1. Ragioni di ordine logico suggeriscono di affrontare preliminarmente le questioni devolute dalla parte privata con il primo motivo di impugnazione.
    1.1. Al riguardo deve affermarsi che le censure che attingono il profilo della riconducibilità del furto del “bancomat”, successivamente utilizzato dal P. per cercare di prelevare denaro da uno sportello bancario automatizzato, involgono deduzioni in fatto non scrutinabili da questa Corte. In effetti, la sentenza impugnata ha, con un percorso argomentativo lineare e coerente, evidenziato che l’imputato era stato immortalato dalle videocamere dello sportello bancario nell’atto di effettuare i prelievi con la tessera sottratta alla M. e che i fotogrammi estrapolati da tali riprese non solo erano stati confrontati con quelli ritraenti un soggetto similare intento ad effettuare le medesime operazioni in circostanze di tempo e di luogo contigue, ma erano stati anche visionati da appartenenti alla polizia giudiziaria, che vi avevano riconosciuto con certezza il P., in quanto soggetto a loro noto. Nondimeno tale sequela di indizi aveva trovato conferma nel rinvenimento presso l’abitazione dell’imputato di indumenti del tutto identici a quelli indossati nel momento del compimento delle operazioni di tentato prelievo di denaro presso lo sportello automatizzato.
    1.2. Il ragionamento decisorio sviluppato, appare, peraltro, conforme agli approdi ermeneutici di questa Corte, che ha più volte affermato che l’individuazione fotografica di un soggetto effettuata dalla polizia giudiziaria costituisce una prova atipica la cui affidabilità deriva dalla credibilità della dichiarazione di chi, avendo esaminato la fotografia, si dica certo della sua identificazione (Sez. 5, n. 9505 del 24/11/2015 – dep. 08/03/2016, Coccia, Rv. 267562).
    1.3. Immune da vizi logici è la motivazione della sentenza censurata anche laddove ha riconosciuto la responsabilità dell’imputato per il delitto di furto ascrittogli in conseguenza della contiguità temporale tra il momento di sottrazione del portafogli alla M. e quello delle operazioni bancarie con il bancomat di questa, non potendo ragionevolmente giustificarsi in altro modo la disponibilità da parte del ricorrente della tessera “bancomat” della persona offesa. Sicché non vi è dubbio che le censure con cui il ricorrente contesta tale ricostruzione siano di mero fatto in quanto finalizzate ad ottenere una diversa valutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito.
    2. Quanto ai motivi di ricorso, sviluppati dal Procuratore generale e dall’imputato, che attingono la qualificazione giuridica del fatto di cui al capo b) della rubrica, va detto che le sole censure articolate dal Procuratore generale colgono nel segno.
    2.1. È pacifico nella giurisprudenza di legittimità che “L’indebita utilizzazione, a fini di profitto, della carta di credito da parte di chi non ne sia titolare, integra il reato di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 12, conv. in L. n. 197 del 1991 (ora previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 55, comma 9), indipendentemente dal conseguimento di un profitto o dal verificarsi di un danno, non essendo richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine” (Sez. 5, n. 16572 del 20/04/2006, Sabau, Rv. 234460) e che “Non si ha reato impossibile, in riferimento alla fattispecie criminosa di cui all’art. 12 D.L. n. 143 del 1991, nel caso in cui la carta di credito donata venga “bloccata” dal titolare, essendo sufficiente, per l’integrazione del reato, il semplice possesso della carta donata a prescindere dall’utilizzazione, in considerazione della natura di reato di pericolo della fattispecie criminosa disciplinata dagli articoli richiamati” (Sez. 2, n. 37016 del 05/10/2011, Zolli, Rv. 251155).
