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Home » Penale Procedura Penale » Cassazione penale, sez. V, 15 aprile 2016, n. 19516

Cassazione penale, sez. V, 15 aprile 2016, n. 19516

RedazionediRedazione
28 Settembre 2016
inPenale Procedura Penale, Sentenze
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Fatto
1. Con sentenza deliberata il 14/11/2014, il Tribunale di Milano ha confermato la sentenza del 04/06/2013 con la quale il Giudice di pace di Rho dichiarava P.F. colpevole dei reati in danno di R.M.P. di lesioni (capo A: perché stringendo con forza il collo con le mani, strattonava violentemente e ripetutamente la persona offesa, facendola anche sbattere contro un muro, così cagionandole lesioni personali da cui derivava una malattia giudicata guaribile in dieci giorni) e di ingiuria e minaccia (capo B: per aver offeso l’onore e il decoro della persona offesa e averle minacciano un danno ingiusto, pronunciando nei suoi confronti espressioni del tipo: “brutta bastarda… crepa”; “chi credete di essere… solo perché avete i soldi… io ve la faccio pagare a tutti e quattro”), condannandolo alla pena di giustizia e al risarcimento del danno in favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio.
2. Avverso l’indicata sentenza del Tribunale di Milano ha proposto ricorso per cassazione P.F., attraverso il difensore avv. G. Bosco, denunciando nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, – vizi di motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti e alla valutazione delle testimonianze. La sentenza impugnata ha omesso di rilevare che il teste G., la cui deposizione è indicata come confermativa di quella della persona offesa, ha riferito di aver assistito alla scena dalla finestra, di aver visto P. allungare una mano verso la cugina e di aver sentito urlare “vi ammazzo tutti”, ma non ha visto l’imputato trascinare la persona offesa ed afferrarle il collo, Né ha sentito l’imputato pronunciare le parole di cui all’imputazione. Manifestamente illogico è il rilievo della sentenza impugnata secondo cui il teste ha visto solo la parte iniziale dell’aggressione, ma ciò sarebbe sufficiente a confermare il racconto della persona offesa, in quanto il teste ha riferito circostanze non oggetto dell’imputazione sub A) e non ha udito le altre espressioni sub B).

