IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI PERUGIA
Composta dai Magistrati: (omissis)
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Pubblicata mediante lettura del dispositivo
Nella causa Contro
1) K.A.M., nata a Seattle (USA) il (omissis) Arrestata il 6.11.2007 attualmente detenuta presso la Casa Circondariale di Perugia P.Q.C.
– R.L. all’udienza del 3.10.2011 – – LIBERA – PRESENTE
2) S.R., nato a Bari il (omissis) Arrestato il 6.11.2007 – attualmente detenuto presso la Casa Circondariale di Terni P.Q.C.
– R.L. all’udienza del 3.10.2011 – – LIBERO – PRESENTE
IMPUTATI
A) – (in esso assorbito capo C) del delitto di cui agli artt. 110, 575, 576 primo comma n. 5, in relazione al reato sub C) e 577 primo comma n. 4, in relazione all’art. 61 nn. 1 e 5, c.p., per avere, in concorso tra loro e con G.R.H., ucciso K.M., mediante strozzamento e conseguente rottura dell’osso ioide e profonda lesione alla regione antero-laterale sinistra e laterale destra del collo, da arma da punta e da taglio di cui al capo B), e quindi choc metaemorragico con apprezzabile componente asfittica secondario al sanguinamento (derivato dalle ferite da punta e taglio presenti nelle regioni anterolaterale sinistra e laterale destra del collo e dalla contestuale abbondante aspirazione di materiale ematico), e profittando dell’ora notturna e dell’ubicazione isolata dell’appartamento condotto in locazione dalla stessa K.M. e dalla stessa K.A.M., oltre che da due ragazze italiane (R.F. e M.L.), appartamento sito in Perugia, Via (omissis), commettendo il fatto per motivi rutili, mentre il G.R.H., con il concorso degli altri, commetteva il delitto di violenza sessuale.
B) del reato di cui agli artt. 110 c.p., 4 Legge n. 110/1975, per avere, in concorso tra loro, portato fuori dell’abitazione del S.R., senza giustificato motivo, un grosso coltello da punta e taglio lungo complessivamente cm. 31 (sequestrato al S.R. il 6 novembre 2007, rep. 36).
C) – (assorbito al capo A) del delitto di cui agli artt. 110, 609-bis e ter n. 2 c.p., per avere, in concorso con G.R.H., (il G.R.H. esecutore materiale, in concorso con i coimputati), costretto K.M. a subire atti sessuali, con penetrazione manuale e/o genitale, mediante violenza e minaccia, consistite in manovre di costrizione produttive di lesioni, in particolare agli arti superiori e agli arti inferiori e in zona vulvare (soffusioni ecchimotiche alla faccia antera-laterale della coscia sinistra, lesioni nell’area vestibolare in sede vulvare e area ecchimotica alla faccia anteriore terzo medio della gamba destra), nonché nell’utilizzo del coltello sub B) D) del delitto di cui agli artt. 110, 624 c.p., perché, in concorso tra loro, per procurarsi un ingiusto profitto, nelle circostanze di tempo e di luogo di cui ai capi A) e C), si impossessavano OMISSIS di due telefoni cellulari, appartenenti a K.M., sottraendoli alla stessa che li deteneva (fatto da qualificare ai sensi dell’art.624-bis c.p., stante il riferimento al luogo di esecuzione del reato contenuto nel capo A) qui richiamato) E) del reato di cui agli artt. 110, 367 e 61 n. 2 c.p., per avere, in concorso tra loro, simulato il tentato furto con effrazione nella camera dell’appartamento di Via (omissis), abitata da R.F., rompendo il vetro della finestra con una pietra prelevata dalle vicinanze dell’abitazione che veniva lasciata nella stanza, vicina alla finestra, il tutto per assicurarsi l’impunità dai delitti di omicidio e di violenza sessuale, tentando di attribuirne la responsabilità a sconosciuti penetrati, a tal fine, nell’appartamento.
Fatti tutti avvenuti in Perugia, nella notte fra il l e il 2 novembre 2007. K.A.M., inoltre: F) del reato di cui agli artt. 81 cpv., 368 comma 2 e 61 n. 2 c.p., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, sapendolo innocente, con denuncia sporta nel corso delle dichiarazioni rese alla Squadra Mobile ed alla Questura di Perugia in data 6 novembre 2007, incolpava falsamente D.L. detto “P.” del delitto di omicidio in danno della giovane K.M., il tutto al fine di ottenere l’impunità per tutti e in particolare per G.R.H., perché egli era di colore come il D.L.. In Perugia, nella notte tra il 5 e il 6 novembre 2007.
APPELLANTI
i Pubblici Ministeri della Procura della Repubblica di Perugia e gli imputati, avverso la sentenza emessa in data 4-5.12.2009 dalla Corte di Assise di Perugia con la quale furono dichiarati K.A.M. e S.R. colpevoli dei reati loro ascritti sub lettere A), in detto reato assorbito il delitto contestato alla lettera C), nonché sub lettere B), D) limitatamente ai telefoni cellulari ed E) e, per quanto riguarda K.A.M., anche del reato ascrittole sub lettera F), reati tutti unificati sotto il vincolo della continuazione e, escluse le aggravanti di cui agli artt. 577 e 61 n. 5 c.p., ad entrambi concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla residua aggravante.
Furono condannati alla pena di anni 26 di reclusione la K.A.M. e alla pena di anni 25 di reclusione il S.R. (p.b. per la continuazione anni 24 di reclusione) nonché ciascuno al pagamento delle spese processuali e di custodia in carcere.
Furono dichiarati K.A.M. e S.R. interdetti in perpetuo dai Pubblici Uffici e in stato di interdizione legale per tutta la durata della pena.
Furono condannati, altresì K.A.M. e S.R. al risarcimento, in solido tra loro, dei danni nei confronti delle costituite parti civili J.L.K., A.C.L.K., L.K., J.A.K. e S.A.L.K., danni da liquidarsi in separata sede e fu concessa una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad euro 1.000.000,00 ciascuno in favore di J.L.K. e A.C.L.K. e ad euro 800.000,00 ciascuno in favore di L.K., J.A.K. e S.A.L.K., oltre rimborso forfettario, IVA e CPA come per legge; Fu condannata K.A.M. al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita D.L., da liquidarsi in separata sede e fu concessa una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 10.000,00.
Fu condannata K.A.M. alla refusione delle spese di costituzione e difesa in favore di D.L. liquidati in complessivi euro 40.000,00 oltre rimborso forfettario, IVA e CPA come per legge.
Furono condannati K.A.M. e S.R. al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita A.T. da liquidarsi in separata sede e L.K., J.A.K. e S.A.L.K. e fu concessa alla stessa una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 10.000,00.
Furono condannati gli imputati in solido alla refusione delle spese di costituzione e difesa in favore della parte civile A.T. liquidate in complessivi euro 23.000,00 oltre rimborso forfettario, IVA e CPA come per legge.
Fu disposta la confisca dei corpi di reato.
Con costituzione di PP. CC.: 1) J.L.K., n. a Balham (British Citizen) il (omissis), residente a (omissis) (United Kingdom) (padre) rappresentato e difeso dall’Avv.
F.M., del Foro di Firenze, presso il cui studio in Via (omissis) – Firenze, è elettivamente domiciliato; 2) A.C.M.K., nata a Lahore (Bristish Citizen) il (omissis), residente a (omissis) (United Kingdom) (madre), rappresentata e difesa dall’Avv. F.M. del Foro di Firenze, presso il cui studio in Via (omissis) – Firenze, è elettivamente domiciliata; 3) J.A.K., nato a Londra (British Citizen) il (omissis) (fratello), rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco MARESCA del Foro di Firenze, presso il cui studio in Via (omissis) – Firenze, è elettivamente domiciliato; 4) L.K., nato a Greenwich (British Citzen) il (omissis), (fratello), rappresentato e difeso dall’Avv. F.M. del Foro di Firenze, presso il cui studio in Via (omissis) – Firenze, è elettivamente domiciliato; 5) S.A.L.K., nata a Londra (British Citizen) il (omissis), residente a (omissis) (United Kingdom) (sorella), rappresentata e difesa dall’Avv. S.P. del Foro di Firenze, presso il cui studio in Via (omissis)- Firenze, è elettivamente domiciliata; 6) D.L. detto PATRIK, nato a (omissis) (Zaire) il (omissis), residente a Perugia, Via (omissis) rappresentato e difeso dall’Avv.
C.P., del Foro di Perugia, presso il cui studio in Via (omissis) – Perugia, è elettivamente domiciliato; 7) T.A., nata a Tuoro sul Trasimeno il (omissis), residente a Roma, (omissis), rappresentata e difesa dall’Avv. L.M. del Foro di Perugia, presso il cui studio in Via (omissis) – Perugia, è elettivamente domiciliata.
CONCLUSIONI DELLE PARTI Le parti concludono come da separato verbale.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il 2.11.2007. poco dopo le ore 13.00, veniva rinvenuto nell’immobile di Via (omissis), in Perugia, il cadavere della studentessa inglese K.M., nata a Londra il (omissis) e venuta a fine estate 2007 in Italia nell’ambito del progetto Erasmus per frequentare dei corsi presso l’Università per Stranieri di Perugia.
Il corpo senza vita era disteso sul pavimento della camera da letto che K.M. occupava nell’appartamento di proprietà della signora T.A., condotto da K.M. in locazione con altre tre ragazze: K.A.M.(giovane venuta dagli Stati Uniti per frequentare un corso presso l’Università per gli Stranieri), F.R. e L.M..
Svolte le indagini, la Procura della Repubblica di Perugia esercitava l’azione penale, per l’omicidio di K.M. e per altri reati connessi, nei confronti della K.A.M.; di S.R., studente alla facoltà di Ingegneria Informatica presso l’Università degli Studi di Perugia, che da pochi giorni aveva stretto una relazione sentimentale con la K.A.M. ed ormai in procinto di laurearsi; di R.H.G. cittadino ivoriano ma fin dall’infanzia residente a Perugia.
In realtà, in un primo momento, veniva arrestato, in seguito a dichiarazioni “spontanee” rilasciate dalla K.A.M. prima del proprio arresto, anche D.L. (presso il cui locale lavorava talvolta la K.A.M.) quale autore materiale del delitto ma poi, accertata la veridicità dell’alibi fornito, veniva prosciolto.
Nei confronti di tutti gli imputati veniva disposta la misura della custodia cautelare in carcere che, per quanto qui soprattutto interessa, resisteva alle rispettive impugnazioni benché poco dopo la sua attuazione fosse venuto meno uno degli indizi, ritenuto fino a quel momento determinante, nei confronti di S.R.: l’attribuzione a lui di una impronta di scarpa sporca di sangue, rilevata nei pressi del corpo della vittima, impronta successivamente attribuita, invece, con certezza a R.H.G..
All’udienza preliminare si costituivano parti civili i familiari di K.M., la signora T.A. e, nei confronti della sola K.A.M., anche D.L. in riferimento al capo F (reato di calunnia).
L’udienza preliminare aveva termine il 28.10.2008, R.H.G. definiva il procedimento nelle forme del giudizio abbreviato, di cui aveva fatto richiesta; per K.A.M. e S.R. il GUP presso il Tribunale di Perugia disponeva il rinvio a giudizio dinanzi alla Corte di Assise di Perugia per l’udienza del 4.12.2008.
Gli imputati erano rinviati a giudizio in ordine ai seguenti reati: A) omicidio pluriaggravato di K.M., in concorso materiale con R.H.G.: B) contravvenzione di porto del coltello (il reperto 36 della successiva narrativa) asseritamente costituente l’arma del delitto, portato fuori dell’abitazione del S.R. senza giustificato motivo; C) il reato di violenza sessuale, in concorso con R.H.G. in veste di esecutore materiale, in danno di K.M., ipotesi aggravata ai sensi dell’art. 609 ter nr. 2 c.p. stante l’ipotizzato utilizzo del coltello di cui al capo B impiegato per mettere a segno le condotte di violenza e minaccia; D) reato di furto di beni che appartenevano a K.M. (due telefoni cellulari, una somma di denaro, due carte di credito di istituti bancari britannici); E) il reato di cui all’art. 367 c.p. con l’aggravante del nesso teleologico, assumendosi che gli imputati avessero simulato un tentativo di furto all’interno della camera della coinquilina di K.M. e di K.A.M. (F.R.) con la finalità di attribuire agli sconosciuti, penetrati nell’appartamento, le responsabilità dell’omicidio e dell’ipotizzata violenza sessuale subita da K.M.; F) alla sola K.A.M. il delitto di calunnia in danno di D.L. detto “P.”, reato contestato nella forma continuata in quanto le asserite false incolpazioni, in ordine alle responsabilità del D.L. nell’omicidio di K.M., sarebbero state contenute in più dichiarazioni rese dalla K.A.M. agli inquirenti in data 6 novembre 2007 ed in un memoriale consegnato il 6.11.2007 alla Polizia; reato aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 cp atteso che, con quella falsa incolpazione, è stato ipotizzato che K.A.M. cercasse di ottenere l’impunità per sé, per S.R. ed anche per R.H.G.
Il dibattimento apertosi il 16.1.2009 (essendo stata differita la prima udienza dal 4.12.2008 a tale data) si protraeva per circa un anno.
Con sentenza del 4-5 dicembre 2009 la Corte di Assise di Perugia – dopo avere respinto nel corso della istruttoria dibattimentale diverse richieste istruttorie con ordinanze che – come poi si vedrà – sono state impugnate dai difensori degli imputati – dichiarava K.A.M. e S.R. colpevoli dei reati loro ascritti sub lettere A), in detto reato assorbito il delitto contestato alla lettera C), B) e D) limitatamente ai telefoni cellulari, ed E) e la sola K.A.M. anche del reato ascrittole sotto la lettera F), mentre l’assolveva dal reato di cui alla lettera D), in ordine agli altri oggetti e somme di denaro, con la formula perché il fatto non sussiste.
Unificati con il vincolo della continuazione i reati dei quali li dichiarava colpevoli ed escluse le aggravanti di cui agli artt. 577 e 61 n. 5 cp. nonché concesse le attenuanti generiche equivalenti alla residua aggravante, condannava K.A.M. alla pena di anni 26 di reclusione e S.R. alla pena di anni 25 di reclusione (fissando la pena base ai fini della continuazione in anni 24 di reclusione) oltre al pagamento delle spese processuali ed alle pene accessorie di legge; li condannava inoltre in solido al risarcimento del danno ed alla rifusione delle spese processuali in favore delle parti civili costituite (congiunti di K.M. e T.A.) nonché la sola K.A.M. al risarcimento del danno anche in favore di P. D.L., da liquidare in separata sede ma concedendo provvisionali immediatamente esecutive per notevoli importi.
La motivazione della sentenza è trascritta su ben 425 pagine (le ultime 3 riportano il dispositivo), pagine che sono state per la massima parte utilizzate per rappresentare minutamente lo svolgimento del processo, oltre che il contesto nel quale si è collocata la vicenda, ma le ragioni per le quali la Corte di Assise è pervenuta a tale decisione possono essere così sinteticamente riassunte: Falsità dell’alibi La Corte, anche sotto il profilo della esposizione, parte proprio da questo primo dato, rappresentato per primo sia nello svolgimento del processo che nelle valutazioni conclusive: non è vero – ritiene la Corte – che K.A.M. e S.R. trascorsero la notte tra il 1 ed il 2 novembre a casa di lui; “Nessun elemento – così testualmente la sentenza” ha però confermato che K.A.M. e S.R. non si trovassero la sera tardi di quel 1 novembre nella casa di Via (omissis).
In particolare la Corte rileva: che non vi è prova che il computer di S.R. sia stato utilizzato dopo le 21 e l0 e fino alle 5,32 del giorno dopo; che essi furono visti verso le 22.00 e fino a circa le 23 nella piazzetta dinanzi all’Università per gli Stranieri (sita vicino a Via (omissis)) dal teste C.A. (da ritenere attendibile secondo la Corte proprio perché egli, sostanzialmente un clochard, è solito frequentare tale luogo, del quale conosce dunque bene le abitudini, ma anche perché, per collocare nel tempo il proprio ricordo, lo ricollega a circostanze particolari, quali la partenza anche quella sera, in cui vide K.A.M. e S.R., di giovani per le discoteche mediante gli autobus predisposti dai titolari delle discoteche e la visione di “persone vestite di bianco. Polizia, Carabinieri…” la mattina successiva (il personale della scientifica che entrava ed usciva per il sopralluogo dalla casa di via (omissis)). La Corte rileva anche: che il sonno profondo, nel quale sarebbero sprofondati i due dopo cena, contrasta con le abitudini mattiniere di K.A.M. e con il fatto che i due avevano programmato di andare in gita a Gubbio, tanto che il padre di S.R. chiamò il figlio alle 9,24 per sapere se erano partiti; che l’sms, inviato dal padre la sera, venne ricevuto da S.R. soltanto la mattina alle 6,02 (come risulta dai tabulati telefonici) il che induce a ritenere – secondo la Corte – che S.R. abbia tenuto il telefono spento fino a tale ora del mattino; che la mattina presto, inoltre, K.A.M. fu vista nei pressi del negozio di generi alimentari del sig. Q. che l’ha riconosciuta con dichiarazioni rese, però, ad un anno di distanza dal fatto.
Simulazione della effrazione della finestra La Corte come secondo dato, sempre sotto il profilo della esposizione, pone la ritenuta simulazione della effrazione della finestra nella camera della R.. A dire della Corte si è trattato di una messa in scena per indurre in errore gli investigatori circa le modalità d’ingresso dell’autore del delitto all’interno dell’abitazione.
La convinzione che si sia trattato di una messa in scena deriva – secondo la Corte – da diversi elementi rilevati in sede di sopralluogo: il vetro che sarebbe finito sopra gli oggetti spostati dall’ipotetico intruso, dal momento che gli oggetti, se rovistati dopo l’ingresso all’interno della camera, avrebbero dovuto trovarsi sopra i frammenti di vetro e non sotto; il fatto che non sono stati evidenziati all’esterno i segni di una arrampicata sul muro (un chiodo infisso nel muro esterno è risultato del tutto dritto ed integro laddove una eventuale arrampicata (difficoltosa trovandosi la finestra a 3 metri di altezza) avrebbe dovuto comportare quanto meno lo spostamento o l’acciaccatura di tale chiodo; la difficoltà della effrazione con un sasso considerato che le persiane, lasciate accostate dalla F.R. per la difficoltà di chiuderle a causa del rigonfiamento del legno, avrebbero dovuto dapprima essere aperte. La simulazione della effrazione – osserva la Corte – poteva essere posta in essere soltanto da chi aveva interesse a fare escludere un’altra modalità di ingresso molto più agevole (con la chiave dal portone principale) e, dunque, da chi aveva la disponibilità della chiave: ovviamente non la vittima ma neanche le altre coinquiline (F.R. e L.M.) perché è certo che si trovavano altrove (la L.M. presso i suoi familiari in Montefiascone, la F.R. a Perugia ma in altra casa con il fidanzato e altri amici) e, dunque, soltanto K.A.M.: il che, considerato anche che il portone di ingresso non risultava in alcun modo essere stato forzato, induce a ritenere – argomenta la Corte – che sia stata proprio K.A.M., che si trovava con S.R. ma non a casa di lui bensì nella casa di Via (omissis), a fare entrare in casa R.H.G.; infatti – osserva la Corte – K.A.M. e R.H.G., che era anche attratto da lei, si conoscevano già.
La Corte si cimenta nel formulare diverse ipotesi circa le modalità dell’incontro di quella sera tra S.R. e K.A.M., da una parte, e R.H.G., dall’altra: se egli sia giunto da solo quando essi erano già in casa o se si siano recati tutti e tre insieme in Via (omissis); come pure circa lo scopo dell’ingresso di R.H.G. in tale abitazione: se per stare in compagnia con gli altri due o per passarvi la notte o soltanto per andare al bagno (come aveva fatto altre volte ma nell’appartamento sito al piano di sotto ed occupato da alcuni ragazzi). Ma, tra queste ipotesi, la Corte opta per l’essersi incontrati i tre giovani verso le 23 nella piazzetta dinanzi all’Università per gli Stranieri ed essersi poi insieme diretti in Via (omissis).
La Corte, peraltro, non attribuisce rilevanza al fatto che in altre occasioni ed in altri luoghi R.H.G. si era introdotto proprio dalle finestre per rubare.
Concorso nel reato Stabilito, per le ragioni sopra riassunte, che i tre si trovavano tutti nell’abitazione di Via (omissis) nella notte tra il 1 ed il 2 novembre 2007, la Corte ritiene che K.A.M. e S.R. abbiano concorso con R.H.G. nell’omicidio di K.M., in primo luogo perché, diversamente, non avrebbero avuto motivo – a parere della Corte – di prospettare un alibi falso, come pure di mettere in scena la simulata effrazione della finestra ma, poi, anche per gli indizi tratti dalle indagini medico legali e genetiche.