    Tale elaborazione ermeneutica, di cui sono espressione anche le massime di orientamento a tenore delle quali: “Il reato di illecito uso di carta di credito non tutela il bene del patrimonio, ma garantisce, in modo più o meno diretto, i valori riconducibili all’ambito dell’ordine pubblico economico e della fede pubblica (Sez. 6, n. 29821 del 24/04/2012, Battigaglia, Rv. 253175; Sez. 2, n. 15834 del 08/04/2011, Bonassi, Rv. 250516; Sez. 5, Sentenza n. 41317 del 21/11/2006, P.M. in proc. Lavagno e altro, Rv. 235761), si richiama, a ben vedere, ai principi affermati nella materia de qua dal giudice delle leggi e dal giudice di legittimità, nella sua più autorevole composizione, in approfondimento dei temi relativi all’oggettività giuridica e alla struttura del delitto di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 12, conv. in L. n. 197 del 1991.
    2.2. In particolare, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 302 del 2000, ha evidenziato come il D.L. n. 143 del 1991, art. 12 delinei una figura criminosa dalla fisionomia alquanto variegata: sia per quanto attiene all’oggetto materiale, che si riferisce ad un’ ampia gamma di documenti, diversi tra loro per natura, funzione e modalità d’impiego; sia per quel che concerne la condotta penalmente rilevante, essendo contemplata, accanto all’ipotesi dell’indebita utilizzazione dei documenti, da parte di chi non ne sia titolare, anche quella di falsificazione di questi ultimi e di possesso di documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché di ordini di pagamento con essi prodotti. Da tale rilievo in ordine al profilo strutturale della fattispecie esaminata, il giudice delle leggi ha tratto ragione per stabilire che, sebbene con riguardo ad alcuni dei comportamenti ad essa riconducibili l’offesa al patrimonio individuale concorre a delineare l’oggettività giuridica del reato, tuttavia la conformazione del paradigma punitivo complessivamente considerato depone per la sicura aggressione di interessi di marca pubblicistica: “interessi legati segnatamente all’esigenza di prevenire, di fronte ad una sempre più ampia diffusione delle carte di credito e dei documenti similari, il pregiudizio che l’indebita disponibilità dei medesimi è in grado di arrecare alla sicurezza e speditezza del traffico giuridico e, di riflesso, alla “fiducia” che in essi ripone il sistema economico e finanziario”.
    2.3. Le Sezioni Unite di questa Corte, del resto, con la sentenza n. 22902 del 28/03/2001, Tiezzi, Rv. 218871, hanno chiarito – per quanto interessa ai fini della risoluzione della presente questione – come dall’analisi letterale della norma in esame emerga che il legislatore abbia inteso assicurare la tutela degli interessi evocati mediante la previsione di due condotte: la prima consistente nella indebita utilizzazione, cioè nel concreto uso illegittimo delle carte di credito o delle carte di pagamento – lecita o illecita che sia la loro provenienza – da parte del non titolare al fine di realizzare un profitto per sè o per altri; la seconda consistente nel possesso (inteso come detenzione materiale), nella cessione o nell’acquisizione di tali documenti di provenienza illecita, cioè in una azione che sotto il profilo logico e temporale è distinta dalla prima perché la precede e ne costituisce il presupposto fattuale. Comportamenti, quelli descritti, che, con il loro solo venire in essere, esauriscono la tipicità del fatto incriminato, dando corpo, in ossequio al principio di determinatezza e tassatività dell’illecito penale, a quella “indebita disponibilità” dei documenti presi in considerazione dalla norma suscettibile di arrecare pregiudizio ai beni “metaindividuali” tutelati; tanto vero che l’eventuale conseguimento, da parte dell’agente, dell’ingiusto profitto con correlativo danno del soggetto passivo rileva, esclusivamente, sotto il profilo della dosimetria della pena (Rv. 218873).