Diritto

1. Il ricorso non merita accoglimento, mentre deve essere rilevata la sopravvenuta abrogazione del reato di ingiuria.
2. La sentenza impugnata ha valorizzato, in primo luogo, le dichiarazioni della persona offesa, ritenendole – in linea con le conformi valutazioni del primo giudice – pienamente credibili e, inoltre, confermate dalla documentazione medica acquisita e dalle deposizioni dei testi F. e G.. Quanto a quest’ultimo, il Tribunale ha sottolineato che la sua descrizione dei fatti conferma quella della persona offesa: G., infatti, ha riferito di aver sentito P. pronunciare delle minacce (“vi ammazzo tutti….”) e di essere perciò sceso nel cortile, dove aveva visto l’imputato sopra la R., che si lamentava e diceva che gli stava facendo male; gli occhiali della persona offesa erano a terra e la sua catenina era rotta. Il teste dunque, osserva la sentenza impugnata, pur non avendo visto la parte iniziale dell’aggressione e pur non essendo stato più preciso sul momento in cui ha visto l’imputato “portare una mano” verso la vittima, ha visto la donna a terra, con l’imputato sopra di lei, e ha constatato la rottura della catenina, così confermando anche in questo particolare il racconto della persona offesa.
Nei termini indicati, la motivazione del giudice di appello non è compromessa, sul piano logico-argomentativo, dai rilievi del ricorrente. La mancata coincidenza della frase minacciosa udita dal teste con quelle riportate nell’imputazione non inficia il ragionamento del giudice di merito, posto che, per un verso, l’imputazione indica le espressioni ingiuriose e minacciose rivolte da P. alla vittima in termini, all’evidenza, esemplificativi (“espressioni del tipo…”) e, per altro verso, il contenuto della frase riferita dal teste è in linea con la minaccia di “farla pagare” riportata nell’imputazione. Nel resto, le doglianze sviliscono la convergenza della deposizione del teste G. con il nucleo essenziale della vicenda così come riferita dalla vittima e le congrue valutazioni del giudice di appello in ordine ai contenuti di tale deposizione, trascurando, peraltro, il riferimento agli altri elementi di conferma pure valorizzati dalle concordi pronunce di merito.
3. La Corte rileva d’ufficio che, in forza del D.Lgs. n. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, comma 1, lett. c), l’art. 594 c.p., è stato abrogato: di conseguenza, in parte qua la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Questa Corte può rideterminare la pena, muovendo dalla pena-base di euro 900 di multa per il più grave reato di lesioni individuata dal primo giudice; su tale pena deve essere applicata la riduzione di euro 300 di multa per l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (nel medesimo ammontare stabilito dal primo giudice, che pure aveva erroneamente effettuato la riduzione in relazione alla pena già aumentata per la continuazione); dovendosi ritenere che l’aumento di 300 euro di multa operato dalla sentenza di primo grado per i due reati allora considerati in continuazione fosse stato determinato in parti uguali, la pena così determinata – euro 600 di multa – deve essere aumentata per la continuazione con il residuo reato di minaccia nella misura di euro 150 di multa, mentre, in relazione al reato di ingiuria depenalizzato, deve essere eliminata la pena di euro 150 di multa.
4. Resta precluso, per le ragioni di seguito indicate, l’esame di questa Corte agli effetti civili in relazione al predetto capo relativo all’ingiuria, per il quale così come per gli altri per i quali le statuizioni di condanna sono state confermate – era intervenuta condanna generica al risarcimento del danno, fermo restando, che nel giudizio civile per la liquidazione del danno non dovrà tenersi conto del fatto di ingiuria per il quale è intervenuta aboliti criminis.
4.1. La recente sentenza n. 12 del 2016 della Corte costituzionale ha delineato la fisionomia generale della disciplina dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, disciplina informata al “principio della separazione e dell’autonomia dei giudizi”: “il danneggiato può scegliere se esperire l’azione civile in sede penale o attivare la tutela giurisdizionale nella sede naturale. In questa seconda ipotesi, peraltro, egli non subisce alcuna limitazione di ordine temporale: diversamente che sotto l’impero del codice del 1930, l’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto non comporta, di regola, la sospensione del processo civile, nell’ambito del quale l’eventuale giudicato penale di assoluzione non ha efficacia (art. 652 c.p.p.). Il giudizio civile di danno prosegue, dunque, autonomamente malgrado la contemporanea pendenza del processo penale (art. 75 c.p.p., comma 2): la sospensione rappresenta l’eccezione, che opera nei limitati casi previsti dall’art. 75, comma 3”. In questa prospettiva, osserva ancora la sentenza n. 12 del 2016, l’art. 538 c.p.p., comma 1, collega “in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell’imputato”, con l’unica eccezione – “fortemente circoscritta” – stabilita dall’art. 578 c.p.p., riguardante il giudizio di impugnazione. Il collegamento istituito dall’art. 538 c.p.p., “tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato riflette il carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell’azione penale: obiettivi che si focalizzano nell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato”.
Il carattere fortemente circoscritto dell’eccezione, posta dall’art. 578 c.p.p., alla “regola” generale del collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato trova conferma nel costante riferimento della giurisprudenza di questa Corte alla tassatività della previsione (Sez. 6, n. 12537 del 05/10/1999 – dep. 04/11/1999, Nicolosi, Rv. 216394, che ha escluso l’applicabilità dell’art. 578 c.p.p., al caso di estinzione del reato per morte dell’imputato; conf.: Sez. 3, n. 22038 del 12/02/2003 – dep. 20/05/2003, Pludwinski, Rv. 225321) e al carattere speciale della disciplina, non suscettibile di essere estesa analogicamente ad altre cause estintive (Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005 – dep. 19/08/2005, Zelli, Rv. 231745).
Né la “regola” generale del collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato è smentita dai poteri attribuiti al giudice dall’art. 576 c.p.p., di decidere sulla domanda al risarcimento e alle restituzioni anche su impugnazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione:
come chiarito da Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006 – dep. 19/07/2006, Negri, “l’art. 576, e l’art. 578, disciplinano situazioni processuali diversificate, mirando l’art. 578, nonostante la declaratoria della prescrizione, a mantenere, in assenza di un’impugnazione della parte civile, la cognizione del giudice dell’impugnazione sulle disposizioni e sui capo della sentenza del precedente grado che concernono gli interessi civili, mentre l’art. 576, conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento ed alle restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto”; l’art. 578 c.p.p., osservano le Sezioni unite, “non rappresenta l’unica eccezione fatta dal legislatore al principio che il giudice penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga a una dichiarazione di responsabilità penale”, in quanto l’art. 576 c.p.p., sottolinea “come, per effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, al fine di valutare la sussistenza di una responsabilità per illecito e così ottenere una diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per i suoi interessi civili”.