In particolare: Lesioni Poiché K.M., allorché venne aggredita, era ancora sveglia ed in piedi e non spogliata del tutto (così come è dato evincere dagli indumenti trovati indosso, dal luogo ove giaceva il corpo al momento del rinvenimento, come pure dalla collocazione degli oggetti e delle macchie di sangue) si deve ritenere – osserva la Corte – che l’aggressore non abbia potuto agire da solo, anche perché la costituzione fisica di K.M. (agile e forte) e l’avere ella praticato in passato anche arti marziali (karaté) le avrebbero consentito di difendersi in modo più adeguato da un singolo aggressore laddove, invece, la mancanza di lesioni apprezzabili, che si trovano normalmente sulle braccia di persone aggredite da altri con un coltello (cosiddette ferite da difesa), rivelano che ella, nonostante le condizioni evidenziate (fisico e situazione), non potè porre in essere alcuna effettiva resistenza: evidentemente gli aggressori ebbero buon gioco proprio perché erano in tre.
Aggiunge la Corte che un aggressore, da solo, non avrebbe potuto spogliare la ragazza e compiere gli atti sessuali, rivelati dall’esito del tampone vaginale (DNA di R.H.G.), dopo averla adagiata su un cuscino, né, soprattutto, tagliare i gancetti del reggiseno, in quanto questa azione, compiuta necessariamente stando alle spalle della ragazza, ha richiesto l’impiego di entrambe le mani: il che, nella ipotesi di un solo aggressore, avrebbe dato modo alla ragazza di divincolarsi.
Ma, soprattutto, sono la diversa morfologia delle lesioni inferte ed il loro numero e diffusione che confermano – a dire della Corte – il concorso dei tre.
I diversi tramiti a destra (cm. 4) ed a sinistra (cm. 8) si spiegano con la diversità delle lame (una delle quali del tutto compatibile con quella del coltello sequestrato nella abitazione di S.R., reperto 36), impugnate, evidentemente, da soggetti diversi anche perché – osserva la Corte – diversamente si dovrebbe ipotizzare uno spostamento continuo dell’aggressore per colpire la ragazza da posizioni differenti: ipotesi del tutto inverosimile, essendo, al contrario, la situazione spiegabile con il fatto che ogni partecipante all’aggressione colpiva la ragazza dalla posizione in cui si trovava.
Indagini genetiche La Corte, condividendo pienamente le conclusioni esposte dai consulenti del P.M. e dalla Polizia Scientifica (tanto da avere ritenuto superfluo l’espletamento di una perizia sollecitata dalla difesa degli imputati), ritiene ulteriore elemento di prova di colpevolezza degli imputati l’esito delle indagini genetiche effettuate sul reperto 165 b (gancetto del reggiseno) e sul reperto 36 (coltello sequestrato a casa di S.R.). Sul primo – secondo la Polizia scientifica – era stato individuato il DNA di S.R.; sul secondo il DNA di K.A.M. sulla impugnatura e quello di K.M. sulla lama.
Delle contestazioni mosse dalla difesa degli imputati, sulla base delle osservazioni dei propri C.T., alla attendibilità di tali esami (sotto il profilo della assoluta mancanza di sicurezza circa l’esclusione di contaminazioni e della inaffidabilità del metodo utilizzato) si dirà successivamente, nell’esporre i motivi di appello. Qui è sufficiente osservare che la Corte di Assise trova, comunque, un ausilio, nel convincersi circa l’attendibilità dell’esito suddetto, nel fatto che, in fondo, tale esito è compatibile – a suo parere – con tutti gli altri elementi indiziari sopra evidenziati.
è evidente che se, per ipotesi, il DNA rilevato sul gancetto è effettivamente di S.R. l’indizio, pur rimanendo tale, è di particolare rilevanza: e cosi è a dire per i DNA rilevati sulla impugnatura e sulla lama del coltello sequestrato a casa di S.R. sempre che si sia certi che si tratti di una delle armi utilizzate dagli aggressori. In particolare, occorre ricordare anche che la Corte spiega la disponibilità, da parte di K.A.M. al momento del delitto, del coltello sequestrato a casa di S.R. (e certamente – circostanza pacifica – non facente parte dei coltelli dei quali era dotata la cucina di casa di Via (omissis)) così: poiché K.A.M., per motivi di lavoro, doveva uscire da sola anche di notte, probabilmente S.R. le aveva consegnato tale coltello per esigenze di difesa personale, coltello che ella poteva trasportare nella sua capiente borsa, cosicché la sera del delitto si era venuta a trovare nella disponibilità di tale coltello, Dunque, secondo la Corte, l’esito delle indagini genetiche è coerente con tutti gli altri indizi. La Corte non ha poi ritenuto necessario procedere a perizia genetica, sollecitata dalla difesa degli imputati, circa le tracce presenti sulla federa del cuscino, che si trovava al momento del rinvenimento del corpo sotto il bacino della ragazza (presumibilmente tracce di sperma), per la considerazione – spiega la Corte – che, essendo dato pacifico che K.M. aveva una vita sessuale attiva, sarebbe stato irrilevante determinare la natura di tali tracce, come pure individuare il soggetto che le aveva lasciate, anche perché – come spiegato dai consulenti – non è possibile datare il momento del rilascio delle tracce contenenti DNA. Tracce biologiche La Corte attribuisce rilevanza, quali indizi, alle tracce biologiche rinvenute nel bagno piccolo, vicino alla camera di K.M. e di K.A.M. e generalmente usato dall’una e dall’altra ragazza.
Pur non essendo possibile, anche in questo caso, individuare il momento in cui tali tracce sono state rilasciate, la Corte ritiene, vista la dislocazione delle tracce all’interno del bagno, che esse rappresentino chiaramente lo svolgimento della vicenda: essendo il bagno vicino alla camera di K.M., è logico – osserva la Corte – che l’omicida si sia portato in tale bagno per lavarsi del sangue della vittima.
Di qui il tatto che tracce del sangue di K.M. siano state trovate sull’interruttore della lampada, che pure doveva essere stata accesa prima del lavaggio, come pure sul muro vicino la porta d’ingresso; di qui il fatto che orme, rilasciate da un piede sporco di sangue, siano state rinvenute sul tappetino del bagno ed ancora, e soprattutto, il fatto che tracce di sangue, contenenti il DNA di K.A.M. e di K.M., mischiati insieme, siano state rinvenute nel lavandino e nel bidet: “e – così testualmente la sentenza – paiono evidenziare il segno di un’attività di pulitura delle mani e dei piedi effettuata nel lavandino e nel bidet, attività che, per l’azione di sfregamento, comportava la pulizia del sangue della vittima e poteva comportare la perdita di cellule di sfaldamento di chi si stava pulendo: le due tracce biologiche vengono così a unirsi in quell’unica traccia descritta dalla dr.ssa B. e che, per la presenza di sangue, assumeva la colorazione rosso sbiadita, come di sangue dilavato”. Inoltre la Corte, pur non essendo stato rinvenuto nel bagno DNA appartenente a S.R., ritiene che l’orma trovata all’interno del bagno sia stata impressa proprio da S.R., anche in considerazione del fatto che le impronte di scarpe che, provenendo dalla stanza di K.M. si dirigono verso la porta dell’appartamento, sono compatibili del tutto con scarpe del modello e della misura che doveva avere in uso R.H.G., essendo stata rinvenuta una scatola vuota all’interno del suo appartamento.
Dunque – osserva la Corte – se R.H.G. si è allontanato subito con le scarpe insanguinate, l’orma suddetta e le altre tracce rinvenute nel bagno inducono a ritenere che K.A.M. e S.R., dopo l’uccisione di K.M., siano andati insieme in bagno per lavarsi del sangue. Tracce esaltate dal Luminol La Corte ritiene che tutte le tracce esaltate dal Luminol, presenti sia nella stanza di K.A.M. che in quella della F.R., considerato che non sono state rinvenute altre sostanze suscettibili di essere esaltate in analogo modo e dato il contesto, siano tracce di sangue rilasciate da K.A.M. e S.R. nel loro muoversi all’interno della casa, al fine di guardare all’esterno dalla stanza di K.A.M. come pure da quella della F.R., per accertarsi che non fossero presenti delle persone in strada, essendo essi allarmati dal fatto che il grido di K.M. e la presenza di un’automobile ferma nei pressi (che S.R. aveva avuto modo di rilevare già quando si trovava nella piazzetta dinanzi all’Università) potessero avere richiamato l’attenzione di qualcuno.
Valutazioni conclusive della Corte di Assise La Corte di Assise ritiene che con gli elementi evidenziati siano coerenti i dati concernenti l’attività dei cellulari in uso a K.M., che evidenziano la presenza degli stessi in Via (omissis) fino alle 22,13 ed invece in via (omissis) il giorno successivo alle ore 10.13.
E così colloca la morte della stessa qualche minuto dopo le 23,30, trovando tale ora conferma – a dire della Corte di Assise – nei dati rilevati dall’autopsia (tanatocronologici).
Ma – a dire della Corte – anche il comportamento tenuto successivamente (il fatto che K.A.M. si sia recata nelle primissime ore del mattino presso il negozio del sig. Q. per acquistare prodotti per la pulizia) costituisce ulteriore elemento indiziario di particolare gravità, anche perché negato dall’imputata, essendo urgente l’esigenza di provvedere alle operazioni di ripulitura della casa di via (omissis). Ed ancora il fatto che K.A.M. abbia telefonato – a suo dire per effettuare le ricerche di K.M. – soltanto ad un cellulare e non anche all’altro: ritiene, infatti, la Corte di Assise che essa non aveva necessità di telefonare all’altro cellulare ben sapendo cosa era accaduto, mentre la telefonata aveva evidentemente soltanto lo scopo di sapere se i cellulari, gettati via insieme, fossero stati o meno ritrovati. Movente Infine la Corte di Assise avverte la difficoltà di spiegare una condotta così crudele in assenza di un plausibile movente e, esclusa la premeditazione, ritiene che quanto accaduto sia per un verso frutto di una serie di circostanze casuali e per altro verso di una scelta estrema di sperimentazione, di scelta del male per il male: a dire della Corte di Assise, S.R. ed K.A.M., trovatisi improvvisamente ad avere una serata libera (K.A.M. non doveva più recarsi al lavoro e S.R. non doveva più accompagnare un’amica alla stazione dei pullman), si recarono a casa di K.A.M. dove, forse dopo avere assunto sostanze stupefacenti, si intrattennero a fare l’amore nella stanza di lei. Ma nella stessa abitazione era presente anche R.H.G. (o perché si era recato là insieme agli altri due o perché gli venne aperto successivamente) il quale, dopo essere stato in bagno (ed avere lasciato le proprie feci nel water senza scaricare), venne a trovarsi immerso in una atmosfera pregna di sollecitazioni erotiche: K.A.M. e S.R. nella stanza di lei a fare l’amore ed una ragazza sola nella propria camera, K.M., che diveniva così un predestinato oggetto di desiderio. R.H.G., respinto da lei, anziché fuggire via, perseverò nel tentare di attuare il proprio intento … ma a questo punto, evidentemente richiamati dal trambusto, accorsero S.R. ed K.A.M. nella stanza di K.M. e qui, anziché difenderla, si misero dalla parte di R.H.G. per sperimentare questa nuova emozione: eros e violenza, alla quale – secondo la Corte – essi erano già portati, ed in particolare S.R., come rivelato dalla lettura di libri e dalla visione di film del genere, come pure dall’uso di sostanze stupefacenti. Le lesioni e l’omicidio non furono né predeterminati né voluti come scopo diretto della propria azione ma accettati, comunque, come evoluzione prevedibile della stessa.
Donde la colpevolezza di entrambi gli imputati in ordine a tutti i reati loro ascritti (omicidio, simulazione di reato, porto abusivo di coltello, furto dei cellulari).
Per quanto concerne il delitto di calunnia in danno di D.L. la Corte osserva che, poiché ovviamente K.A.M. sapeva bene come erano andate le cose, era chiaramente consapevole della totale innocenza di costui, né vi erano elementi tali da suffragare la sua affermazione circa l’avere accusato D.L. perché in qualche modo convinta che questo era quello che voleva la Polizia da lei: fare comunque il nome di un colpevole.
Nel determinare la pena la Corte ha ritenuto assorbito il delitto di violenza sessuale nel più grave delitto di omicidio quale aggravante speciale, mentre ha escluso l’aggravante della minorata difesa per la considerazione che K.M., allorché venne aggredita, si trovava nella propria stanza, sveglia ed ancora vestita, in condizioni di piena coscienza e di completa capacità di reazione; ed ha anche escluso l’aggravante dei futili motivi perché contestata in modo del tutto generico.
Ad entrambi gli imputati ha riconosciuto attenuanti generiche perché giovanissimi, privi di precedenti penali, senza carichi pendenti, e con una condotta di vita che, a parte l’uso personale di sostanze stupefacenti, era meritevole di apprezzamento (impegnati nello studio, nel lavoro, disponibili verso gli altri) ed infine lontani dalle rispettive famiglie, del controllo e vicinanza delle quali avrebbero avuto ancora bisogno.
Le attenuanti generiche sono state ritenute equivalenti alla aggravante speciale contestata. Unificati i reati con il vincolo della continuazione e ritenuto ovviamente più grave ai fini della determinazione della pena quello di omicidio, la Corte ha, quindi, irrogato anni 25 a S.R. ed anni 26 ad K.A.M. (ella, infatti, risponde anche del delitto di calunnia) oltre alle pene accessorie di legge ed al pagamento delle spese processuali (p.b. anni 24; aumentata ad anni 24 e 6 mesi per la simulazione; ad anni 24 e 9 mesi per il porto del coltello; ad anni 25 per il furto e aumentata infine, per K.A.M., di un ulteriore anno per la calunnia).
La Corte ha, infine, condannato gli imputati al risarcimento danno in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede, riconoscendo anche delle provvisionali per notevoli importi e liquidando le spese in misura apprezzabile in considerazione della complessità e durata del processo.
Avverso la sentenza hanno proposto tempestivo appello i difensori di K.A.M. (avv.ti L.G. e C.D.V.) e di S.R. (avv.ti L.M. e G.B.) ma anche il Pubblico Ministero, mentre i difensori dei congiunti di K.M. costituitisi parte civile (J.K., A.K., L.K., J.A.K., S.K.), (avv. F.M. e avv. S.P., hanno presentato una memoria per ribadire la validità delle motivazioni della sentenza.
A fondamento delle rispettive impugnazioni e richieste hanno posto i motivi che saranno appresso esaminati.
L’avv. L.M. per la parte civile T.A. e l’avv. C.P. per la parte civile D.L., pure presenti, non hanno presentato memorie.
Come detto, i difensori delle parti civili K., avv. F.M. e avv. S.P., hanno presentato una memoria per ribadire la validità delle motivazioni della sentenza.
In particolare argomentano, circa la simulazione del reato di furto, essere a loro dire impossibile che vi sia stata realmente una introduzione attraverso la finestra della stanza di F.R., escludendo tale possibilità la mancanza di qualsivoglia traccia sulla parete sotto la finestra; la presenza di un chiodo privo di deformazione situato sulla stessa parete; l’assenza di vetri rinvenuti sotto la finestra; la presenza di vetri sopra gli oggetti, e non sotto, nella stanza della F.R. a conferma dell’attività simulatoria.
Circa la conoscenza tra gli imputati e la sussistenza del concorso nel reato tra gli stessi, oltre a ribadire gli elementi già rappresentati dalla Corte di Assise nella motivazione della sentenza (pluralità e collocazione delle lesioni; tracce rilevate dal Luminol, tracce biologiche e genetiche di R.H.G. sulla bretellina del reggiseno della vittima e di S.R. sul gancetto del reggiseno), osservano che, in realtà, K.A.M. ha rappresentato il tramite di conoscenza tra R.H.G. e S.R. e che l’intesa ha potuto anche essere istantanea, raggiunta nella imminenza del delitto. Aggiungono che la scelta di R.H.G. di non rispondere all’esame e il dissenso dei difensori di K.A.M. e di S.R. alla acquisizione delle dichiarazioni rese da R.H.G. al Pubblico Ministero concorrono a confermare la partecipazione di tutti nella commissione del crimine.
Circa gli aspetti medico-legali ripercorrono tutti i profili che hanno costituito oggetto degli accertamenti medico-legali per evidenziare la esattezza della ricostruzione operata dalla Corte di Assise (in particolare circa l’ora della morte, circa la necessaria partecipazione di più persone alla commissione del delitto, circa la compatibilità del coltello sequestrato con alcune importanti lesioni in ferie alla vittima).
Circa le impronte plantari osservano che quelle rilevate all’interno dell’abitazione rivelano la presenza di K.A.M. e S.R. sul luogo del delitto. Si tratta di impronte che sotto il profilo scientifico non possono essere definite utili per confronti positivi ma, comunque, utili per confronti negativi, nel senso che, in base a tali impronte, non si può pervenire ad una identificazione certa ma si può, comunque, pervenire ad una esclusione certa sulla base della compatibilità o meno di tali impronte con un determinato soggetto. La Polizia scientifica (ispettore R. ed ispettore capo B.) ha potuto, così, escludere che le impronte plantari possano essere attribuite, al contrario della impronta di scarpa, a R.H.G., mentre risultano compatibili con le caratteristiche di K.A.M. (impronte rilevate nella sua camera e nel corridoio) e di S.R. (impronte rilevate sul tappetino del bagno e nel corridoio).
In definitiva, i difensori delle parti civili suddette concludono per la conferma della partecipazione di tutti gli imputati ai fatti come ricostruiti in sede di giudizio.
Il Pubblico Ministero con il proprio appello incidentale lamenta la “errata esclusione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. (avere agito per motivi abietti e futili) – Difetto assoluto di motivazione”: sostiene che la Corte di Assise non avrebbe dovuto apoditticamente escludere l’aggravante, ma avrebbe dovuto indagare nel merito per rilevarne la sussistenza – proprio quelle stesse argomentazioni esposte dalla Corte in merito al movente “scelta del male per il male, desiderio di fare una nuova esperienza di eros e violenza” – avrebbero dovuto indurre a ravvisare l’aggravante suddetta.
Lamenta, inoltre, la “errata concessione delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p.”: sostiene che gli elementi sui quali la Corte ha basato la decisione di riconoscere attenuanti generiche non sono in realtà idonei a tale scopo e per ciascuno di essi formula delle osservazioni dirette a ridurne la portata.
Donde la necessità di rideterminare la misura della pena.
I motivi di impugnazione presentati dai difensori dei due imputati con l’atto di appello, e gli ulteriori motivi aggiunti, benché formalmente distinti e caratterizzati da argomentazioni personalizzate, possono, tuttavia, essere illustrati congiuntamente, almeno nelle loro linee essenziali, in quanto toccano gli stessi punti e sono sorretti da analoghe argomentazioni. Prima ancora che rappresentare specifici motivi di nullità o l’esigenza di disporre particolari incombenti istruttori, sollecitati in primo grado ma non ammessi dalla Corte di Assise, viene contestato il criterio seguito in generale dalla Corte di Assise: a dire degli appellanti la Corte di Assise, partendo dalla convinzione manifestata fin dalle prime pagine della sentenza circa la falsità della versione prospettata dagli imputati, avrebbe finito con l’attribuire valore probatorio ad elementi di per sé niente affatto attendibili (per una serie di ragioni rappresentate anche dai C.T. di parte), quali i risultati delle indagini tecniche effettuate dalla Polizia Scientifica, anziché, al contrario, valutare autonomamente l’attendibilità e la rilevanza di tali risultati, per poi saggiarne la tenuta alla luce della versione prospettata dagli imputati. E cosi, seguendo questo percorso erroneo, avrebbe finito con il pervenire ad una affermazione di colpevolezza sulla base di una convinzione soggettiva, tutt’al più di ordine probabilistico, piuttosto che su elementi probatori obiettivi e significativi, a tal punto da escludere ogni ragionevole dubbio circa la colpevolezza o meno degli imputati.
L’esigenza di pervenire a formulare una decisione al di là di ogni ragionevole dubbio e la necessità di partire dagli unici elementi obiettivamente apprezzabili giustificano – a dire degli appellanti – la richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale e l’ammissione dei mezzi di prova sollecitati.