    Offrendo tale lettura dell’istituto in disamina, il giudice di legittimità ha legittimato, con il crisma della propria autorevole interpretazione, gli approdi ermeneutici cui erano pervenuti quei filoni della dottrina e della giurisprudenza, che, in conformità alle ragioni di politica criminale che avevano ispirato gli interventi normativi richiamati – diretti a contrastare il riciclaggio del danaro sporco, prevedendo un controllo “a monte” dei movimenti di danaro e di limitazione dell’uso del contante, la cui disciplina andava presidiata con l’energico strumento della repressione penale – avevano posto in luce come il legislatore, conscio della inidoneità dei tradizionali illeciti di evento e di lesione – incentrati sui concetti di danno e di profitto – a fronteggiare le nuove forme di criminalità collegate allo sviluppo dei moderni strumenti di pagamento, avesse optato per una semplificazione delle fattispecie, costruite in chiave di pericolosità e caratterizzate dal fine di profitto e dall’assenza dei profili tipici costituiti dal conseguimento di un vantaggio economico per l’agente e di un pregiudizio della vittima, proprio allo scopo di consentire una apprezzabile facilità di accertamento delle infrazioni allo statuto di disciplina del sistema finanziario, posto che nell’ambito che ad esso si riferisce non è agevole cogliere e dimostrare la perpetrazione di frodi.
    2.4. Alla luce dei parametri ermeneutici evocati, deve, dunque, concludersi che il principio di diritto ricavabile dagli arresti richiamati, in forza del quale il delitto di cui al D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 55, comma 9, prima parte, si perfeziona per effetto del solo concreto uso illegittimo delle carte di credito o di pagamento o degli altri documenti equiparati, non può che trovare applicazione anche nel caso scrutinato, posto che l’utilizzazione di una carta “bancomat”, di provenienza furtiva, da parte di chi non sia in possesso del codice PIN, realizzata mediante la digitazione casuale di sequenze numeriche presso uno sportello di prelievo automatico di denaro, è tale da esaurire l’attitudine lesiva dei beni giuridici dell’ordine pubblico economico e della fede pubblica, ritenuta sufficiente ad integrare la fattispecie consumata di utilizzazione indebita di carta abilitante al prelievo di denaro contante.
    A ciò deve aggiungersi, peraltro, con notazione in fatto che vale a rafforzare l’approdo teorico cui si è pervenuti, che, come evidenziato dal Procuratore Generale ricorrente, la carta di pagamento ben avrebbe potuto essere utilizzata senza necessità di digitazione del PIN per il pagamento del pedaggio autostradale.
    3. Manifestamente infondato è, infine, il rilievo censorio articolato dalla parte privata ricorrente, che prospetta l’assorbimento dell’indebita utilizzazione della carta “bancomat” nel delitto di furto, quale post factum non punibile dell’impossessamento della stessa, posto che, alla luce del dictum delle Sezioni Unite Tiezzi, quanto al concorso tra le condotte di possesso e successiva utilizzazione, al fine di profitto proprio o altrui, di carte di credito di provenienza illecita (Rv. 218871), la giurisprudenza di questa Corte ha pacificamente affermato che il delitto di furto della carta di credito concorre con quello di cui alla L. n. 143 del 1991, art. 12, limitatamente alla ipotesi dell’indebito utilizzo del medesimo documento, in quanto si tratta di condotte eterogenee sotto l’aspetto fenomenico, verificandosi la seconda quando la prima è ormai esaurita e non trovando, l’uso indebito, un presupposto necessario ed indefettibile nell’impossessamento illegittimo (Sez. 5, n. 44018 del 10/10/2005, Fazio, Rv. 232810).
    4. Le argomentazioni sin qui sviluppate, in ragione della loro valenza dirimente, esimono il Collegio dall’esame delle ulteriori doglianze sollevate dal ricorrente P..
    5. S’impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata, previa qualificazione del reato sub B) come consumato, limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per nuovo esame, sul detto punto alla Corte di appello di Tento, sezione distaccata di Bolzano.
    Il ricorso del P. va invece rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

    P.Q.M.

    Qualificato il reato sub B) come consumato, annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per nuovo esame, su detto punto alla Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano. Rigetta il ricorso di P.C. che condanna al pagamento delle spese del procedimento.
    Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2018.
    Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2018

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