Infatti, “a fronte di una sentenza assolutoria irrevocabile pronunciata a seguito di dibattimento, il confine della cognizione del giudice civile è segnato soltanto in alcuni casi da effetti extrapenali del giudicato assolutorio, e specificamente quando il giudice penale abbia accertato che il fatto non sussista, o che l’imputato non lo abbia commesso o che il fatto sia stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima” (Sez. 1, n. 11994 del 30/01/2013 – dep. 14/03/2013, P.C. in proc. Di Pauli, Rv. 255447): in tali ipotesi (delineate dall’art. 652 c.p.p.), in presenza di una sopravvenuta abolitio criminis, l’impugnazione della parte civile a norma dell’art. 576 c.p.p., è il mezzo necessario per contrastare, agli effetti civili, la formazione del giudicato assolutorio e i pregiudizievoli effetti extrapenali che ne conseguirebbero.
Fuori dalle ipotesi eccezionali indicate, resta fermo il principio generale in forza del quale il giudice penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga a una dichiarazione di responsabilità penale, ossia il collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato: di conseguenza, fuori dai casi in cui la disciplina introduttiva dell’abolitio criminis preveda che il giudice dell’impugnazione decide sulla stessa ai soli effetti civili, nel giudizio sull’impugnazione dell’imputato avverso una sentenza di condanna agli effetti penali e agli effetti civili, il proscioglimento con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” (nel caso di specie, a seguito dell’abrogazione della norma incriminatrice disposta dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1) preclude l’esame, ai fini dell’eventuale conferma, delle statuizioni civili.
4.2. Non sono in contrasto con questa conclusione Sez. 5, n. 4266 del 20/12/2005 – dep. 02/02/2006, Colacito, Rv. 233598 e Sez. 5, n. 28701 del 24/05/2005 – dep. 29/07/2005, P.G. in proc. Romiti, Rv. 231866:
dette pronunce, infatti, riguardano la revoca della sentenza di condanna per sopravvenuta abolitio criminis, revoca la cui portata viene circoscritta agli effetti penali e con esclusione di quelli civili; diverso è il caso in esame, in cui una sentenza (irrevocabile) di condanna non è intervenuta, sicché non può essere superato il collegamento “in via esclusiva” sancito dall’art. 538 c.p.p., comma 1, tra la decisione sulla domanda della parte civile e la condanna dell’imputato. Neppure contrasta la conclusione qui raggiunta Sez. 6, n. 31957 del 25/01/2013 – dep. 23/07/2013, Cordaro e altri, Rv. 255598; al di là delle problematiche – di rilievo nel caso esaminato dalla Sesta Sezione, ma irrilevanti ai fini della questione in esame – connesse alla sussistenza del danno civile rispetto alla nuova fattispecie ex art. 319 quater c.p., la pronuncia ha riqualificato il fatto imputato ad uno dei ricorrenti ai sensi della norma appena richiamata e, dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, ha mantenuto ferme le statuizioni civili: si rientra, all’evidenza, nell’ambito applicativo dell’art. 578 cod. proc. pen., ossia di una delle eccezioni codicistiche al principio generale al quale è ispirata la disciplina dell’azione civile nel processo penale. Deve inoltre osservarsi che, Sez. 6, n. 2521 del 21/01/1992 – dep. 11/03/1992, Dalla Bona, Rv. 190006 è stata deliberata sulla base del previgente codice di rito e, comunque, su ricorso della parte civile.
4.3. Conferma la soluzione qui raggiunta la diversa disciplina stabilita dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, art. 9: per gli illeciti oggetto della depenalizzazione introdotta da detto decreto, la seconda parte dell’art. 9 cit., comma 3, stabilisce che “quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”, norma, questa, estranea al D.Lgs. n. 7 del 2016, che trova applicazione nel caso di specie. Né può prospettarsi un’applicazione analogica del richiamato art. 9, comma 3, ai casi di abrogazione di cui al D.Lgs. n. 7 del 2016, ostandovi, in radice, l’eccezionalità che va riconosciuta alla norma in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità a proposito dell’art. 578 c.p.p..
Del resto, non si rinviene, nel raffronto tra le discipline dei due decreti legislativi, il presupposto dell’eadem ratio. Nel caso di depenalizzazione a norma del D.Lgs. n. 8, la sanzione prevista è irrogata dall’autorità amministrativa competente (alla quale l’autorità giudiziaria deve trasmettere gli atti ex art. 9, comma 1), sicché, definendosi nella sede amministrativa l’applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse (art. 8), il legislatore ha attribuito al giudice dell’impugnazione penale il compito di provvedere sulle statuizioni civili. Nel caso, invece, di abrogazione a norma del D.Lgs. n. 7, la sanzione pecuniaria civile è irrogata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno: di conseguenza, una previsione analoga a quella del D.Lgs. n. 8 del 2016, art. 9, comma 3, (e a quella di cui all’art. 578 c.p.p.), impedendo che il giudice civile sia investito dell’azione di risarcimento del danno con riferimento agli illeciti per i quali sia già intervenuta almeno la sentenza di condanna penale in primo grado, risulterebbe del tutto incoerente con la previsione in forza della quale le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili di cui al D.Lgs. n. 7 del 2006, si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili (art. 12, comma 1): per i casi in cui siano intervenuti sentenza o decreto non irrevocabili, l’applicabilità di una disciplina analoga a quella del D.Lgs. n. 8 del 2016, art. 9, comma 3, e, dunque, la definizione, dinanzi al giudice dell’impugnazione penale, del giudizio quanto alle statuizioni civili impedirebbero l’esercizio dell’azione davanti al giudice competente sul risarcimento del danno e, con esso, escluderebbero, per gli illeciti oggetto di pronunce non irrevocabili, l’irrogazione della sanzione pecuniaria civile, esito, questo, in contrasto con la disciplina di cui al D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 12, comma 1.
5. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all’art. 594 c.p., perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, con eliminazione della relativa pena di Euro 150 di multa, mentre, nel resto, il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al fatto di cui all’art. 594 c.p., perché non è previsto dalla legge come reato ed elimina la relativa pena di Euro 150,00 di multa. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15 aprile 2016.
Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2016

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