Soprattutto, rappresentano la necessità di disporre una perizia genetica dal momento che, alla luce delle osservazioni formulate dai consulenti di parte, gli accertamenti svolti dalla Polizia Scientifica (dott. S.) non possono essere ritenuti attendibili, essendo stati condotti secondo procedimenti non del tutto conformi ai protocolli scientifici internazionali. In particolare, per quanto concerne le tracce asseritamente rinvenute sul coltello sequestrato, per avere portato avanti il procedimento di individuazione del DNA benché la quantità della traccia fosse più bassa di quella ritenuta sufficiente per conseguire un risultato attendibile (con espressione inglese low copy namber); e, per quanto concerne la traccia sul gancetto del reggiseno, attribuita a S.R., per avere ritenuto attendibile il risultato senza tenere conto delle probabili numerose contaminazioni, tali da alterarlo, attese le modalità di rinvenimento del pezzettino di reggiseno con il gancetto. Va, infatti, ricordato che tale reperto, individuato sicuramente nel corso del primo sopralluogo, allorché venne trovato sotto il cuscino sul quale era adagiata K.M., poi fu letteralmente perso di vista, completamente trascurato nel corso delle indagini fino a che, circa 40 giorni dopo, nel corso di altro sopralluogo, venne rinvenuto nella stessa stanza ma collocato altrove, a circa un metro di distanze e sotto un tappeto.
Ma, comunque, censurano pressoché tutti i passaggi della sentenza, così come risulta dai motivi da ciascuna difesa presentati, impugnando la sentenza e le ordinanze con le quali la Corte di Assise di primo grado aveva respinto le richieste istruttorie formulate.
Questa Corte, dopo avere provveduto in merito alle impugnazioni delle ordinanze emesse dalla Corte di Assise di primo grado – così come risulta dai provvedimenti in atti – ha disposto la parziale rinnovazione della istruttoria dibattimentale, soprattutto al fine di espletare una perizia genetica e di ascoltare alcuni testi.
Infine, all’udienza odierna, esaurita la discussione e preso atto delle dichiarazioni dei due imputati, ha deciso come in dispositivo.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE Poiché, come osservato nella relazione introduttiva, unico elemento obiettivamente certo, indiscutibile ed indiscusso (nel senso che, avendo gli appellanti censurato sostanzialmente tutti i passaggi della sentenza, non vi è nulla su cui non si debba discutere) occorre riesaminare, alla luce delle risultanze dibattimentali del primo grado e delle ulteriori acquisizioni del presente grado, tutti gli elementi indiziari sui quali la Corte di primo grado ha basato la propria decisione di colpevolezza.
Sentenza relativa a R.H.G.
Prima di intraprendere il riesame delle risultanze processuali del primo grado e l’esame delle ulteriori acquisizioni del presente grado, conseguenti alla parziale rinnovazione della istruttoria dibattimentale, è necessario osservare che il potere di valutazione di tali risultanze da parte di questa Corte di Assise di Appello non trova alcun ostacolo nella sentenza pronunciata da questa stessa Corte, in altra composizione, nei confronti del coimputato R.H.G., in data 22.12.2009, divenuta irrevocabile in seguito al rigetto del ricorso per Cassazione. Il P.G. ed i difensori di parte civile hanno esordito affermando che la Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso di R.H.G., aveva posto dei “paletti insuperabili”, da parte di questa Corte di Assise, per quanto riguarda la ricostruzione del fatto e la valutazione delle risultanze probatorie e, pur avendo al termine della discussione ridimensionato tale argomentazione, nel senso di ritenere tale sentenza soltanto uno degli clementi di valutazione, hanno, tuttavia, ribadito la particolare rilevanza di tale elemento.
è fin troppo ovvio che detta sentenza non è assolutamente vincolante, contrastando un vincolo del genere non solo con le norme di diritto positivo regolanti l’efficacia della sentenza penale in altri giudizi (art. 654 c.p.p.), ma con tutti i principi fondamentali dell’ordinamento, garantiti costituzionalmente (art. 111 Costituzione), dal momento che gli attuali imputati verrebbero a subire gli effetti di una sentenza pronunciata in un giudizio al quale sono rimasti estranei. Ma, in verità, tale sentenza, acquisita ex art. 238 bis c.p.p. e perciò utilizzabile sotto il profilo probatorio soltanto quale uno tra gli altri elementi valutabili ex art. 192, comma 3, c.p.p. (così Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16626 del 28/02/2007 Ud. (dep. 02/05/2007) Rv. 236650; Sez. 3, Sentenza n. 8823 del 13/01/2009 Ud. (dep. 27/02/2009) Rv. 242767), appare già di per sé quale elemento particolarmente debole, dal momento che il giudizio, che ha riguardato R.H.G., è stato celebrato con il rito abbreviato, cosicché i Giudici che hanno conosciuto della posizione di R.H.G. non hanno potuto disporre, nonostante la particolare complessità del caso, almeno per quanto riguarda la posizione degli attuali imputati, né delle acquisizioni della istruttoria dibattimentale di primo grado né di quelle del presente grado, ed in particolare dei risultati della perizia espletata.
Ed è, del resto, la stessa Corte di Cassazione che, nella sentenza invocata dal P.G. e dai difensori di parte civile, avverte: “… Per intanto occorre da subito sfuggire al tentativo perseguito dall’impostazione tutta della difesa di R.H.G., ma fuori luogo nel contesto della decisione, di coinvolgere il Collegio nell’avallo della tesi di una responsabilità di altri, che sono S.R. e K.A.M. per l’omicidio aggravato dalla violenza sessuale di K.M.. La decisione a cui è chiamata questa Corte concerne solo la responsabilità di R.H.G. in ordine al fatto contestato…”.
Ebbene, il riesame delle risultanze processuali del primo grado e le acquisizioni conseguenti alla parziale rinnovazione della istruttoria dibattimentale nel presente grado non confermano la ipotesi del necessario concorso di più persone nel reato.
Tale ipotesi, come risulta dalla lettura della sentenza del 22.12.2009, è stata configurata condividendo sostanzialmente tutti gli argomenti svolti dal P.M. ed in particolare ritenendo certi i seguenti elementi: che il DNA, rilevato dalla Polizia Scientifica sul gancetto del reggiseno nella stanza del delitto, sia da attribuire a S.R. e che tale DNA sia stato rilasciato proprio in occasione del delitto; che il DNA, rilevato dalla Polizia Scientifica sulla lama del coltello sequestrato in casa di S.R., sia da attribuire a K.M. e che sia stato rilasciato in occasione del delitto; che le ferite presenti sul colpo di K.M., per la loro numerosità e per la direzione, come pure per le diverse caratteristiche (lunghezza del tramite, larghezza ecc…), non possano essere state cagionate da un aggressore solitario ma da più aggressori; che l’assenza di ferite da difesa sulle mani e sulle braccia di K.M. confermi la necessaria partecipazione all’aggressione di più soggetti; che l’ingresso all’interno dell’appartamento di Via (omissis) sia stato consentito dall’unica persona che in quel momento – a parte K.M. – ne aveva la disponibilità e cioè da K.A.M., avendo la Corte di Assise di Appello ritenuto che l’ingresso tramite la finestra, previa rottura del vetro, fosse soltanto una messa in scena per sviare le indagini verso gli ignoti autori di un tentativo di furto.
Sennonché, l’analisi di ognuno dei singoli elementi, sui quali riposa l’ipotesi del concorso, induce quanto meno a dubitare della necessaria partecipazione di più persone nella consumazione dei delitti contestati ed a escludere, pertanto, che, anche sotto questo profilo soltanto (concorso di persone), la sentenza concernente R.H.G. possa rappresentare un elemento di valutazione determinante ai fini dell’accertamento della responsabilità degli attuali imputati: e comunque, anche a voler tenere ferma l’ipotesi del concorso necessario di persone, non per questo la sentenza assume valore probatorio determinante per riconoscere negli attuali imputati i correi di R.H.G..
Ne deriva che tale sentenza, condivisibile per quanto concerne la responsabilità di R.H.G. (che non viene certo meno dal ritenere maggiormente attendibile l’ipotesi dell’unico agente) in quanto gli elementi a carico di lui sono numerosi ed univoci (dal DNA del medesimo rilevato non in un reperto ma in più reperti, anche nel tampone vaginale dalla impronta sul cuscino e dal sangue sulla felpa indossata dalla vittima, dalle orme delle scarpe ma anche dai precedenti comportamenti del medesimo, aduso ad entrare in appartamenti altrui per rubare, munito di coltello, come pure a molestare giovani), non assume alcuna rilevanza probatoria per quanto concerne l’accertamento della responsabilità degli attuali imputati.
Calunnia Sono state acquisite agli atti del processo le dichiarazioni “spontanee”, rilasciate da K.A.M. il 6 novembre, come pure il memoriale da lei successivamente scritto.
Questa Corte di Assise di Appello, confermando sul punto l’ordinanza della Corte di Assise di primo grado, ha tuttavia precisato già che tali dichiarazioni, mentre sono utilizzabili in ordine al delitto di calunnia in danno di D.L., non possono esserlo in ordine agli altri delitti in danno di K.M. dal momento che, come affermato anche dalla Corte di Cassazione (sentenza numero 990/08 in data 1.04.2008), sono affetti, sotto questo profilo, da nullità assoluta in quanto rese, in assenza di difensore, da persona che aveva già assunto la veste di indagata.
Tra gli elementi a carico degli attuali imputati, in ordine al delitto di omicidio aggravato dalla violenza sessuale (come pure in ordine agli altri delitti ad esso connessi), non possono essere, dunque, ricomprese tali dichiarazioni “spontanee” ma, in ipotesi, soltanto il memoriale scritto successivamente.
In tali dichiarazioni K.A.M. ha indicato D.L. come autore dell’omicidio e collocato lei stessa nella casa di Via (omissis), senza attribuirsi, però, alcuna attiva partecipazione ma anzi come spettatrice atterrita e confusa.
Secondo l’ipotesi accusatoria K.A.M., ormai stremata dal lungo interrogatorio e soprattutto demoralizzala dall’avere appreso, da coloro che la stavano interrogando, che S.R. l’aveva – per così dire – abbandonata al suo destino, negando l’alibi fino a quel momento offerto (avere essi trascorso tutta la notte insieme a casa di S.R.), avrebbe posto in essere un ultimo tentativo difensivo, rappresentando più o meno quanto realmente accaduto nell’abitazione di Via (omissis), ma sostituendo come protagonista a R.H.G. D.L.: “nero per nero”, secondo le parole del P.M.. Questa Corte non condivide l’ipotesi accusatoria.
Per valutare la reale portata delle dichiarazioni “spontanee” e del memoriale, scritto praticamente subito dopo, occorre tenere conto del contesto nel quale sono state rese le prime e redatto il secondo.
La durata ossessiva degli interrogatori, portati avanti di giorno e di notte, condotti da più persone nei confronti di una ragazza giovane e straniera, che all’epoca non comprendeva né parlava affatto bene la lingua italiana, ignara dei propri diritti, privata della assistenza di un difensore, al quale avrebbe avuto diritto essendo ormai di fatto indagata per delitti tanto gravi, ed assistita, per di più, da una interprete che – come evidenziato dall’avv. B. – anziché limitarsi a tradurre la induceva a sforzarsi di ricordare, spiegandole che, forse a causa del trauma subito, era confusa nei ricordi, rende del tutto comprensibile che ella si trovasse in una situazione di notevole pressione psicologia – che definire di stress appare riduttivo – tale da far dubitare della effettiva spontaneità delle dichiarazioni. Spontaneità singolarmente insorta in piena notte, dopo ore ed ore di interrogatorio: le cosiddette spontanee dichiarazioni sono state rese alle ore 1,45 (piena notte) del C. 11.2007 (giorno successivo a quello in cui era iniziato l’interrogatorio) ed ancora alle 5,45 successive ed il memoriale è stato redatto poche ore dopo.
Per dimostrare che K.A.M. in Questura, nei giorni successivi alla uccisione di K.M., non era affatto turbata sono state richiamate le deposizioni di alcuni funzionari di Polizia e delle altre ragazze là convocate: K.A.M. e S.R. – a loro dire – si scambiavano delle effusioni e K.A.M. addirittura nell’attesa si era anche esibita in qualche manovra ginnica.
In realtà, però – a parte il fatto che le effusioni, semplici tenerezze di due innamorati, potevano essere un modo per confortarsi a vicenda ed a parte il fatto che le stesse esibizioni ginniche potevano essere anch’esse un modo per esorcizzare il clima certamente di ansia e di paura che aveva coinvolto tutti, un modo per ritrovare un pò di quella normalità quotidiana stravolta dall’accaduto – a parte tutte queste considerazioni, va osservato che tali deposizioni si riferiscono all’inizio della presenza in Questura e non già a tarda notte (1,45 e 5,45) quando le dichiarazioni cosiddette “spontanee” sono state rese; il che, al contrario dell’assunto accusatorio, sta a dimostrare che K.A.M., che all’inizio non aveva ragione di essere intimorita, è entrata in uno stato di oppressione e stress proprio in seguito alìinterrogatorio ed alle sue modalità.
Il P.M., evidentemente per sostenere l’assoluta legittimità della verbalizzazione delle cosiddette dichiarazioni spontanee, all’udienza del 13.3.2009 ha chiesto alla signora D. (interprete presente al momento delle “spontanee” dichiarazioni ma citata per detta udienza in qualità di teste): “le risulta che K.A.M. abbia chiesto all’inizio che venissero verbalizzate anche le domande? … le risulta che abbia chiesto che venissero verbalizzate domande e risposte in lingua madre, cioè inglese oltre che in italiano?…” Domande alle quali la signora D. ha risposto in modo negativo.
Ma forse che da una ragazza ventenne, straniera, sottoposta ad interrogatorio per ore da parte della Polizia, si poteva pretendere la prontezza e lucidità, il coraggio addirittura, di formulare tali richieste o prima ancora di ipotizzare una sua facoltà di formularle? Al di là dell’aspetto formale, il contesto nel quale sono state rese quelle dichiarazioni era chiaramente caratterizzato da una condizione psicologica divenuta per K.A.M. davvero un peso insopportabile: la teste D. riferisce di un vero e proprio shock emotivo di K.A.M., verificatosi al momento in cui venne fuori la storia del messaggio scambiatosi con D.L.
Ora, poiché D.L. era davvero estraneo all’omicidio, lo shock emotivo non può essere considerato determinato dall’essersi ella vista scoperta (in che cosa, nell’avere scambiato un messaggio con persona che con il delitto non c’entrava nulla?) ma piuttosto dall’avere ormai raggiunto il massimo della tensione emotiva.
In quel contesto è comprensibile che K.A.M., cedendo alla pressione ed alla stanchezza, abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando a coloro che la stavano interrogando quello che, in fondo, essi si volevano sentire dire: un nome, un assassino.
Ma perché proprio D.L.? Perché la Polizia aveva trovato sul telefonino di K.A.M. il messaggio, da lei inviato la sera del 1 novembre a costui, “ci vediamo dopo”, che poteva anche significare l’intenzione di vedersi effettivamente dopo per andare da qualche parte, magari nella casa di Via (omissis). Donde le domande insistenti su quel messaggio, sul significato di quel messaggio e sul suo destinatario.
Dando quel nome “in pasto” a coloro che la stavano interrogando così duramente K.A.M. sperava, verosimilmente, di porre un fine a quella pressione, ormai dopo lunghe ore un vero tormento, mentre aggiungere dei particolari, costruire una breve storia intorno a quel nome non era certo particolarmente difficile, se non altro perché molti particolari e molte illazioni erano apparse già il giorno successivo su molti giornali e circolavano comunque in città, considerate le modeste dimensioni di Perugia.
D’altra parte, la stessa articolazione del racconto, contenuta non solo nel verbale di spontanee dichiarazioni ma anche nel memoriale redatto subito dopo, appare piuttosto la narrazione confusa di un sogno, sia pure macabro, che non la descrizione di una vicenda davvero accaduta; il che conferma lo stato in cui si trovava K.A.M. nel momento in cui rese le spontanee dichiarazioni e scrisse il memoriale ed esclude che finalità delle une e dell’altro potesse essere quello di tacere il nome dell’effettivo autore del delitto, in ipotesi a lei noto in quanto concorrente, quello di R.H.G..
Non è, infatti, niente affatto logico ipotizzare che K.A.M., se effettivamente concorrente nel delitto, potesse sperare che fare il nome di D.L. – che in tale caso avrebbe dovuto sapere essere del tutto estraneo e lontano, finanche fisicamente, dal teatro del crimine – potesse in qualche modo giovare alla sua posizione, essendo, semmai, per lei più agevole indicare il vero autore del delitto, pure ribadendo la propria assoluta estraneità: in fondo, ella abitava in quella casa e trovarsi al momento del delitto all’interno della propria stanza, magari davvero intrattenendosi con S.R. come ritenuto dalla Corte di Assise di Primo grado, sarebbe stata circostanza del tutto normale, tale da non comportare certo la responsabilità per un delitto commesso da altri nella stanza accanto.
Dunque per K.A.M., qualora si fosse trovata all’interno della casa di Via (omissis) al momento dell’omicidio, la via più agevole per difendersi sarebbe stata quella di indicare il vero autore del delitto, comunque presente all’interno della casa, perché questo l’avrebbe resa credibile, e non invece indicare un soggetto del tutto estraneo, che ella non aveva alcuna ragione di sperare privo di alibi, sì da non poter smentire il racconto da lei fornito alla Polizia.
Ritiene, dunque, questa Corte che K.A.M. abbia indicato in D.L. l’autore del delitto soltanto perché in quel momento, avendo coloro che la stavano interrogando insistito sulla spiegazione del messaggio a lui inviato, le apparve come la via più breve ed agevole per porre fine alla situazione in cui si trovava.
Da qui deriva che, per quanto concerne l’omicidio, non solo non possono essere utilizzate le dichiarazioni “spontanee”, ma in realtà neanche il memoriale scritto successivamente, dal momento che, benché utilizzabile sotto il profilo processuale, non merita attendibilità sotto quello sostanziale, non rappresentando il reale accadimento della vicenda.
A parte che in tale memoriale K.A.M. non indica, comunque, né lei stessa né S.R. come autori del delitto, ma scrive di una confusione totale, di non essere in grado di ricordare quanto le viene richiesto: unica cosa sicura la estraneità al delitto sua e di S.R.
Così testualmente (tradotto dall’inglese): “Nei flashback che sto avendo vedo P. come l’assassino, ma il modo in cui la verità appare nella mia mente non c’è modo per me di appurarla, perché non ricordo con certezza se io fossi a casa mia quella notte” ed ancora “le domande che necessitano di una risposta, almeno per quello che penso io, sono: perché S.R. ha mentilo (oppure, per voi) S.R. ha mentito? Perché penso a P.? è affidabile la prova che io mi trovavo a quell’ora nel luogo del crimine? Se cosi è, che cosa dire dei miei ricordi? Sono affidabili? Ci sono prove che condannano P. o un’altra persona?”.
Ritiene questa Corte, però, che non vi siano elementi obiettivamente rilevanti per ritenere che K.A.M., allorché rilasciò le dichiarazioni spontanee e scritto il memoriale, si sia trovata non solo in una situazione di notevole pressione psicologica e stress ma addirittura in condizione di non intendere o volere, cosicché, avendo accusato di un delitto tanto grave persona che ella sapeva innocente, deve comunque rispondere del delitto di calunnia, ad integrare il quale, sotto il profilo psicologico, non è necessaria una finalità specifica ed in particolare quella di conseguire la propria impunità (circostanza aggravante contestata), essendo, invece, sufficiente il dolo generico e, dunque, anche la mera finalità di uscire da una situazione personale particolarmente opprimente.
Secondo l’ipotesi accusatoria vi sarebbe contraddizione tra il ritenere K.A.M. colpevole del delitto di calunnia e l’assolverla dagli altri delitti dal momento che – così argomenta – K.A.M. poteva sapere che D.L. era innocente del delitto di omicidio soltanto perché ella aveva partecipato al delitto e, dunque, era a conoscenza dei veri autori del medesimo: se non avesse partecipato al delitto o non fosse stata comunque presente al momento dell’omicidio nella casa di Via (omissis), non avrebbe potuto sapere che D.L. era innocente.
Tale argomentazione non può essere condivisa: le circostanze nelle quali era venuto fuori, nel corso dell’interrogatorio da parte della Polizia, il nome di D.L. (messaggio diretto a lui rilevato dal cellulare di K.A.M.) e la mancanza di elementi di collegamento tra D.L. e K.M. consentivano ad K.A.M., pure se effettivamente innocente ella stessa e lontana dalla casa di Via (omissis) al momento del delitto, di essere consapevole della totale estraneità di D.L. e, dunque, della calunnia che ella andava commettendo indicandolo come autore dell’omicidio.
Nessuna contraddizione, dunque, nel ritenerla colpevole del reato di calunnia e, tuttavia, nell’escludere l’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p..
Tenuti presenti i criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. e riconosciute, per le considerazioni già spiegate dalla Corte di Assise di primo grado (mancanza di precedenti penali, giovane età, impegno nella vita scolastica ecc.), le attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante di cui all’art. 368, secondo comma, c.p., in considerazione della particolare gravità del delitto oggetto della calunnia, è equo determinare la pena per il delitto di calunnia in anni tre di reclusione.
Rimangono dunque ferme le statuizioni di carattere civile concernenti tale reato e consegue la condanna dell’imputata al pagamento delle spese processuali sostenute nel presente grado da P. D.L..
Riassumendo, sussiste il delitto di calunnia ma, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p., la consumazione del delitto di calunnia non può essere considerata tra gli elementi a carico di K.A.M. nel decidere in ordine agli altri reati contestati.
Dichiarazioni di R.H.G.
Per quanto possa sorprendere, R.H.G. non è stato mai interrogato nell’ambito del presente processo circa i fatti verificatisi la notte tra il 1° ed il 2 novembre 2007 in via (omissis): ne prima ai sensi dell’art. 210 c.p.p., né successivamente ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p. cosicché, a prescindere dalla attendibilità o meno del medesimo, non sussistono dichiarazioni rese in tale veste aventi per oggetto i fatti principali del processo.
La prima volta che R.H.G. è comparso dinanzi alla Corte di Assise nell’ambito del processo penale a carico di K.A.M. e S.R. è stato soltanto allorché, avendo la difesa degli imputati visto ammettere da questa Corte come testi M.A. ed altri detenuti, in ordine a quanto loro riferito in carcere da R.H.G. circa l’estraneità dei due attuali imputati alla consumazione dei delitti dei quali sono chiamati a rispondere, la sua audizione è stata richiesta dal P.G., a prova contraria, su tali asserite confidenze. Il P.G., vale a dire, non ha chiesto l’ammissione di R.H.G. affinché rispondesse sui fatti di quella notte (se era solo oppure insieme agli attuali imputati o con altri, quali sia stato il reale evolversi della vicenda nei suoi particolari ecc..) ma soltanto per provare che egli non aveva fatto a M.A. e agli altri compagni di detenzione alcuna confidenza.
Nonostante l’ammissione in qualità di teste di R.H.G. limitatamente a tali fatti (asserite confidenze in carcere), i difensori degli imputati hanno tentato, stante la presenza finalmente in udienza (udienza del 27.6.2011) dinanzi alla Corte ed agli stessi imputati di R.H.G., di porre delle domande direttamente in ordine ai fatti di quella notte e non solo in merito alle asserite confidenze ai compagni di detenzione.
Ma, in realtà, prima ancora che lo stesso R.H.G. asserisse di non voler rispondere sui fatti di quella notte, il difensore che assisteva il predetto, avv. S., ed il P.G. (anche se, avendo parlato fuori microfono, le sue parole non risultano dalle trascrizioni), al quale si è associato sostanzialmente l’avvocato di parte civile M. ricordando i limiti del controesame si sono opposti a che venissero formulate domande concernenti direttamente i fatti accaduti quella notte anziché i meri rapporti intrattenuti con M.A. e gli altri detenuti, chiamati a deporre (C., D.C., T.).
è sufficiente riportare uno stralcio delle trascrizioni per rendersi conto di tutto ciò: “…DIFESA AVV. B. – Presidente, c’è a da dire una cosa, che siccome abbiamo appena sentito dare lettura, è stata data lettura di una lettera in cui esplicitamente accusa il mio assistito e K.A.M., io sono in controprova, credo sia mio diritto almeno dire al signor R.H.G., dopo anni che lo inseguiamo, se ci vuole raccontare la verità di questo omicidio” TESTE – Posso rispondere? Allora, da come è stata letta la lettera io penso di essere qui oggi per rispondere come procedimento penale alle dichiarazioni, le false dichiarazioni del M.A. e dunque, come è scritto nella lettera, tutto quello che dovevo dire io l’ho già detto ai Giudici, ai Pubblici Ministeri, ai miei legali, dunque non intendo rispondere su questo argomento…. PROCURATORE GENERALE …posso fare una sola precisazione? Il teste ha detto subito che non intendeva rispondere a domande attinenti l’omicidio, è inutile che la difesa continui a tentare sperando che si possa distrarre su questa decisione…”.
Ma, allora, eventuali dichiarazioni rese da R.H.G. sui fatti di quella notte non potrebbero essere utilizzate nei confronti degli attuali imputati, stante il principio di cui all’art. 111, comma 3, della Costituzione (facoltà della persona accusata di un reato di interrogare davanti al giudice o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico) ed il divieto posto dallo stesso art. 111, comma 4, della Costituzione e dall’art. 526, comma 1 bis c.p.p. (la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore). E, sotto questo profilo, devono ritenersi comprese nell’ambito del divieto suddetto anche dichiarazioni contenute in una lettera, sottoscritta dal soggetto che dichiara di non voler rispondere a domande, da parte dell’imputato o del suo difensore, su fatti in tale lettera rappresentati, rispondendo tale divieto alla medesima esigenza difensiva, tutelata dalla norma e garantita costituzionalmente. Ma in ogni caso, a prescindere dall’ostacolo formale, va osservato, sotto il profilo sostanziale, che, per confermare che R.H.G. non aveva fatto ad M.A. ed agli altri detenuti alcuna confidenza, il P.G. ha chiesto a R.H.G. se confermava di avere scritto lui una lettera, nella quale vengono indicati come autori del delitto proprio gli attuali imputati, ed è altresì vero che R.H.G. lo ha confermato, spiegando di avere scritto quella lettera come reazione alle divulgazioni circa le asserite – e a suo dire insussistenti – confidenze fatte in carcere ad M.A. ed agli altri.
Ma, a parte la considerazione che confermare una lettera scritta ai propri difensori non equivale certo a rispondere a delle domande precise sui fatti di causa, va osservato che dalle risposte, date in udienza da R.H.G., risulta che egli non ha indicato in K.A.M. e S.R. i responsabili del delitto per averli personalmente visti nell’atto di commetterlo, ma solo perché questo è ed è sempre stato un suo pensiero. Così testualmente, come risulta dalle trascrizioni: “…DIFESA AVV. D.V. – E quindi, signor R.H.G., quando lei testualmente scrive che è stato “un orribile assassinio di una splendida meravigliosa ragazza quale era K.M. da parte di S.R. e K.A.M.” che cosa vuole dire esattamente? Lei lo aveva mai detto questo? TESTE – Allora io questa, esplicitamente in questa maniera non l’ho mai detto però l’ho sempre pensato.
DIFESA AVV. D.V. – Allora perché l’ha scritto? TESTE – L’ho scritto perché era un pensiero che è sempre stato dentro di me. DIFESA AVV. D.V. – Ma quindi non è vero. TESTE – No è verissimo.
DIFESA AVV. D.V. – E cioè può elaborare meglio? Che vuol dire? TESTE – È verissimo.
DIFESA AVV. D.V. – Lei conferma questa circostanza? Da parte? TESTE – Allora, io con i… allora, come le ho detto prima, questo è un pensiero che è stato sempre nella mia testa, è un pensiero che comunque alla fine ho deciso di mettere per iscritto sentendo determinate assurdità, secondo me e mi assumo tutte le responsabilità sentendo un burattino manovrato da determinate persone, tutto qui. Dunque se ho scritto quelle parole è perché sono, le ho sempre avute dentro di me. Non sta a me decidere chi è che ha ucciso K.M., io nella dichiarazione che ho fatto nel mio processo ho sempre detto chi c’era in quella maledetta notte in quella casa, dunque penso che non sto dicendo niente di nuovo, ho solamente messo per iscritto i miei pensieri e li ho resi concreti, tutto qui. Dunque non trovo su che altra domanda devo rispondere…”.
Quindi, anche sotto il profilo sostanziale, la indicazione di responsabilità contenuta nella lettera acquisita non rappresenta il risultato della esposizione in modo circostanziato di una vicenda concreta, constatata dal sottoscrittore e riferita nei suoi particolari, ma soltanto l’espressione di una convinzione personale, basata su quali elementi non è dato sapere, stante nel presente processo l’assenza di dichiarazioni da parte di R.H.G..
Ma, del resto, la Corte di Assise nella sentenza del 22.12.2009 ha affermato di non poter accettare la ricostruzione della vicenda operata in quel processo da R.H.G. perché “… – così testualmente – tra le mezze verità a formazione progressiva uscite dalla bocca dell’imputato, i suoi racconti sono stati spesso infarciti di bugie surreali, mentendo anche su minimi particolari (ad esempio, nell’interrogatorio davanti al P.M. nega di essere conosciuto con il soprannome di barone, quanto all’amico B., nella conversazione via Skype, pag. 83 trascr., aveva spiegato che i ragazzi del basket lo chiamavano il barone per la sua somiglianza con il giocatore Barron Davis), tanto da risultarne una versione del tutto incompatibile con la realtà dei fatti come percepiti ed ascoltati…”.
Anche la Corte di Assise di Appello che ha giudicato R.H.G., dunque, pur pervenendo a conclusione diversa circa il concorso con K.A.M. e S.R. (estranei, comunque, a quel giudizio) ha ritenuto R.H.G. soggetto inattendibile, e questa patente di inattendibilità può essergli confermata alla luce della condotta tenuta nel presente processo, dove conferma di avere scritto la lettera, nella quale ha indicato K.A.M. e S.R. come autori del delitto e, tuttavia, in modo del tutto ambiguo: anziché fornire particolari, si rifiuta di rispondere sui fatti di quella notte, affermando che quello è stato sempre il suo pensiero e che “… non spetta comunque a me decidere chi ha ucciso K.M.”.
Tra gli elementi a carico dei due imputati non può essere, pertanto, ricompresa, perché inattendibile, la deposizione resa all’udienza del 27.6.2011 da R.H.G. né il contenuto della lettera da lui scritta ed inviata ai suoi legali.
Al contrario, può essere considerato a favore dei due imputati il contenuto della chat tra R.H.G. ed il suo amico B. il giorno 19.11.2007, ascoltata anche dalla Polizia.
Circa la utilizzazione della trascrizione di tale chat, ascoltata dalla Polizia con l’accordo dell’amico di R.H.G., B., va osservato che trattasi di documento acquisito agli atti con il consenso di tutte le parti e non contrastante con alcuna norma di diritto positivo, così come rilevato dalla Corte di Assise di Appello che ha giudicato R.H.G., tanto più che nel caso in esame non si tratta di dichiarazioni da utilizzare contro colui dal quale provengono, raccolte in ipotesi in violazione delle garanzie difensive, ma, al contrario, di dichiarazioni da utilizzare a favore dei due attuali imputati e provenienti da un terzo, cosicché non potrebbe aver rilievo la violazione di una garanzia difensiva concernente il terzo, assumendo rilevanza il contenuto della chat, per quanto concerne i due attuali imputati, come mero fatto storico e non come mezzo di indagine.
Ebbene, nel corso di tale chat con l’amico, allorché si trovava ancora all’estero, ove era fuggito dopo il fatto, R.H.G. non indica in alcun modo K.A.M. e S.R. come autori del delitto. E in quel momento, sia perche si trovava all’estero, e dunque in un certo qual modo al sicuro, sia perché era convinto di interloquire soltanto con un suo amico, l’unico forse davvero amico, non avrebbe avuto alcun motivo per tacere una circostanza del genere. Il che induce a ritenere, essendo egli, al contrario, certamente autore, da solo o in concorso con altri (qui non importa), dei delitti consumati in via (omissis), che se avessero partecipato anche K.A.M. e S.R., egli lo avrebbe in quel momento rivelato all’amico.
Né si può ritenere che il tacere una circostanza del genere, pure in ipotesi vera, avrebbe potuto trovare ragione nella esigenza di allontanare da costoro i sospetti per tentare di non essere anch’egli coinvolto, dal momento che, essendo a conoscenza che in quel momento costoro erano stati già arrestati, non avrebbe avuto motivo di coltivare la speranza che, tacendo egli tale circostanza nella conversazione con l’amico, potesse in qualche modo mutare la situazione processuale degli altri due e, quindi, favorire la propria personale situazione, avendo ragione, al contrario, di temere che costoro, se effettivamente presenti con lui in Via (omissis), avrebbero potuto, essendo stati ormai arrestati, accusare lui e lui soltanto della consumazione dei delitti per tentare di scagionarsi, magari riconoscendo la loro presenza in quella casa e tuttavia la loro estraneità alla consumazione dei delitti. Con la conseguenza che egli avrebbe avuto interesse di attribuire a costoro, già nella chat con l’amico, la responsabilità per quanto accaduto in via (omissis): ecco perché il R.H.G. della chat appare maggiormente credibile ed ecco perché il non avere R.H.G. attribuito a costoro, nella chat, la responsabilità per l’omicidio rappresenta un elemento di una certa consistenza a favore degli attuali imputati.
In tale chat, inoltre, R.H.G. afferma di essere stato in Via (omissis) tra le 21 e le 21,30; il che, anticipando di molto l’ora della morte di K.M. rispetto a quella ritenuta nella sentenza appellata, non si concilia con l’ipotesi accusatoria nei confronti degli attuali imputati che, anche a volere ritenere attendibili alcuni elementi portati dall’accusa a sostegno della propria ipotesi, a quell’ora si trovavano certamente a casa di S.R. e non in Via (omissis). Anche su tale punto R.H.G., nonostante la sua tendenza a mentire, non avrebbe avuto alcun motivo di farlo: una volta confessato all’amico che era comunque presente nella casa di Via (omissis) al momento del delitto, sia pure non essendone egli responsabile, non aveva alcuna esigenza di anticipare l’ora della consumazione alle 21/21,30.
Sono, invece, le dichiarazioni successive rese da R.H.G. (nel presente processo, comunque, non utilizzabili per le ragioni svolte) ad apparire meno credibili, in quanto rese in un contesto diverso da quello delle prime confidenze ad un amico, quando strategie difensive o anche mero desiderio di rivalsa sociale potevano indurlo a rappresentare circostanze diverse da quelle realmente vissute. Deposizioni testimoniali di M.A., A., C., D.C., T.
Tali persone, tutte attualmente detenute a vario titolo, sono state chiamate a deporre: l’M.A. su quanto affermato di sua diretta conoscenza circa la morte di K.M.; gli altri sulle confidenze che avrebbe loro fatto ili carcere R.H.G. circa la estraneità di K.A.M. e S.R. alla consumazione del crimine.
Questa Corte ha chiamato a deporre tali persone, su richiesta dei difensori degli imputati, nella profonda convinzione che non fosse possibile a priori, prima di avere ascoltato costoro, escluderne la attendibilità soltanto in considerazione della loro personalità e dell’essere essi stessi detenuti per gravi delitti.
Ora, a posteriori, l’audizione di costoro induce la Corte a ritenerli tutti non attendibili: l’M.A. per la mancanza di qualsiasi riscontro obiettivo (così come emerge anche dalla deposizione del funzionario di Polizia dott. C.); gli altri per non essere emersi elementi indicativi di un rapporto di amicizia, sorto in carcere tra costoro e R.H.G., tale da rendere verosimile una confidenza, da parte di costui, circa il reale svolgimento della vicenda.
La ritenuta inattendibilità esonera dal convocare di nuovo il teste M.A. – come richiesto dal P.G. – al fine di consentire una ritrattazione, già effettuata direttamente al P.M.. dal momento che risulterebbe ai fini del presente processo del tutto irrilevante.
Se tali deposizioni non si risolvono in elementi di prova favorevoli agli attuali imputati, non possono, però, assumere – come invece argomentato dall’accusa – neanche valore indiziario a loro carico. Che detti testi si siano determinati a riferire circostanze, in ipotesi favorevoli agli imputati, spontaneamente o sollecitati da altri non rileva; certo è che non vi è alcun elemento per affermare che siano stati gli attuali imputati, arrestati pochissimi giorni dopo l’accaduto e, dunque, da anni ristretti in carcere, a ordire un disegno del genere, cosicché la inattendibilità di tali testi non può essere considerata una riprova della asserita falsità dell’alibi fornito dagli imputati.
Cu.
La presenza di K.A.M. e S.R. in Piazza (omissis), tra le ore 21,30 e le ore 23,30 del 1° novembre, rappresenta – secondo l’ipolesi accusatoria – un elemento indiziario a loro carico in quanto rivelatore della falsità dell’alibi fornito (essere rimasti a casa di S.R.) e dunque, attraverso la falsità dell’alibi, della loro colpevolezza in ordine ai delitti contestasti. In verità si tratterebbe, anche se in ipotesi circostanza vera, di un elemento indiziario debole, in quanto di per sé solo non idoneo a provare neanche presuntivamente la colpevolezza, dal momento che la falsità dell’alibi, sebbene certamente utilizzabile quale elemento indiziario, non è certo da sola sufficiente a provare la colpevolezza, potendo trovare spiegazione anche in altri fini e moventi. Quale potrebbe essere il timore di non venire creduti pur essendo innocenti: nel caso in esame, per esempio, se vi fosse stata presenza all’interno della casa di Via (omissis) e tuttavia estraneità alla commissione del delitto.
La condanna per il delitto contestato non può, ovviamente, rappresentare una sanzione per la sola falsità dell’alibi dovendo, al contrario, essere il risultato di una dimostrazione di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, mediante prove certe o anche mediante un complesso di indizi, nell’ambito dei quali la falsità dell’alibi può assumere un proprio momento ma neanche quello più importante.
La circostanza della falsità dell’alibi, anche se in ipotesi vera, perderebbe, poi, qualsiasi rilevanza laddove l’ora della morte (il cui accertamento ha rappresentato un problema davvero complesso sotto il profilo medicolegale) dovesse essere individuata tra le 21 e le 21,30 (tempo in cui anche secondo l’accusa è certo che i due giovani si trovavano a casa di S.R.) o anche semplicemente prima delle 23.30, avendo il Cu. attestato la presenza dei giovani in Piazza (omissis) in quell’arco di tempo.
Ma questa non è affatto certa.
La presenza di K.A.M. e S.R. in Piazza (omissis) tra le ore 21.30 e ore 23,30 del 1° novembre è stata, infatti, riferita dal solo teste Cu., della cui attendibilità questa Corte dubita moltissimo per le seguenti considerazioni.
In primo luogo, il decadimento delle facoltà intellettive di lui, rivelato dalle risposte rese dinanzi a questa Corte nel corso della sua audizione (udienza del 26.3.2011 ) e derivante dal tipo di vita e dalle sue abitudini.
Si tratta di un barbone, che all’epoca viveva per strada mentre oggi è detenuto in espiazione di pena per spaccio di sostanza stupefacente e che, interrogato sul perché avesse scelto quel tipo di vita (talvolta, infatti, tale scelta è motivata da ragioni ideali), ha risposto: Omissis Però – osserva la Corte – questa spinta ideale a seguire l’esempio di Gesù (testualmente “omissis”).
Né gli ha impedito di vendere sostanze stupefacenti e neanche di fame uso egli stesso, tanto che, interrogato sul punto, ha risposto: “…io ho sempre fatto uso di droghe” ed alla domanda “anche nel 2007? “sì” e sul tipo di droga “…ho usato eroina” aggiungendo subito dopo “tengo a precisare che l’eroina non e un allucinogeno..”.
Oggi sostiene di non fare più uso di droga anche perché – come ricordato – è detenuto in espiazione di pena ma, richiesto di precisare se sappia di essere detenuto per una condanna definitiva, ha così risposto: “omissis”.
Ora, non può essere escluso in assoluto che una persona del genere, che tende ad ammantare di un valore ideale la propria scelta di vita (anarchico cristiano) pur assumendo eroina e soprattutto facendone spaccio, e che è così confuso da non sapere neanche se si trova in carcere in esecuzione di una condanna definitiva o meno, possa, tuttavia, avere riferito, in qualità di teste, circostanze realmente percepite e possa avere riconosciuto nei due attuali imputati i giovani visti quella sera a Piazza (omissis). Ma, certo, nel valutare la attendibilità o meno del teste occorre procedere con particolare cautela, attese le condizioni personali evidenziate. Il Cu., interrogato all’udienza del 28.3.2009 (nella istruttoria dibattimentale di primo grado), ha riferito di avere visto gli attuali imputati soffermarsi in Piazza (omissis), intenti a discutere tra loro, tra le 21,30, allorché si era portato a Piazza (omissis), e “ prima di mezzanotte”, quando, partiti gli autobus (una decina di minuti dopo), che portavano i ragazzi nelle discoteche, si allontanò pure lui per andare a dormire nel parco.
A fronte delle domande e delle contestazioni del P.M. le indicazioni orarie sono state, poi, rimodulate in modo meno preciso – 21,30 22/23,30 – ma in realtà, mentre il dato iniziale è stato dal teste spiegato in base alla presenza (evidentemente al controllo) dell’orologio sito in Piazza (omissis) ed a quello in suo possesso, il dato finale è stato sempre ancorato alla partenza degli autobus da Piazza (omissis) per le discoteche (gli orari della partenza degli autobus risultano: tra le 23 e le 23.30, così teste Br. udienza del 26.3.2011; tra le 23,15 e le 23.30, teste Pu. udienza del 12.3.2011; tra le 23.30 e mezzanotte, testi Be. ed I.G. udienza del 12.3.2011, particolarmente attendibili in quanto titolari delle linee di autobus che svolgevano il servizio navetta per le discoteche). Cosicché non v’è dubbio che – secondo quanto riferito dal teste Cu. – egli vide i due giovani quanto meno fino a dopo le 23.30.
Il problema principale, però, è sul giorno in cui – stando sempre alla sua versione – il teste vide i due giovani: il 31 ottobre o il 1 Novembre? Egli non ha indicato il giorno con riferimento al calendario (31 ottobre o 1 novembre) ma ha accompagnato quanto riferito circa i due giovani dalla rappresentazione di circostanze che potrebbero consentire di determinarlo, Ha, infatti, dichiarato che la sera che vide i due giovani c’erano molte maschere, giovani che facevano scherzi, c’era “un casino” (così testualmente all’udienza del 28.3.2009 “…C’era altra gente comunque che faceva un pò casino, era un periodo di Festa…”) ed ancora ha ribadito la presenza di maschere, di giovani che facevano scherzi e “casino” all’udienza del 26.3.2011 dinanzi a questa Corte (ed infatti ha risposto affermativamente alla domanda dell’avv. B., formulata proprio in questi termini) ed ha anche ricordato (sia all’udienza del 28.3.2009 sia dinanzi a questa Corte all’udienza del 26.3.2011) che vi erano gli autobus che portavano i giovani nelle discoteche, tanto che ha ancorato la sua permanenza in Piazza (omissis) fino a circa dieci minuti dopo la partenza di tali autobus, in orario indicato sempre come 23.30 – mezzanotte.
Secondo la difesa degli imputati tali circostanze (a prescindere dall’essere o meno i due giovani visti dal teste proprio gli attuali imputati) proverebbero che il giorno, in cui il teste vide quanto riferito, era il 31 ottobre e non il 1 novembre, considerato che le maschere erano indossate per celebrare la festa di Halloween, che cade appunto nella notte tra il 31 ottobre ed il 1 novembre e non nella notte tra il 1 novembre ed il 2 novembre; e considerato, ancora, che gli autobus per le discoteche non potevano che essere presenti la sera del 31 ottobre e non quella successiva. Infatti, praticamente tutte le discoteche, aperte tutta la notte tra il 31 ottobre ed il 1 novembre proprio perché ricorreva la festa di Halloween, rimasero comprensibilmente chiuse la sera successiva, la notte tra il 1 novembre ed il 2 novembre, per la prevedibile mancanza di avventori il giorno immediatamente successivo a quello della festa. Secondo la P.G. e la parte civile (ed anche secondo la Corte di Assise di Primo grado) invece, poiché il teste ha anche affermato, sia nella udienza del 28.3.2009 sia dinanzi a questa Corte all’udienza del 26.3.2011, che il giorno successivo alla sera in cui vide i due giovani a Piazza (omissis) era rimasto colpito dal via vai presso Via (omissis) dei Carabinieri e di uomini vestiti di bianco, che gli sembrarono dei “Marziani”, (evidentemente gli operatori della Polizia Scientifica con indosso le tute), la sera in cui vide i due giovani doveva essere necessariamente quella del 1 novembre, antecedente al sopralluogo della Polizia Scientifica sul luogo del delitto, avvenuto lo stesso giorno del rinvenimento del cadavere (2 novembre). Infatti, un avvenimento insolito come il via vai di Carabinieri e Polizia Scientifica era tale da rimanere sicuramente impresso nella mente del Cu. e, comunque, sempre secondo P.G. e parte civile, non è vero che tutte le discoteche rimasero chiuse la sera del 1 novembre 2007 e che non vi furono autobus per portare i giovani in discoteca.
Ora, però, tutti i gestori delle maggiori discoteche (Red Zone, Etoile, Gradisca), chiamati a deporre dinanzi a questa Corte (Br. udienza del 26.3.2011; Ma. udienza del 12.3.2011; Pu. udienza del 12.3.2011) hanno confermato che, in effetti, le discoteche rimasero aperte la notte tra il 31 ottobre ed il 1 novembre 2007, proprio perché si festeggiava Halloween, e non anche la notte successiva, perché non sarebbe stato commercialmente conveniente, e che, conseguentemente, gli autobus, che portavano i giovani nelle discoteche prelevandoli da Piazza (omissis), furono in funzione quella notte e non quella successiva. Anche i titolari di due linee di autobus (Be., I.G. e I.R. udienza del 12.3.2011) hanno confermato tale circostanza.
Che le maggiori discoteche, le uniche, sostanzialmente, che avevano apprestato servizi navetta anche per la loro collocazione lontana dal centro storico, siano rimaste chiuse risulta anche dalla deposizione del funzionario della Siae, Ci. (udienza del 12.3.2011), mentre l’apertura di discoteche di minore importanza, site nel centro di Perugia e perciò non necessitanti di servizio navetta, comunque dalle stesse non allestito, risulta dalla deposizione della dott. Na. e del funzionario della Siae.
Ora, però, che alcune piccole discoteche del centro fossero aperte anche la sera del 1 novembre poco conta, essendo comunque certo che erano chiuse quelle più grandi, lontano dal centro, alle quali soltanto era collegato il servizio effettuato dagli autobus; considerato, oltre tutto, che si trattava di autobus grandi, idonei a trasportare almeno 50 persone per volta (così teste Be. udienza del 12.3.2011) e, quindi, chiaramente destinati a raggiungere le grandi discoteche lontano dal centro. E poiché la circostanza riferita dal Cu. (partenza degli autobus che trasportavano i giovani) è tale, anche per il modo in cui è stata rappresentata (vi era “un casino”), da escludere la possibilità di riferirla ad una unica e più modesta navetta, si deve concludere, logicamente, che il suo racconto, circa il contesto nel quale vide i due giovani in Piazza (omissis), si riferisce proprio alla sera del 31 ottobre e non a quella del 1 novembre. Il P.G. però, ha argomentato che in Perugia le discoteche erano solite organizzare i cosiddetti “giovedì degli studenti” e che, essendo appunto il 1 novembre giovedì, poteva essere accaduto che fossero presenti quella sera molti giovani e anche degli autobus per effettuare il servizio navetta. Ma, in realtà, non vi è alcuna prova che tali “giovedì degli studenti” (il cui scopo era di dare una motivazione, in settimane che diversamente non avrebbero offerto alcuno spunto, per festeggiare in discoteca) venissero organizzati nell’anno 2007 e, soprattutto, a fronte delle deposizioni rese dai gestori delle discoteche e dai titolari delle linee che gestivano i servizi navetta (tutte persone della cui attendibilità non vi è ragione di dubitare), si deve ritenere che questi giovedì sera studenteschi fossero comunque superati da una festa ormai così radicata anche nel nostro Paese, quale Halloween. Non vi era, dunque, ragione di celebrare anche quel giovedì, giorno successivo ad Halloween.
È, pertanto, evidente che la deposizione resa dal Cu. presenta due circostanze tra loro contraddittorie: l’avere visto i due giovani in Piazza (omissis) la sera precedente al sopralluogo della Polizia Scientifica ed avere però, al contempo, collocato l’episodio nel contesto della testa di Halloween e cioè la sera del 31 ottobre.
Meno significativo, al fine di collocare temporalmente l’episodio, il fatto che la pavimentazione della Piazza viene ricordata dal Cu. bagnata a causa della pulizia del mercato che si era tenuto, appunto, il 31 ottobre (essendo il giovedì festivo) e che, pertanto, sarebbe stata effettuata la mattina successiva.
A parte che non vi è prova che la pulizia del mercato sia stata effettuata il giovedì (anche perché era un giorno festivo), sembra difficile che il bagnato, derivante dalla pulizia della Piazza, si sia protratto per tutto il giorno; ed allora appare più probabile attribuirlo alla pioggia che sicuramente si era verificata, così come affermato anche dal P.M. dott. Mi. sulla base di deposizioni rese da alcuni testi (M.Z., dott. Na.). Anche se, evidentemente, la sera la pioggia era ormai cessata a Piazza (omissis), pur continuando a piovere nei pressi della facoltà di ingegneria, essendo i due luoghi tra loro più distanti di quanto, in linea d’aria, disti Piazza (omissis) dall’aeroporto di S. Egidio, ove secondo i dati meteorologici quel giorno non aveva piovuto.
È opportuno riportare le parole del teste Z. nella deposizione resa all’udienza del 6.2.2009, che testualmente così ebbe a rispondere alla domanda se piovesse o no la sera del 31 ottobre: “… io mi ricordo che pioveva quando sono partito da ingegneria per andare a casa di F. e K.M. Era abbastanza intensa, la pioggia, non mi ricordo altro…”.
Dunque, ricorda la pioggia al momento di partire dalla facoltà di ingegneria e non anche quando, dopo cena, uscirono dalla casa di via (omissis), egli, F. e gli altri amici, per andare al cinema, quando è logico ritenere che, se avesse piovuto anche in quel momento, se lo sarebbe ricordato.
Dalla deposizione di Za. non può, pertanto, trarsi la prova di una pioggia in atto in piazza (omissis), vicina a Via (omissis), tale da non consentire al Cu. di fermarsi sulla panchina ed ai due giovani, visti dal Cu., di intrattenersi a discutere.
Quello che, comunque, si evince è una grande confusione nel ricordo del teste.
In verità lo stesso P.G. dott. C., pur ribadendo che, ai fini della collocazione temporale dell’episodio, ciò che rileva è il collegamento con il sopralluogo della Polizia Scientifica, ha riconosciuto che il Cu. ha sovrapposto i due giorni (31 ottobre e 1 novembre) (così testualmente nella sua requisitoria del 23.9.2011 “…È quindi evidente che il Clochard ha sovrapposto i due eventi, la notte di Halloween e l’avvistamento degli imputati…” ed anche il P.M. dott. M., pur evidenziando anch’egli la rilevanza – a suo dire determinante – del collegamento con l’avvistamento, il giorno dopo, della Polizia Scientifica, ha ammesso che per il Cu. il tempo ha un valore molto relativo (così testualmente nella sua replica del 30.9.2011 “… È chiaro che questo barbone, per questo barbone il tempo è chiaro che questo non ha lo stesso significato che per noi, questo è chiaro…”.
Ma allora – si domanda questa Corte – come si fa a dire davvero con certezza che il ricordo si riferisce al 1 novembre e non al 31 dicembre? Ma, soprattutto, come si fa a sostenere che le capacità mnemoniche del Cu. siano tali da consentirgli di ricordare davvero l’episodio nel suo svolgimento e addirittura di ricordare che si trattava proprio dei due attuali imputati? Né a superare i dubbi notevoli sulla sua attendibilità valgono le deposizioni rese da altri testi circa l’effettiva abitualità del Cu. in Piazza (omissis), perché tale abitualità, da nessuno posta in dubbio, non fa venire meno le lacune e contraddizioni evidenziate.
Del resto, una volta ritenuto che la realtà circostante era quella del 31 ottobre e non del 1 novembre, sembrerebbe più logico riportare l’avvistamento dei due giovani a quel contesto, e dunque al 31 ottobre, proprio perché contemporaneo all’avvistamento, piuttosto che al giorno successivo, in quanto precedente si al sopraggiungere della Polizia Scientifica, ma in questo modo necessariamente estrapolato dal contesto.
Non ritiene, dunque, questa Corte attendibile la deposizione resa da teste Cu., non potendo essere riposto alcun affidamento sulla verificazione dell’episodio e, soprattutto, sulla identificazione dei due giovani con gli attuali imputati.
Q.
Uno degli elementi sui quali la Corte di Assise di primo grado ha basato la propria convinzione di colpevolezza è rappresentato dalla deposizione resa dal teste Q., titolare di un esercizio di generi alimentari sito in Corso (omissis), non lontano dalla casa di S.R. ma anche a pochi minuti da Via (omissis): questi, infatti, ha affermato di avere visto la mattina presto del 2 novembre una giovane entrare nel suo esercizio, dopo averne atteso addirittura l’apertura, successivamente da lui riconosciuta in K.A.M.. A dire dell’accusa (e della Corte di Assise di primo grado) la circostanza dimostra che, contrariamente all’alibi fornito, ella non rimase a dormire a casa di S.R. fino a mattina tardi ma si recò presto nell’esercizio del Q., avendo urgenza di acquistare un detersivo idoneo a ripulire la casa di Via (omissis) delle tracce proprie e di S.R., prima che potesse intervenire la Polizia ad effettuare i rilievi, essendo inevitabile che, prima o poi, l’allarme circa l’accaduto sarebbe stato dato. In verità si tratterebbe, anche se in ipotesi circostanza vera, di un elemento indiziario debole, in quanto di per sé solo non idoneo a provare neanche presuntivamente la colpevolezza, ma in ogni caso ritiene questa Corte poco attendibile la deposizione del teste, soprattutto in ordine alla identificazione della mattiniera cliente con K.A.M.
Va, infatti, ricordato che il sig. Q., interrogato dalla Polizia in cerca di notizie utili nei giorni immediatamente successivi alla perpetrazione del delitto, quando ormai i giornali ed i media si occupavano su larga scala della vicenda, non riferì della ragazza che aveva atteso, proprio la mattina del 2 novembre, l’apertura dell’esercizio e che era poi entrata al suo interno, non appena egli aveva aperto al pubblico, recandosi nel reparto ove erano esposti i prodotti per l’igiene e per la casa (anche se poi – stando allo stesso Q. – era riuscita senza acquistare alcunché). Né egli si presentò nei giorni successivi o nei mesi successivi per riferire dell’accaduto. Egli si presentò, infatti, alla Polizia, in seguito a continue sollecitazioni di un giovane apprendista giornalista che abitava nei pressi del suo esercizio, soltanto un anno dopo, dichiarando di essersi convinto, grazie soprattutto al colore degli occhi (azzurri) e della carnagione (molto chiara), che la ragazza che era entrata nel suo esercizio quella mattina fosse proprio K.A.M.. Ora, che sia trascorso più di un anno prima che il Q. si presentasse alla Polizia non è affatto irrilevante ai fini di valutare l’attendibilità del teste, soprattutto sotto il profilo della genuinità del ricordo e della esattezza della identificazione.
Ed invero non si è trattato di un teste che si è presentato un anno dopo l’accadimento, oggetto della deposizione, soltanto perché venuto a conoscenza successivamente della rilevanza della deposizione né di un teste che ha maturato la volontà di presentarsi, al fine di riferire circostanze delle quali sapeva fin dall’inizio la rilevanza, avendo dovuto superare dentro di sé delle motivazioni personali che lo avevano dissuaso in precedenza dal presentarsi; no, si è trattato, invece, di un teste che – stando a quanto da lui stesso riferito – ha impiegato un anno per convincersi della esattezza della sua percezione e della identificazione con K.A.M. della ragazza vista, pur avendo potuto apprezzare, nei giorni immediatamente successivi all’accadimento, la rilevanza della sua deposizione.
Ed invero, dalla deposizione resa dall’ispettore V. all’udienza del 13.3.2009 risulta che furono mostrate al Q., così come alle sue dipendenti e ad altri esercenti della zona, le fotografie di S.R. ed K.A.M. e che venne chiesto loro, in particolare, di riferire circa un eventuale acquisto, da parte dei due, di prodotti per la pulizia, proprio perché si trattava di un punto oggetto di indagine. Non può, dunque, il Q. sostenere che non riferì all’ispettore V. quanto accaduto la mattina del 2 novembre nella convinzione che non si trattasse di circostanza rilevante.
Così testualmente dalle trascrizioni del verbale di udienza del 13.3.2009: “…DOMANDA – Lei ha svolto indagini sulla morte di K.M.? RISPOSTA – Sì.
DOMANDA – Si ricorda che tipo di accertamenti ha fatto? Prima ce li elenchi e poi descriva.
RISPOSTA – Praticamente il primo accertamento che ho svolto in merito a due flaconi di candeggina Ace che erano stati sequestrati a casa di S.R. in data 16 novembre del 2007. Subito dopo il sequestro mi recai in giro per i negozi limitrofi all’abitazione di S.R. cercando di capire da dove potessero essere stati acquistati e a tal proposito esibivo la fotografia di S.R., la fotografia di K.A.M..
Dopo alcuni giorni rintracciammo il negozio, che era un negozio Conad – Margherita sito subito all’inizio di Corso (omissis), dove sia il titolare che le commesse riconobbero nelle fotografie, che noi ponemmo in visione, S.R. ed K.A.M.. S.R. era cliente abituale di questo negozio, mentre la ragazza era stata vista due o tre volte in sua compagnia, DOMANDA – Insieme con S.R.? RISPOSTA – Sì, sì, in sua compagnia. In questo negozio chiedemmo anche se per caso avessero notato nei giorni immediatamente precedenti all’omicidio o subito dopo se ricordavano che queste persone avessero acquistato questo prodotto, però non ricordavano…” In ogni caso, essendo la vicenda ormai di pubblico dominio ed essendo stata arrestata K.A.M. già il 6 novembre 2007, egli aveva ragionevolmente motivo, già al momento della richiesta di informazioni da parte dell’ispettore V., di riferire detta circostanza.
Del resto le sue dipendenti, che si trovavano esse stesse all’interno dell’esercizio la mattina del 2 novembre 2007 e che, tuttavia, non notarono alcunché di particolare, hanno riferito che egli prospettò loro, nei giorni immediatamente successivi all’accadimento, i suoi dubbi circa la identificazione con K.A.M. della giovane vista entrare nel suo esercizio: egli non aveva espresso loro la certezza che si trattasse di lei ma soltanto l’eventualità.
Ma allora, come si fa a ritenere che questa certezza, che non c’era nei giorni immediatamente successivi, quando il ricordo poteva essere più agevole e genuino, sia stata raggiunta nel corso dell’anno, quando ormai la continua rappresentazione della vicenda e dei suoi protagonisti sui media e le sollecitazioni dell’apprendista giornalista, magari particolarmente esaltato dalla possibilità di uno scoop, potevano davvero avere compromesso in qualche modo la genuinità del ricordo, radicando una convinzione che la percezione diretta dell’accadimento non aveva potuto radicare? O meglio, la certezza è stata sicuramente raggiunta a livello soggettivo, considerata la fermezza del Q. nel deporre dinanzi alla Corte di Assise di primo grado, ma come si fa a dire che essa sia basata su una corretta percezione dell’accadimento ed una esatta identificazione della ragazza vista entrare nell’esercizio? Ma questi dubbi sulla attendibilità della deposizione aumentano laddove si consideri che – secondo quando riferito dal Q. – egli ebbe modo di vedere la ragazza soltanto di sfuggita, dapprima soprattutto con la “coda dell’occhio” e poi più da vicino per pochi attimi, ma mai frontalmente (così testualmente all’udienza del 21.3.2009 “omissis”) e che il cappotto grigio che – a dire del teste – la ragazza indossava non risulta essere stato mai posseduto da K.A.M..
Il P.M. ha osservato che il teste potrebbe avere confuso un cappotto grigio con un maglione a righe bianche e nere, posseduto da K.A.M., ma si tratta di una mera congettura che non trova riscontro in nulla, essendo ben diversa la forma e la consistenza di un cappotto rispetto a quella di un maglione. Ma sembra ancora più singolare che K.A.M.. che secondo le argomentazioni del P.M. aveva urgenza di acquistare dei detersivi per ripulire l’abitazione di Via (omissis), tanto da attendere di primo mattino l’apertura dell’esercizio, sia entrata per recarsi nel reparto dove erano esposti i prodotti per l’igiene e la casa, certamente molto tornito, riuscendo, però, senza avere acquistato nulla. Il Q., infatti, afferma che la ragazza usci senza avere acquistato nulla. Così testualmente all’udienza del 21.3.2009:”… Se loro mi avessero domandato…anche perché ripeto, io quando la signorina è venuta nel mio negozio io non l’ho vista uscire con nessuna cosa, perché lei quando è passata, è ripassata, quando lei è uscita che io con la coda dell’occhio l’ho intravista che usciva, io non ho visto che lei avesse una busta o un qualcosa nelle mani. PRESIDENTE – Sta parlando della mattina del 2 novembre? RISPOSTA – Della mattina del 2 novembre. Non so se ha comprato qualche cosa, non lo so. La mia commessa non se lo ricorda se lei ha comprato qualche cosa. Io non sono in grado di stabilire se lei avesse comprato o meno nessuna cosa…”.
Che se poi si volesse sostenere che magari il Q. si sbaglia, perché ella, invece, acquistò dei prodotti, si avrebbe ragione di osservare che se il Q. si sbaglia su questo punto, come anche sugli indumenti indossati dalla ragazza, potrebbe sbagliare anche sulla identificazione della giovane con K.A.M..
In definitiva, la deposizione resa dal teste Q. non appare attendibile e, comunque, rappresenta un elemento indiziario debolissimo.
Ora della morte La Corte di Assise di primo grado ha riconosciuto la difficoltà di determinare esattamente l’ora della morte in base a criteri meramente medicolegali. Non essendo disponibili tutti i dati esatti, l’arco temporale, entro il quale collocare la morte di K.M. in base a tali criteri, rimane delimitato in modo molto ampio: tra le 21-21,30 del 1 novembre 2007 e le prime ore del 2 novembre 2007. Tuttavia, nel ricostruire lo svolgimento della vicenda la Corte di Assise di primo grado ha ritenuto di poter determinare l’ora del decesso in base ad altri elementi, in particolare al grido straziante, che sarebbe stato udito dalla teste C. e dalla teste M. proprio – a dire della Corte intorno alle 23.30.
In realtà la teste C. – come risulta chiaramente dalla lettura della trascrizione della deposizione resa all’udienza del 27.3.2009 – non è stata in grado di indicare un’ora esatta, non avendo controllato l’orologio (che in genere non controlla mai, come da lei dichiarato), ma ha fornito soltanto delle indicazioni molto approssimative, avendo affermato di essere andata a dormire alle 21 – 21,30 e di essersi svegliata circa due ore dopo per recarsi in bagno (l’intervallo di tempo, però, è stato indicato in un paio d’ore soltanto perché è quello consueto del suo risveglio notturno). Ed era stato proprio in quel frangente che aveva udito l’urlo al quale, dopo un pò, avevano fatto seguito il rumore di passi sulle scalette in ferro che conducono al parcheggio sottostante e lo scalpiccio sul vialetto dinanzi alla casa di Via (omissis). In realtà, la teste ha affermato di non essersi affacciata alla finestra per guardare che cosa stesse accadendo, ma di poter collocare la provenienza di quei rumori grazie alla sua precisa conoscenza dei luoghi.
A far dubitare della esattezza del ricordo sta la considerazione che la stessa teste ha affermato di avere appreso all’indomani, da alcuni giovani che passavano sotto casa sua mentre ella era intenta ad effettuare le pulizie, che nella notte una ragazza era stata uccisa nella casa di Via (omissis): non si comprende, infatti, come sia possibile che la notizia sia stata appresa in un momento in cui (mattina del 2 novembre 2007) il delitto non era stato ancora scoperto dalla Polizia. Questa Corte non ha, tuttavia, ragione di dubitare davvero della attendibilità della teste circa l’urlo ed i rumori sentiti nella notte, in considerazione della spontaneità e sicurezza dimostrate dalla stessa nel raccontarli, ma evidenzia, comunque, la estrema equivocità delle circostanze riferite quali elementi indiziari dell’ora della morte: sia per l’indeterminatezza dell’ora in cui la teste li udì, a fronte della rilevanza di una individuazione temporale precisa (mezz’ora più o mezz’ora meno non sono affatto indifferenti); sia perché non è affatto certa la fonte di quei rumori, atteso che altre volte la signora C. aveva sentito grida (anche se non strazianti come quello di quella notte) e rumori notturni, non essendo raro – come dichiarato dalla stessa teste – sentire schiamazzi, discussioni, via vai di gente in quella zona, perché a ridosso di un parcheggio e frequentata da giovani e “drogati”.
La Corte di Assise di primo grado ritiene, ancora, di poter determinare intorno alle 23.30 l’ora della morte perché quanto udito dalla signora C., in particolare il grido straziante, troverebbe riscontro nelle dichiarazioni rese dalla teste M., ascoltata anch’essa nella udienza del 27.3.2009.
Ma, in realtà, la lettura della trascrizione delle dichiarazioni di quest’ultima non offre alcun elemento per indicare nelle 23,30 piuttosto che nelle 23 o ancora prima il verificarsi del grido. La teste M., infatti, della attendibilità della quale non vi è motivo di dubitare – anche perché con grande sincerità ha ammesso di essersi presentata agli inquirenti circa un anno dopo soltanto perché ripetutamente spinta da un giovane apprendista giornalista (è il medesimo che indusse il Q. a presentarsi agli inquirenti, anch’egli un anno dopo) – ha spiegato che, andata a dormire alle 22 del 1 novembre, venne svegliata dopo un pò dal discutere ad alta voce di due persone, un uomo ed una donna, che parlavano in italiano, senza che potesse percepire particolari cadenze dialettali, ed ha aggiunto che poco dopo si sentì un forte grido di donna, del quale ella non sapeva però indicare con certezza la provenienza.
La teste non è stata più precisa sull’ora, non l’ha potuta ancorare a dati obiettivi ma tuttavia, nel primo verbale, allorché si presentò agli inquirenti (verbale dell’8.11.2008 utilizzato per la contestazione) aveva indicato “… verso le 23”.
Le dichiarazioni rese dalla teste M. accrescono dunque e non superano la equivocità, come elemento indiziario, delle dichiarazioni rese dalla tese C..
Infine la Corte di Assise di primo grado afferma che “…Di ciò, peraltro potrebbe costituire una qualche conferma la deposizione della teste Dr. che ha riferito di “passi di corsa” sentiti verso le 23,30 di quel medesimo 1° novembre in via (omissis) che si trova vicinissimo, quasi in prosecuzione del vialetto della casa di Via (omissis)…”. Sennonché la lettura integrale della trascrizione della deposizione (resa anch’essa all’udienza del 27.3.2009) evidenzia elementi ancora più incerti di quelli rappresentati dalle altre due testi. La Dr., infatti, ha riferito di essere andata a dormire intorno alle 23-23,30 e di essersi più tardi svegliata (senza poter però precisare quanto tempo dopo, pur non escludendo che fossero le 23,30) a causa del rumore di alcuni passi, rapidi, ma di non poter precisare né la direzione né se provocati da una o più persone ed ha anche osservato che tale situazione non è affatto infrequente che si verifichi in quei luoghi. Ecco perché ella si presentò agli inquirenti a distanza di un anno e soltanto perché spinta da un giovane apprendista giornalista (il medesimo che indusse gli altri testi): il fatto che una situazione del genere non fosse infrequente l’aveva evidentemente indotta a non dare particolare peso alla circostanza.
Ci troviamo, pertanto, dinanzi ad un elemento indiziario (urlo e rumore di passi) debolissimo per la sua equivocità, non potendolo neanche collocare con precisione sotto il profilo temporale.
Questa Corte condivide l’opinione della Corte di Assise di primo grado circa la impossibilità di determinare con più precisione, nell’ambito dell’arco di tempo compreso tra le 21-21,30 del 1 novembre 2007 e le prime ore del 2 novembre 2007, l’ora della morte in base a criteri meramente medicolegali, ma non ritiene che l’elemento rappresentato dall’urlo, udito dalla signora C. e dalla signora M., per l’equivocità del suo significato e per la impossibilità di collocarlo puntualmente nel tempo, possa essere privilegiato rispetto ad altri elementi che indurrebbero ad anticipare l’ora della morte di più di un’ora.
Il primo elemento è rappresentato da quanto riferito da R.H.G. all’amico B. nella chat del 19.11.2007, sulla utilizzabilità della quale nell’ambito di questo processo si è già trattato.
R.H.G., infatti, nel confidarsi con l’amico in un momento in cui non sapeva che la comunicazione veniva ascoltata anche dalla Polizia e nel parlare di un punto (ora dell’aggressione) in relazione al quale non aveva ragione di mentire, posto che stava affermando di essere presente in quel momento nella casa di Via (omissis) pur negando la propria responsabilità, indica un’ora compresa tra le 21 e le 21,30. Il che, pur considerando l’approssimazione della indicazione ed un eventuale errore nella rilevazione dell’orario da parte dello stesso R.H.G., non consente di ritenere che l’aggressione, e quindi la morte, sia avvenuta intorno alle 23, non potendo un eventuale errore o rilevazione approssimativa dell’orario comportare una differenza di quasi due ore tra l’orario indicato da R.H.G. e quello ritenuto dalla Corte di Assise di primo grado sulla base dell’urlo udito dalla C. (dalla C. e non anche della M. perché, in verità, come evidenziato sopra, la teste M. non ha dato una indicazione precisa del momento in cui si risvegliò, disturbata dal rumore di due persone che discutevano). In secondo luogo le chiamate, o i tentativi di chiamata, che risultano essere stati effettuati dal telefono cellulare di K.M. (quello che utilizzava per chiamare in Inghilterra) meritano di essere tenuti presenti nel problema della determinazione dell’ora della morte per alcune particolarità. Si tratta – come evidenziato dall’avv. B. nel corso della discussione, ma prima ancora dal consulente tecnico della difesa S.R. ing. P. di chiamate o tentativi di chiamata che, non avendo avuto risposta, non sono rintracciabili nei tabulati, che registrano le chiamate effettivamente intercorse, ma che sono stati rilevati dall’esame del cellulare. Ebbene, le ultime tracce sono le seguenti: 20.56 K.M. chiama casa sua in Inghilterra ma non ha risposta; 21.58 viene composto il numero 901, corrispondente alla segreteria telefonica, ma la chiamata viene interrotta, prima che finisca il messaggio di invito della segreteria stessa; poi, però, il telefono si blocca subito; 22.00 viene schiacciato un numero, che corrisponde ad una banca (è il primo numero della rubrica Ab.), ma non viene chiamato nessuno, anche perché non risulta digitato il necessario prefisso per l’estero; 22.13 viene registrata una connessione GPRS (a internet) della durata di 9 secondi all’indirizzo …, che potrebbe essere riferita alla ricezione di un messaggio multimediale, non necessitante di interazione umana o ad un accesso ad INTERNET, della durata, però, di 9 secondi, troppo breve per usufruire di qualsiasi servizio, il che potrebbe essere spiegato con una connessione involontaria o con una interruzione improvvisa.
Ora è chiaro che il tentativo di chiamata a casa l’ha effettuato proprio K.M. perché, comprensibilmente, voleva sentire la propria famiglia alla fine della giornata, prima di andare a dormire. Ma gli altri numeri non aveva ragione di tentare di chiamarli: il primo, 901, probabilmente la segreteria telefonica, non sarebbe spiegabile l’avere chiuso il contatto prima di entrare nella segreteria, perché tanto valeva non averla chiamata; il numero corrispondente alla banca (Ab.) non aveva certo ragione di digitarlo a quell’ora di notte e per di più senza anteporre il necessario prefisso; l’ultimo, ancora più incomprensibile se digitato per accedere davvero ad INTERNET, ma – come detto – potrebbe anche essere relativo alla ricezione di un mms.
Ma altra singolarità è che K.M., se, come ipotizzato nella sentenza appellata, venne aggredita soltanto un’ora più tardi, non abbia tentato di richiamare la propria famiglia dopo pochi minuti (se lo avesse fatto ne sarebbe risultata traccia nel cellulare).
Ebbene, l’avv. B. ha prospettato che dopo il tentativo di chiamare la propria famiglia si sia verificato un evento improvviso, si da non consentirle più di effettuarne un altro; e tale evento non potrebbe che essere l’aggressione subita. Diversamente, avremmo potuto trovare nel cellulare la registrazione del numero 901 digitato alle ore 21,58 ma non addirittura quello della banca digitato alle 22,00: il che fa ragionevolmente ipotizzare che sia stata un’altra persona, non pratica di quel cellulare, a digitare quel numero, più precisamente a digitare il primo nome della rubrica al quale era associato, magari nel tentativo di spegnere il cellulare anziché di utilizzarlo. Quanto all’ultima registrazione di traffico, quella delle 22,13, si è già osservato che avrebbe potuto trattarsi della ricezione di un mms, non necessitante di interazione umana, o di un accesso ad INTERNET, anch’esso effettuato per sbaglio presumibilmente da chi, non pratico di quel cellulare, ne era però venuto in possesso.
La Corte di Assise di primo grado non ha attribuito a tali evenienze alcun significato, spiegando il tutto con dei momenti di relax, durante i quali K.M. sola in casa e distesa ormai sul letto, si sarebbe lasciata andare, sovrappensiero, a giocare con il cellulare in mano ed ha spiegato che la chiamata alla segreteria non terminata è in linea con la parsimonia che contraddistingueva il carattere di K.M., e così pure la cancellazione del mms senza attivare INERNET per aprirlo.
Questa della Corte di Assise di primo grado è, però, una mera congettura che non trova riscontro in alcun elemento obiettivo e che, comunque, non spiega perché mai, come sarebbe stato naturale, K.M. non tentò di richiamare la propria famiglia un quarto d’ora – venti minuti dopo il primo tentativo.
Ma a rendere ancor meno condivisibile la spiegazione della Corte di Assise di primo grado sta la considerazione che quella stessa Corte ha ritenuto nella propria sentenza che fu l’aggressore a togliere a K.M. i pantaloni e le mutandine, certamente il reggiseno, che risulta addirittura a tale scopo tagliato. Ed allora, è davvero verosimile che la giovane, tornata a casa nell’intento di coricarsi presto perché stanca, in quanto la notte precedente aveva festeggiato Halloween, e con il pensiero che la mattina dopo avrebbe dovuto recarsi a lezione all’Università (così come aveva detto all’amica S.P.), anziché spogliarsi e coricarsi, sia rimasta vestita, magari adagiandosi sul letto in relax – come asserito dalla Corte – ma vestita, anziché spogliarsi ed andare a letto come era il suo dichiarato intento? È logico che, pur avendo l’intenzione di andare a dormire presto, sia rimasta, invece, vestita senza fare nulla per più di un’ora, tanto da essere sorpresa dall’aggressore in quella condizione dopo le 23? Risulta, allora, più coerente con le intenzioni dichiarate dalla giovane e con la singolarità delle chiamate telefoniche suddette, ipotizzare che effettivamente l’aggressione, e quindi poco dopo la morte, si sia verificata molto prima rispetto all’ora ritenuta dalla Corte di Assise di primo grado: certo non più tardi delle 22,13.
Gli elementi e le considerazioni da ultimo evidenziate sembrano più rilevanti di quelle fondate sull’urlo udito dalla teste C., per la equivocità del significato da attribuire all’urlo (che in una zona frequentata da giovani e “drogati” avrebbe potuto avere anche altra provenienza) laddove, invece, gli elementi evidenziati presentano un collegamento più stretto con i movimenti e le intenzioni della vittima in quella circostanza.
Ed è anche evidente che, se per ipotesi (e contro le valutazioni di inattendibilità del teste formulate da questa Corte) si dovesse attribuire attendibilità alla deposizione resa dal teste Cu., i due attuali imputati per ciò solo verrebbero ad essere completamente scagionati, trovandosi, secondo il teste, certamente in Piazza (omissis) e non nella casa di Via (omissis) a quell’ora.
Arma del delitto Come ricordato nella parte narrativa, la Corte di Assise di primo grado ha ritenuto che il coltello sequestrato a casa di S.R. sia l’arma, o più precisamente una delle anni, utilizzata per commettere il delitto.
Dalla lettura della sentenza emerge chiaramente che la pietra d’angolo, utilizzata dalla Corte di Assise di primo grado per la ricostruzione della vicenda, è rappresentata dalle indagini genetiche effettuate dalla Polizia, e dalla ritenuta coerenza con gli altri elementi indiziari acquisiti.
In particolare per quanto concerne il coltello sequestrato, la Corte di Assise di primo grado evidenzia che tale coltello è compatibile quanto meno con la ferita maggiore inferta a K.M. e spiega, poi, come sia accaduto che al momento del delitto tale coltello, che era pacifico essere in dotazione alla casa di S.R., si fosse trovato disponibile nella Casa di Via (omissis), Ora, però, se si prescinde dalle analisi genetiche (tra breve si tratterà di queste e saranno esposte le ragioni per le quali questa Corte, condividendo le conclusioni del Collegio Peritale nominato, non ritiene attendibili i risultati indicati dalla Polizia Scientifica), viene, in realtà, meno qualsiasi elemento obiettivo significativo della ritenuta utilizzazione del coltello suddetto per la commissione del delitto.
In primo luogo, infatti, detto coltello non è stato ritenuto compatibile con altre lesioni presenti sul corpo di K.M., chiaramente inferte con un coltello più piccolo, tanto che la Corte di Assise di primo grado ha dovuto ipotizzare l’utilizzazione di più coltelli, e la presenza di più aggressori, perché diversamente sarebbe venuta meno la ritenuta compatibilità del coltello sequestrato con le ferite.
In secondo luogo, sul coprimaterasso, in camera della vittima, è stata rilevata una impronta di sangue corrispondente chiaramente ad un coltello di minori dimensioni.
Ma anche la ferita maggiore (nella regione laterocervicale sinistra del collo) – quella che, secondo la Corte di Assise di primo grado, sarebbe stata cagionata dal coltello di cui si discute – non risulterebbe invece, secondo i consulenti della difesa, essere stata cagionata da tale coltello, dal momento che il tramite risulta notevolmente più corto (8 cm. a fronte dei 17.5 cm della lama) e la presenza di un’area ecchimotica sottostante alla ferita, in corrispondenza dell’ingresso della lama, starebbe a significare che in quel punto ha finito con lo sbattere il manico del coltello, essendo stata la lama introdotta per tutta la sua lunghezza.
Tali argomentazioni, in realtà, appaiono più convincenti di quelle svolte dai consulenti del P.M. – i quali la spiegano con una azione diretta delle mani da parte degli aggressori – che non sembra compatibile con la collocazione della ecchimosi proprio in corrispondenza della ferita, ed ancora meno con la spiegazione prospettata dal difensore di parte civile, avv. P., nel corso della replica: l’essere stata prodotta non dall’urto in quel punto del manico ma delle dita della mano che impugnavano l’arma. Ed invero, una lama più lunga, quale quella del coltello sequestrato, avrebbe dovuto, secondo logica, tenere la mano a distanza maggiore rispetto al corpo della vittima, non essendo verosimile che la mano si sia trovata ad essere ancora più vicino alla lama del manico stesso.
Inoltre – osservano i consulenti della difesa, in particolare il prof. T. – poiché la ferita maggiore risulta, in realtà, dalla reiterazione di più colpi, tanto da presentarsi in senso laterale ampiamente diastasata, sembra ancora più difficile ipotizzare che per più volte un coltello dalla lama di cm, 17, 5 sia stato introdotto soltanto per 8 cm.
Ma in verità, non vi è necessità di stabilire, al fine di escludere un collegamento tra coltello sequestrato ed omicidio, se gli aggressori siano stati davvero più di uno e se le armi utilizzate siano state una o più di una. Non vi è tale necessità dal momento che (sempre astraendo dalle indagini genetiche) non vi sono elementi particolari, segni specifici lasciati sul corpo da quel coltello, e la ritenuta compatibilità – secondo i consulenti del P.M. – non è neanche tale in senso stretto, avendo i periti, nominati dal GIP, accertato soltanto la “non incompatibilità” del coltello sequestrato con le ferite presenti sul corpo della vittima, basando la loro valutazione sulla considerazione che una lama lunga cm. 17,5 può comunque cagionare ferite con un tramite di 8 cm. e con l’essere la lama in questione monotagliente con punta. E una valutazione di “non incompatibilità” equivale, sul piano probatorio ed anche meramente indiziario, a nulla, trattandosi di condizione condivisa da moltissimi coltelli comunemente in uso.
Ed anche la spiegazione, data dalla Corte di Assise di primo grado, alla presenza, nella casa di Via (omissis) al momento del delitto, di un coltello in dotazione alla casa di S.R. risulta di per sé inverosimile e, comunque, priva di qualsiasi riscontro obiettivamente apprezzabile.
Esclusi la premeditazione come pure l’apprestamento di un minimo di organizzazione finalizzata alla consumazione del delitto (da nessuno, non solo dalla Corte di Assise di primo grado ma neanche dal P.M., mai ipotizzati), la presenza del coltello suddetto nella casa di Via (omissis) viene spiegata con la possibilità che K.A.M. portasse normalmente un coltello di tali dimensioni nella sua capiente borsa per ragioni di difesa personale, dovendo ella uscire anche la sera tardi per recarsi al lavoro. Ora, però, di tale consuetudine non è stata data alcuna prova, e sembra davvero singolare che una giovane, dopo avere affrontato un viaggio oltre oceano, in Germania e poi in Italia, e certamente abituata da alcuni anni anche ad uscire di notte da sola, abbia aspettato di arrivare a Perugia e di incontrare S.R. (conosciuto da una settimana circa) per iniziare ad intimorirsi nell’uscire da sola dopo cena per andare al lavoro in una città di provincia e determinarsi ad accettare l’invito di S.R. a portare, per motivi di difesa personale, un coltello di tali dimensioni nella propria borsa, con il rischio, esso si reale, di essere fermata ed incriminata per porto abusivo di coltello, ed ancora, a rendere del tutto inverosimile, secondo un criterio di normalità, che il coltello sia stato l’arma del delitto è la considerazione delle modalità del suo rinvenimento: nel cassetto della cucina di casa di S.R., insieme agl’i altri coltelli ed alle posate di uso domestico.
è davvero verosimile che due giovani, sconvolti certamente da quanto accaduto, trattandosi comunque di due giovani normali, “bravi” addirittura si dovrebbe dire (impegnati nello studio e disponibili con gli altri, per usare le parole della Corte di Assise di primo grado, giovanissimi e tuttavia già pronti ad accettare le fatiche di una attività lavorativa), dopo avere partecipato a un così barbaro assassinio abbiano avuto non solo la mente fredda e diabolica di non disfarsi del coltello ma di riporlo insieme alle altre posate nella cucina dalla quale era stato preso, ma anche la durezza di animo (e di stomaco) di continuare a servirsi di tali posate, forse anche del medesimo coltello, per prepararsi i pasti nei giorni successivi alla perpetrazione del delitto? Questa Corte ritiene di non poter condividere le argomentazioni del P.M. circa la spiegazione del mancato disfarsi dei coltello: perché era stato inventariato al momento di prendere la casa in locazione ed anche per non affrontare il costo (pochi euro) necessario per riacquistarlo. La mancanza di un coltello inventariato avrebbe rappresentato certamente un rischio assai minore rispetto al sequestro in casa dell’arma del delitto, mentre l’esborso di pochi euro a fronte di una esigenza del genere, quella di non fare ritrovare l’arma del delitto, sarebbe stato chiaramente un costo irrisorio, neanche da prendere in considerazione.
Vero è, dunque, che l’unico elemento che potrebbe ragionevolmente ricollegare il coltello al delitto, consumato nella casa di Via (omissis), è rappresentato dai risultati delle indagini genetiche, effettuate dalla Polizia Scientifica delle quali, però, di qui a breve se ne riterrà la inattendibilità.
Perizia genetica sui reperti 36 e 165b La Corte di Assise di primo grado ha ritenuto di poter riconoscere i due attuali appellanti come colpevoli dei reati contestati in base ad una serie di indizi, nell’ambito dei quali un posto di sicura preminenza è occupato dagli accertamenti, effettuati dalla Polizia Scientifica sul coltello sequestrato in casa di S.R. (reperto 36) e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima, rinvenuto nella stanza ove venne perpetrato l’omicidio (reperto 165b).
Ed invero – secondo la Polizia Scientifica – figurava il profilo del DNA di K.A.M. sulla impugnatura del coltello e quello di K.M. sulla lama, mentre figurava il profilo del DNA di S.R. sul gancetto del reggiseno. Da qui, pur nella difficoltà di spiegare come un coltello in dotazione alla cucina di S.R. fosse finito per trovarsi nella casa di Via (omissis), la convinzione che quel coltello fosse Tarma del delitto, o, più precisamente, una delle armi del delitto, e che la responsabilità dovesse essere attribuita ad K.A.M., che evidentemente lo aveva impugnato, tanto da lasciare il proprio DNA sul manico, come pure a S.R. che, al momento della violenza, culminata poi nel delitto, doveva trovarsi necessariamente nella stanza di K.M., intento a tentare di strapparle di dosso il reggiseno, tanto da lasciare il proprio DNA sul gancetto del medesimo. Si tratta certo di elementi indiziari, ma è evidente la loro centralità rispetto ad altri elementi, pure indiziari, dal momento che, se effettivamente il DNA rilevato sul gancetto è da attribuire a S.R., l’indizio, pur rimanendo tale, è di particolare rilevanza; e così è a dire per i DNA rilevati sulla impugnatura e sulla lama del coltello sequestrato a casa di S.R., sempre che si sia certi che si tratti di una delle armi utilizzate dagli aggressori. Già in primo grado i difensori degli imputati avevano, tramite i consulenti di parte, censurato sotto molteplici profili la correttezza del procedimento seguito dalla Polizia Scientifica per le modalità di refertazione e per le analisi genetiche e l’attendibilità delle conclusioni dalla stessa formulate, ma inutilmente avevano richiesto alla Corte, per dirimere il contrasto sul punto, di disporre una perizia tecnica; donde la reiterazione della richiesta previa rinnovazione parziale della istruttoria dibattimentale.
Questa Corte, con ordinanza del 18.12.2010, nel disporre la perizia ha già spiegato le esigenze sottese a tale provvedimento: la individuazione del DNA su alcuni reperti e la sua attribuzione agli imputati risulta, invero, particolarmente complessa per la obiettiva difficoltà, da parte di soggetti non aventi conoscenze scientifiche, di formulare valutazioni ed opzioni su materie particolarmente tecniche senza l’ausilio di un perito d’ufficio. Che si tratti di una questione particolarmente complessa risulta, d’altra parte, anche da quanto osservato sul punto dalla Corte di Assise di primo grado. Ed invero, nel ribadire in sentenza la ragione per la quale veniva respinta la sollecitazione a disporre una perizia d’ufficio ex art. 507 c.p.p., la Corte così testualmente scrive: “…A questo punto va anche osservato che, rispetto a interpretazioni diverse offerte dall’uno e dall’altro, questa Corte avrebbe potuto, come peraltro era stato richiesto dalle difese, disporre la nomina di esperti e affidare apposita perizia. A ben vedere, però, ci si sarebbe trovati dinanzi ad un’ulteriore interpretazione che sarebbe stata pienamente o parzialmente confermativa di questa o di quella interpretazione già offerta ed il problema della interpretazione più congrua sarebbe rimasto e pertanto non si è ravvisato il presupposto per disporre una relativa perizia ex art. 507 c.p.p.” In sostanza, è come dire che la questione, già complessa sulla base delle contrapposte valutazioni (Polizia Scientifica da un lato, consulenti della difesa dall’altro), avrebbe finito con il divenire ancora più complicata per la possibile formulazione di una terza valutazione, quella del perito eventualmente nominato dalla Corte, che sarebbe stata sicuramente confermativa in tutto o in parte di una delle diverse posizioni; dunque tanto valeva che fosse la Corte a risolvere direttamente il problema.
Sennonché la Corte di Assise di primo grado ha ritenuto di risolvere una controversia scientifica, riconosciuta come particolarmente complessa, in base a valutazioni di natura scientifica dalla stessa Corte direttamente formulate. Al contrario, questa Corte di Assise di secondo grado non ha ritenuto che le conoscenze personali dei giudici, togati e popolari, fossero tali da consentire di risolvere una controversia nella sostanza scientifica, da risolvere, dunque, in base a criteri scientifici, senza l’ausilio di periti di propria fiducia, da essa nominati e che potessero svolgere l’incarico affidato nel pieno contraddittorio delle parti.
Ed invero, mentre la valutazione della rilevanza dell’indizio, una volta accertata la effettiva sussistenza del medesimo nella sua materialità, è compito e materia propria del Giudice, problema che egli può risolvere con gli strumenti dell’argomentazione giuridica, l’accertamento della sussistenza materiale dell’indizio, soprattutto allorché richiede procedimenti di indagine particolarmente tecnici e conoscenze scientifiche complesse, pur non esulando formalmente dal potere dovere del Giudice, non può davvero essere affrontato e risolto senza l’ausilio di persone esperte in quell’ambito.
Né il potere dovere di disporre una perizia per risolvere problemi troppo complessi per le conoscenze esigibili da Giudici, popolari e togati, viene meno soltanto perché, nel corso delle indagini, gli accertamenti della Polizia Scientifica sono stati effettuati con le modalità degli accertamenti irripetibili, senza che sia stato chiesto un incidente probatorio: in primo luogo perché l’irripetibilità non deriva dalle modalità seguite ma dall’essere quell’accertamento davvero irripetibile; in secondo luogo perché, comunque, le modalità seguite non valgono a colmare le lacune del giudice del dibattimento, il quale non diviene meno ignorante soltanto perché l’accertamento è stato effettuato con modalità particolari. Ma, del resto, è proprio per questo che l’art. 224 c.p.p. consente al Giudice di disporre una perizia anche d’ufficio.
Nel caso in esame, peraltro, proprio perché nel dibattimento di primo grado l’attività di refertazione e gli accertamenti della Polizia Scientifica erano stati criticati, nel metodo e nei risultati, dai consulenti dei difensori, in base ad argomentazioni meritevoli di particolare attenzione per la profondità delle stesse e per la provenienza da professori e tecnici di indubbio rispetto, l’espletamento di una perizia di ufficio è apparso a questa Corte indispensabile per accertare la sussistenza degli elementi indiziari suddetti.
La perizia è stata affidata ad un collegio composto da professori universitari presso la facoltà di medicina legale di una delle più prestigiose Università Italiane (La Sapienza): la prof.ssa V., particolarmente esperta in materia di genetica forense (come risulta dai titoli posseduti, dalla materia insegnata e dalla esperienza di casi precedenti); il prof. Co., perché medicolegale, esperto anch’egli del settore, e necessario in considerazione della complessità dell’accertamento per i suoi risvolti di natura medicolegale e non solo genetica. Entrambi meritevoli della piena fiducia della Corte sul piano professionale ed umano. Ed anche la struttura utilizzata per procedere alle analisi, come pure i collaboratori, sono meritevoli di piena affidabilità per il loro livello universitario, tale da potere essere considerato, in relazione ai quesiti ed alla natura degli accertamenti, del tutto adeguato.
Ebbene, al quesito posto essi, all’esito di una indagine accurata, svolta nella pienezza del contraddittorio delle parti, hanno formulato le seguenti conclusioni: “Sulla base delle considerazioni dianzi espresse riteniamo di poter così rispondere ai quesiti posti in sede di conferimento dell’incarico: “Esaminati gli atti di causa e svolte le indagini tecniche ritenute necessarie accerti il Collegio dei periti: 1. se è possibile, mediante nuovo accertamento tecnico, l’attribuzione ed il grado di attendibilità dell’eventuale attribuzione del DNA presente sui reperti 165b (gancetto del reggiseno) e 36 (coltello)” – Le indagini da noi eseguite al fine di accertare la presenza di sangue sul Rep.36 (coltello) e sul Rep.165B (gancetti di reggiseno) hanno dato esito negativo.
– Le indagini citomorfologiche sui reperti predetti non hanno evidenziato la presenza di materiale cellulare. Alcune campionature del Rep.36 (coltello), ed in modo particolare il campione “H”, presentano granuli con una morfologia caratteristica circolare/esagonale con struttura centrale a raggiera. Un approfondito studio microscopico, unitamente alla consultazione di dati presenti in letteratura, hanno permesso di accertare che le strutture in questione sono riconducibili a granuli di amido, quindi materiale di natura vegetale.
– La quantificazione degli estratti ottenuti dalle campionature effettuate sul Rep.36 (coltello) e Rep.165B (gancetti reggiseno), eseguita mediante Real Time PCR, non ha evidenziato presenza di DNA.
– Vista l’assenza di DNA negli estratti da noi ottenuti, in accordo con i consulenti delle parti, non si è proceduto allo step successivo di amplificazione.
2. “De non è possibile procedere a nuovo accertamento tecnico, valuti, in base agli atti, il grado di attendibilità degli accertamenti genetici eseguiti dalla Polizia scientifica sui reperti suddetti, con riferimento anche ad eventuali contaminazioni” Esaminati gli atti ed i documenti di causa, presa visione delle indagini di laboratorio eseguite sul Rep. 36 (coltello) e sul Rep. 165B (gancetti di reggiseno), si possono formulare le seguenti conclusioni: REPERTO 36 (COLTELLO) Relativamente agli accertamenti genetici eseguiti sulla traccia A (impugnatura dei coltello) si concorda con la conclusione cui è giunta la CT circa l’attribuzione del profilo genetico ottenuto da tale campionatura a K.A.M..
Relativamente alla traccia B (lama del coltello) riteniamo che gli accertamenti tecnici effettuati non siano attendibili per i seguenti motivi: 1. non sussistono elementi scientificamente probanti la natura ematica della traccia B (lama del coltello); 2. dai tracciati elettroforetici esibiti si evince che il campione indicato con la lettera B (lama del coltello) era un campione Low Copy Number (LCN) e, in quanto tale, avrebbero dovuto essere applicate tutte le cautele indicate dalla Comunità Scientifica Internazionale; 3. tenuto conto che non è stata seguita alcuna delle raccomandazioni della Comunità Scientifica Internazionale, relativa al trattamento di campioni Low Copy Number (LCN). non si condividono le conclusioni circa la certa attribuzione del profilo rilevato sulla traccia B (lama del coltello) alla vittima K.M. poiché il profilo genetico, così come ottenuto, appare inattendibile in quanto non supportato da procedimenti analitici scientificamente validati; 4. non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo ed i protocolli internazionali di raccolta e campionamento del reperto; 5. non si può escludere che il risultato ottenuto dalla campionatura B (lama del coltello) possa derivare da fenomeni di contaminazione verificatasi in una qualunque fase della repertazione e/o manipolazione e/o dei processi analitici eseguiti.
REPERTO 165B (GANCETTI DI REGGISENO) Relativamente al Rep. 165B (gancetti di reggiseno) riteniamo che gli accertamenti tecnici effettuati non siano attendibili per i seguenti motivi: 1. non sussistono elementi scientificamente probanti la presenza di presunte cellule di sfaldamento sul reperto; 2. vi è stata una erronea interpretazione del tracciato elettroforetico degli STRs autosomici; 3. vi è stata una erronea interpretazione del tracciato elettroforetico relativo al cromosoma Y; 4. non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo ed i protocolli internazionali di raccolta e campionamento del reperto; 5. non si può escludere che i risultati ottenuti possano derivare da fenomeni di contaminazione ambientale e/o di contaminazione verificatasi in una qualunque fase della repertazione e/o manipolazione di detto reperto.” Questa Corte di Assise, nello spiegare perché ritiene di poter fare proprie le conclusioni formulate dal Collegio Peritale, osserva preliminarmente che le ragioni poste alla base di questa condivisione non possono certo essere nella loro essenza di natura scientifica perché, se così fosse, cadrebbe nella contraddizione che, dopo avere nominato un collegio peritale per ovviare alle comprensibili lacune di conoscenza in un campo particolarmente complesso sotto il profilo tecnico e scientifico, poi, invece, si ergerebbe – non si comprende su che basi – a supervisore di una disputa scientifica e tecnica, magari individuando essa stessa un criterio di valutazione tecnicoscientifico per riconoscere la prevalenza di una tesi rispetto all’altra. No, ovviamente questo non è possibile, per una esigenza di non contraddizione e per un doveroso atteggiamento di non presunzione.
Le ragioni della condivisione delle conclusioni formulate dal Collegio Peritale sono invece nella loro essenza di natura logico giuridica.
Si tratta, invero, di spiegare perché il giudice ritiene tali conclusioni, ed ovviamente le argomentazioni svolte dal Collegio Peritale per illustrarle, persuasive ed utili ai fini della decisione, che non consiste nella risoluzione di una controversia meramente tecnico scientifica ma nel riconoscimento o meno di una responsabilità penale.
Ebbene, per quanto concerne il reperto 36 (coltello), il Collegio Peritale, all’esito di un procedimento di prelevamento di tamponi ed estrazione di DNA in sé certamente corretto, non essendo stato censurato da alcuno, ha ritenuto che il DNA, così estratto nel corso delle operazioni peritali e quantificato secondo la metodica correntemente in uso, non fosse comunque utile, per la sua scarsissima entità, per eseguire le fasi successive, rappresentate dalla amplificazione e dalla elettroforesi, ed è, quindi, passato alla seconda parte del quesito: la valutazione del grado di attendibilità degli accertamenti genetici eseguiti dalla Polizia scientifica sul reperto, con riferimento anche ad eventuali contaminazioni.
Il Collegio Peritale ha illustrato i principi consolidati in materia nella Comunità Scientifica, ricordando le fasi nelle quali si articola il procedimento tecnico scientifico che consente di riconoscere, in una traccia presente sul reperto, il profilo genetico di un soggetto (tamponatura, estrazione del DNA, quantificazione, amplificazione, elettroforesi ed interpretazione del tracciato risultante) e le problematiche, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, connesse alla natura del reperto, alle modalità di conservazione, alla maggiore o minore entità del DNA estratto, alle cautele da adottare per garantire che il risultato da conseguire non sia determinato da eventuali contaminazioni.
Su questo ultimo punto giova riportare testualmente alcuni brani della relazione: “…Budowle B. et al. (2009) richiamano alla prudenza e suggeriscono l’uso del LCN esclusivamente nei casi di identificazione di persone scomparse (includendo le vittime di disastri di massa) e a fini di ricerca. I predetti Autori sconsigliano, invece, l’uso delle attuali metodiche LCN in procedimenti penali, poiché le metodiche, le tecnologie e le raccomandazioni attuali non consentono ancora il superamento delle problematiche che caratterizzano la tipizzazione LCN.
In particolare, poiché la tipizzazione LCN non può per definizione fornire risultati riproducibili e quindi lo stesso risultato non può essere atteso qualora lo stesso campione venga analizzato una seconda volta, il metodo non può essere considerato robusto secondo gli standard convenzionali (Budowle B. et al., 2009).
3. Problemi associati a basse quantità di templato Sono numerosi i problemi che insorgono dall’analisi di quantità sub-ottimali di DNA templato in una PCR e tali problemi diventano sempre più evidenti con la riduzione della quantità del templato. Inoltre, l’interpretazione delle misture deve ancora essere ben definita.
I punti fondamentali del problema relativo alla bassa quantità di templato sono i seguenti: effetti stocastici, soglia di rilevazione, interpretazione del profilo, drop-out allelico e sbilanciamento dei picchi eterozigoti, stutter, contaminazione, analisi dei replicati, controlli appropriati, limitazioni di applicazione.
3.1 Effetti stocastici: A causa della cinetica del processo di PCR, una bassa quantità di templato iniziale sarà soggetta ad effetti stocastici; infatti l’attacco del primer può non avvenire allo stesso modo per ogni allele ad un dato locus durante i primi cicli e pertanto si potrà notare un notevole sbilanciamento tra prodotti allelici o, in alcuni casi, la perdita totale di uno od entrambi gli alleli. In altre parole, un DNA templato con le caratteristiche di LCN in una PCR potrà manifestare fenomeni stocastici di amplificazione visibili sia come sostanziale sbilanciamento di due alleli ad un dato locus eterozigote che come drop-out allelico o aumento delle stutter (Gill P. et al., 2000; Whitaker J.P. et al., 2001; Kloosterman A.D. et al., 2003; Smith P.J., Ballantyne J., 2007; Forster L. et al., 2008; Budowle B. et al., 2009).
3.2 Soglia di rilevazione: Solitamente, per la PCR è raccomandato l’utilizzo di DNA in quantità tali da ridurre gli effetti stocastici a livelli gestibili. Tuttavia, poiché differenze nella quantizzazione del templato ed eventuali imprecisioni nel volume pipettato possono influenzare la quantità del DNA effettivamente presente nella PCR, deve essere usata una soglia stocastica di interpretazione dei risultati per la tipizzazione degli STR (Minimum Interpretation Treshold “MIT”, Budowle B. et al., 2009)…”.
Va osservato, avendo il P.M. criticato il fatto che nella relazione il Collegio Peritale ha riportato principi e problematiche affrontate dagli studiosi della materia, che questo costituiva un momento necessario dell’assolvimento dell’incarico affidato, dovendo essere forniti ai componenti della Corte, giudici popolari e togati, gli strumenti concettuali minimi per comprendere quanto meno la complessità delle questioni.
Dopodiché il Collegio Peritale ha proceduto ad esaminare la corrispondenza o meno delle operazioni eseguite dalla Polizia Scientifica ai criteri ed ai metodi riconosciuti dalla comunità scientifica.
E, mentre ha condiviso il riconoscimento del profilo genetico di K.A.M. sul manico del coltello, in considerazione del fatto che la quantità dell’estratto era tale da consentire di pervenire, al termine delle fasi di amplificazione ed elettroforesi, a configurare un profilo affidabile, ha invece negato attendibilità al risultato presentato dalla Polizia Scientifica relativamente alla asserita presenza di DNA di K.M. sulla lama del coltello.
Il Collegio Peritale ha, infatti, evidenziato in primo luogo che negli accertamenti effettuati dalla Polizia Scientifica risulta notevolmente carente la fase di quantificazione dell’estratto, laddove tale fase è, invece, indispensabile per l’attendibilità del risultato, dal momento che “…la determinazione della quantità di DNA (così testualmente a pag. 45 della relazione peritale) presente in un campione è fondamentale per la maggior parte delle analisi basate su PCR perché una quantità eccessiva può provocare la comparsa di picchi aggiuntivi o fuori scala per la tecnica della misurazione, mentre una quantità scarsa di templato può provocare fenomeni di drop-out-allelico in quanto la reazione di PCR viene inficiata dai fenomeni stocastici. L’amplificazione PCR può anche fallire a causa della presenza di inibitori estratti insieme al DNA del campione, della degradazione del DNA, della insufficiente quantità di DNA, o della combinazione di tutti questi fattori…”.
Inoltre, poiché i migliori risultati sono ottenuti quando il DNA templato è aggiunto nella quantità clic corrisponde al range indicato dal Kit, si comprende la necessità di effettuare preventivamente l’estratto e non di rideterminarla a posteriori, essendo a tal punto una operazione del tutto inutile. D’altra parte, la dott. S. (Polizia Scientifica), dopo avere, evidentemente per un comprensibile errore della memoria, affermato dinanzi al GUP di avere proceduto alla quantificazione dell’astratto, di cui si discute, mediante Real Time PCR (sistema che consente di quantificare con precisione l’estratto prima di procedere alla sua. amplificazione), ha poi chiarito che per tale estratto non ha utilizzato il Real Time ma il Fluorimetro Quibit, che ha dato come risultato “non interpretabile” ma che è stato tuttavia considerato dalla dott. S. ugualmente utile per passare alla fase successiva, al termine della quale ha ritenuto di riconoscere nel tracciato il profilo genetico di K.M..
Ora, secondo il Collegio Peritale l’ipotesi più probabile è che il campione sottoposto ad amplificazione, se quantificato correttamente con il metodo Real Time PCR, sarebbe risultato un LCN – Low Copy Namber, in considerazione del fatto che il tracciato elettroforetico presenta picchi al di sotto della soglia di 50 RFU e sbilanciamento allelico (omissis) indicativo di un campione Low Copy Number -, vale a dire di quantità tale da non poter dare risultati affidabili se trattato come un estratto di quantità superiore e, dunque, da poter essere ulteriormente trattato soltanto a fronte dei particolari accorgimenti consigliati dagli autori che hanno affrontato le problematiche inerenti campioni LCN, accorgimenti che, al contrario, non risultano essere stati seguiti o esattamente seguiti dalla Polizia Scientifica.
Tali accorgimenti concernono tutte le fasi del procedimento, dalla refertazione, alla quantificazione, alla amplificazione ed alla interpretazione del tracciato derivante dalla elettroforesi e sono diretti a ridurre al massimo il rischio di contaminazioni in ogni fase (rischio che, comprensibilmente, aumenta con il diminuire della quantità di DNA da esaminare), come pure il verificarsi di fenomeni stocastici ed infine errori nella interpretazione del profilo.
Tra questi accorgimenti uno particolarmente rilevante per l’attendibilità del risultato è rappresentato dalla analisi dei replicati. “…L’approccio maggiormente usato per la designazione di un allele in un campione LCN – così testualmente pag. 89 della relazione – richiede la suddivisione del campione in 2 o più aliquote e la registrazione dei soli alleli che sono comuni ad almeno due replicati (Gill P. et al., 2000; Gill P., 2001; Gill P. et al., 2007). Il vantaggio di questo approccio è che, se il drop-in avviene in modo casuale ed infrequente, l’osservazione di un allele per più volte aumenta l’affidabilità che esso sia effettivamente derivato dal campione in esame (assumendo che durante la fase di campionamento non si sia verificata contaminazione). La maggior parte degli scienziati che lavorano con LCN sottolineano la necessità di effettuare 2-3 replicati ed affermano che un allele deve essere osservato almeno 2 volte per poter essere denominato come tale (Taberlet P. et al., 1996, addirittura invocano fino a 7 replicati per aumentare l’affidabilità nella denominazione degli alleli): la ridondanza allelica nei replicati è pertanto alla base della affidabilità della tipizzazione LCN.
Tuttavia, sia il numero esatto dei replicati che il numero di volte che uno stesso allele viene osservato ed il grado di affidabilità (quantitativamente o qualitativamente) devono essere meglio precisati.
Nella pratica, comunque, è necessario considerare che l’effettuazione di un numero maggiore di 2-3 replicati spesso non è possibile; pertanto le linee guida interpretative e le affermazioni sul grado di affidabilità devono essere applicate e dichiarate sulla base delle analisi di 2-3 replicati. Il buon senso suggerirebbe che dividere un campione in multiple aliquote aumenti i limiti della tipizzazione LCN (Budowle B. et al., 2009) e che ogni sforzo possibile dovrebbe essere compiuto al fine di concentrare quanto più templato possibile in una unica reazione: tuttavia, ad oggi quello della ridondanza allelica rappresenta l’unico approccio accettato. Finora gli studi effettuati sulle diluizioni e sulla ridondanza si sono basati su campioni di controllo da laboratorio, del tutto diversi da quelli provenienti dai reperti relativi ai casi reali, i quali posseggono quantità indeterminate (e spesso degradate) di DNA e possono contenere inibitori della PCR in grado di influenzare anche il drop-out allelico…”.
Ora, che l’estratto ottenuto dalla Polizia Scientifica rientrasse nella categoria LCN non può essere posto in dubbio: sia perché i limiti che caratterizzano tale categoria sono dei parametri di riferimento obiettivi per tutta la comunità scientifica, come affermato anche dai consulenti della difesa (che, a prescindere dal ruolo assunto nel presente processo, sono tutti studiosi e professionisti di chiara fama, i quali non possono essere certo indotti dal ruolo rivestito ad affermare la sussistenza di principi e concetti scientificamente errati); sia perché lo hanno sostanzialmente confermato anche i consulenti delle parti civili e la stessa dott. S., oltre che il prof. N., consulente anch’egli del P.M., e, d’altra parte, anch’essi non potevano certo essere indotti dal ruolo rivestito ad effettuare affermazioni contrarie a principi consolidati nella comunità scientifica. Ma è altrettanto certo che quanto meno uno degli accorgimenti più rilevanti (a parte i problemi connessi alla refertazione ed alla mancata tracciabilità di tutte le fasi del procedimento analitico) non è stato seguito: il campione non è stato suddiviso in almeno due aliquote sottoposte ciascuna ad un trattamento al fine di registrare poi la presenza o meno degli stessi alleli nei due replicati.
La dott. S. ha spiegato che, in considerazione della esiguità della traccia, così come ha ritenuto di non doverla disperdere per effettuare analisi specifiche della natura biologica, così pure ha preferito concentrare tutto su un campione e tentare di ottenere un risultato, nella convinzione che la suddivisione in più aliquote non avrebbe consentito di raggiungerne alcuno. Ella ha, invece, proceduto, per ovviare alla mancata suddivisione del campione in più aliquote, ad una seconda corsa elettroforetica del medesimo amplificato ed al confronto tra i due tracciati, quello della prima corsa e quello della seconda corsa: ma si tratta di un palliativo, dal momento che – come affermato dal prof. T., consulente della difesa S.R., all’udienza del 6.9.2011 – la ripetizione della corsa da parte dello stesso amplificato non equivale certo, ai fini delle riproducibilità del dato e, quindi, del riscontro della bontà del risultato, al trattamento di due diversi amplificati, essendo la identità di risultato tra due diversi amplificati, essa si, significativa della attendibilità del risultato sotto il profilo scientifico.
D’altra parte, la stessa dott. S., dinanzi a questa Corte, interrogata dall’avv. D.V., all’udienza del 6.9.2011, se concordasse con un importante autore come Batler circa la necessità, per l’attendibilità del dato in caso di LCN, di replicare l’amplificato, ha riconosciuto che si, concordava con detto studioso, ma soltanto per il caso in cui avesse preventivamente potuto qualificare come LCN l’amplificato, laddove ella, per avere utilizzato il fluorimetro anziché il Real Time, non aveva potuto affatto classificare l’amplificato come LCN.
Sennonché, qui non si tratta di criticare l’operato della dott. S.; non si tratta, cioè, di stabilire se ella fece bene o male a passare alle fasi successive senza avere prima esattamente quantificato e classificato il campione, e dunque senza averlo suddiviso in più aliquote, ma si tratta soltanto di valutare l’attendibilità del risultato, pur non riproducibile, una volta stabilito che, comunque, si era in presenza di un LCN.
Ma è stato il prof. T. a spiegare che non si tratta, appunto, di criticare l’operato della Polizia Scientifica ma soltanto di valutare l’attendibilità del dato sotto il profilo scientifico e, quindi, la sua utilizzabilità a fini probatori. Così testualmente dalla trascrizione del verbale di udienza del 6.9.2011: “…Io penso che probabilmente i giurati, chi è in questa sala non esperto di genetica forense si sia anche posto grossi problemi sulla validità di questa tecnica a fronte di una contrapposizione anche piuttosto accesa tra i periti, i consulenti del Pubblico Ministero e adesso metteteci pure il sottoscritto. Contrapposizione che però deriva essenzialmente da un approccio diverso, direi due filosofie, due scuole nei confronti delle indagini di genetica. Due approcci e due filosofie diverse, la filosofia di chi vuole un risultato sicuro, affidabile, un risultato solido e robusto che possa essere speso senza problemi, di fronte anche a procedimenti di una certa complessità, di una certa durata e dall’altra parte ehi si premura di avere comunque un risultato. Dobbiamo portare a casa un risultato, ecco queste sono due diverse filosofie di … non vi è questo problema soltanto in Italia, ma vi è un dibattito internazionale su queste problematiche che origina proprio da quel caso che ha illustrato la professoressa V.: a New York a seguito di quel processo in cui per la prima volta furono utilizzate delle bassissime quantità di DNA e utilizzate nel processo, bene nacque un dibattito che è proseguito per diversi numeri della rivista internazionale di genetica forense e che ancora non si è concluso. Ma questo dibattito verte essenzialmente sul fatto che qual è, quali sono i limiti, quale affidabilità abbia un esame effettuato in condizioni così critiche per quanto riguarda la quantità di DNA, critiche per quanto riguarda la quantità e probabilmente e anche per quanto riguarda la qualità che potrebbe essere un DNA alterato, degradato, il che complica ulteriormente le cose.
Ebbene come dirò tra poco e come è stato già detto da taluni, la società internazionale di genetica forense ha preso una posizione tutto sommato che è stata manifestata in uno degli ultimi articoli di questa rivista, quando ha attenuato che potrebbe essere considerata anche una traccia al di sotto di questi livelli di DNA purché essa venga ripetuta per più volte in modo tale da avere un risultato che è un consenso di ripetuta amplificazione, lo sono, aderisco, diciamo alla genetica forense classica e penso che oltre un certo limite non si possa andare. Ma comunque se si va al di sotto di un certo limite occorre prendere delle precauzioni importanti, occorre adottare delle procedure, degli accorgimenti che evitino il rischio di avere dei risultati falsamente positivi, risultati che possono incastrare qualcuno che ha lasciato il suo materiale biologico in tantissima quantità anche in tempi diversi. Quindi occorre procedere con cautela per avere un risultato che possa essere ritenuto affidabile anche di fronte a basse quantità di DNA.
Certamente, comunque, bisogna seguire una metodologia corretta in tutte le fasi delle indagini indipendentemente poi dalla quantità di DNA che alla fine ci troveremo a analizzare e in questo caso come ricordato nella perizia della professoressa V. e del dottor C., che io ovviamente condivido, anche perché molti dei concetti che sono stati esposti in quella perizia, io li avevo manifestati già nel processo di primo grado, ebbene occorre comunque seguire una serie di tappe, avere una metodologia corretta. E, se noi andiamo a verificare il lavoro che è stato svolto dal servizio di Polizia Scientifica, non possiamo dire che vi sia stata una procedura idonea, corretta tale da non creare problemi per quanto riguarda poi il risultato che è stato ottenuto. I reperti che consideriamo sono essenzialmente il gancetto di reggiseno e la traccia 36 B sul coltello…”. In sostanza ritiene questa Corte che il rischio di conseguire un risultato non particolarmente affidabile, per non essere stata seguita una metodica corretta, in particolare per non avere provveduto ad effettuare due amplificazioni pur in presenza di scarsa quantità di estratto (LCN), potrebbe essere accettato ai fini meramente orientativi in una indagine a 360 gradi – come si usa dire – ma non può essere accettato allorché si tratti di basare sul risultato della perizia genetica la prova di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.
Risulta, infatti, anche dalle dichiarazioni rese dalla dott. S. che in presenza di una scarsa quantità di estratto, interiore a quella suggerita dal Kit per avere un buon risultato, è necessario abbassare la soglia di sensibilità della macchina, ma questo aumenta il verificarsi di fenomeni stocastici che soltanto un confronto tra il tracciato di più amplificati potrebbe evidenziare e fa sì che non si possa escludere che un determinato profilo, anche se per ipotesi effettivamente attribuibile ad un soggetto, derivi da contaminazioni verificatesi in una delle fasi in cui si articola il procedimento di refertazione ed analisi.
Ora, il prof. N. e poi lo stesso P.M. hanno affermato che non basta sostenere che il risultato deriva da contaminazione, essendo onere di chi sostiene essersi in presenza di contaminazione quello di provarne l’origine.
Tale argomentazione non può, però, essere condivisa in quanto finisce con il trattare sul piano giuridico la eventualità di una contaminazione come una eccezione di natura civilistica. Non si può, cioè, affermare: io ho provato che il profilo genetico è il tuo; ora tu prova che il DNA non è stato rilasciato sul reperto per contatto diretto ma per contaminazione. No, non si può operare così.
Nell’ambito del processo – come è noto – incombe sul P.M., che sostiene l’accusa in giudizio (la terminologia è utilizzata dall’art. 125 delle norme di attuazione del codice di procedura penale), quello di provare la sussistenza di tutti gli elementi sulla quale essa si basa e, dunque, allorché uno degli clementi è integrato da un elemento scientifico, che rappresenta il risultato di un procedimento di analisi, l’onere è anche quello di provare che il risultato è stato ottenuto mediante un procedimento che garantisca la genuinità del reperto dal momento della refertazione a quello dell’analisi.
Soprattutto per quanto riguarda la individuazione del profilo genetico in un reperto è importante che tutto il procedimento si svolga nella piena osservanza delle regole dettate dalla Comunità Scientifica, che non sono certo regole giuridiche (non si tratta di una legge dello Stato, come ha osservato la dott. S.), ma che rappresentano una garanzia di affidabilità del risultato; e poiché tra queste regole rientrano anche quelle cautele necessarie ad evitare possibili contaminazioni, si comprende che anche il rispetto delle stesse non può essere presunto ma deve essere provato da chi su quel risultato basa la propria accusa.
Cosicché, una volta che non vi è prova del rispetto di tali cautele, quelle che garantiscono che il risultato non è frutto di contaminazioni, non è affatto necessario provare anche la origine specifica della contaminazione.
Ne deriva che, ai nostri fini, il risultato ottenuto dalla Polizia Scientifica non può essere ritenuto attendibile, per essere il prodotto di un procedimento che non ha seguito gli accorgimenti indicati dalla Comunità Scientifica Internazionale, o, comunque, vede notevolmente affievolirsi la sua attendibilità, tanto da rendere necessario trovare riscontri in altri elementi estranei al procedimento scientifico.
Il che spiega anche perché il Collegio Peritale non ha proceduto oltre nell’analisi del campione da esso stesso raccolto sulla lama del coltello: il quantitativo è stato accertato essere del tutto insufficiente, anch’esso LCN, per consentire due amplificazioni, cosicché, se avessero proceduto oltre, i penti d’ufficio avrebbero commesso lo stesso errore rilevato negli accertamenti della Polizia Scientifica. E, d’altra parte, risulta chiaro dai concetti sopra esposti che, poiché la necessità di suddividere il campione in più aliquote attiene ad ogni singola traccia, essendo finalizzata a garantire l’attendibilità del risultato dell’analisi di quella traccia, non è con il sottoporre ad analisi due tracce diverse, entrambe LCN, senza sottoporle ciascuna a quel procedimento che garantisce il risultato, che si può pensare di ovviare alla mancata replica del procedimento su ogni singola traccia: la somma di due risultati, inattendibili per non essere stati sottoposti al procedimento tecnico scientifico corretto, non può dare un risultato attendibile, a prescindere dalle eventuali analogie.
Il prof. N. ha, in verità, argomentato che esistono ormai, anche se ancora in uno stato di avanguardia, dei sistemi per poter analizzare quantitativi così bassi. Ritiene, tuttavia, la Corte che è proprio il loro essere ancora all’avanguardia, praticamente in fase di sperimentazione, ad escludere la possibilità di fondare sui risultati, ottenuti con l’applicazione di tali sistemi, un convincimento di colpevolezza, dal momento che il Giudice non può fondare le proprie convinzioni che su sistemi tecnici e conoscenze scientifiche consolidate in un determinato periodo storico, nel momento in cui è chiamato a giudicare, e non su altri ancora in fase di sperimentazione. Questo sempre per pervenire ad una decisione di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. è, dunque, proprio la maggiore garanzia di attendibilità del risultato, che deriva dal rispetto delle regole elaborate a tal fine dalla Comunità Scientifica, che induce questa Corte a condividere le conclusioni del Collegio Peritale, in linea con le regole suddette.
Va, ancora, osservato che, poiché l’inattendibilità del risultato scientifico rende l’indizio, che dovrebbe essere rappresentato da quel risultato, insussistente nella sua materialità prima ancora che equivoco nel suo significato (non si comprende infatti come si possa essere scientifici a metà: il risultato è scientificamente esatto oppure non è in senso proprio un risultato), dovrebbe essere precluso, una volta ritenuto il risultato inattendibile, il ricorso alla collocazione di esso nel contesto delle altre risultanze processuali, per vedere, in un certo qual modo, chiarito il suo significato. Nel caso in esame, comunque, pure collocando il risultato suddetto nell’ambito delle altre risultanze processuali, ciò che rimane definitivamente comprovata è proprio la sua inattendibilità. In primo luogo le indagini citomorfologiche, effettuate dal Collegio Peritale sulla lama del coltello, non hanno evidenziato la presenza di materiale cellulare: in particolare non vi è traccia di sangue. La presenza, certa, di granuli di amido sulla medesima lama, particolarmente in corrispondenza della inserzione della lama, rilevata all’esito di un approfondito studio microscopico, di struttura tale da consentire di affermare che si tratta di materiale di natura vegetale, rivela, peraltro, che il coltello non è stato lavato, cosicché l’assenza di sangue sulla lama non può essere attribuita a lavaggio.
Il prof. T., consulente della difesa K.A.M., ha spiegato e dimostrato, con un breve esperimento del quale ha dato atto con una relazione non contestata nella sua veridicità dai consulenti del P.M. né da quelli di parte civile, che i granuli di amido, presenti in molti vegetali destinati alla alimentazione, sono agevolmente rimuovibili con un semplice lavaggio con acqua: il che dimostra, appunto, che il coltello non era stato lavato al momento del sequestro. Inoltre, tali granuli di amido, avendo grande capacità assorbente se posti a contatto con liquidi, avrebbero probabilmente assorbito anche il sangue, nel caso in cui il coltello fosse stato usato per ferire ed uccidere. Laddove, al contrario, i granuli rilevati non presentano tracce di sangue. Il P.M. nel corso della discussione ha proposto, come spiegazione della presenza dei granuli di amido sulla lama, quella che tali granuli sarebbero stati rilasciati dal tipo di guanti utilizzati dalla Polizia (talcati con amido vegetale). Ma tale affermazione, dell’ultima ora, non trova riscontro in clementi obiettivi di causa ed inoltre la collocazione dei granuli di amido (per lo più in corrispondenza della inserzione della lama) rende niente affatto persuasiva la spiegazione. Rimane, pertanto, fermo che il coltello non era stato lavato o che, pur essendo stato malamente lavato, tanto da non rimuovere le presunte tracce del DNA attribuito a K.M., sarebbe stato di nuovo utilizzato a scopo culinario dopo la perpetrazione del delitto: il che sembra davvero un pò troppo.
In secondo luogo, la presenza del DNA di K.A.M. sul manico del coltello, spiegabile con il fatto che ella frequentava ormai la casa di S.R., fermandosi da lui talvolta anche per mangiare e presumibilmente aiutandolo in tali occasioni, conferma che il coltello non è stato lavato o, in ipotesi, che è stato di nuovo utilizzato per scopo culinario dopo la perpetrazione del delitto. posto che il punto in cui e stata rilevata la traccia analizzata, pur sempre sul manico, non è affatto incompatibile (diversamente da quanto sostenuto dal P.M.) con un uso meramente domestico, potendo essere il coltello afferrato in vari modi, anche per usi domestici, secondo le varie necessità.
In terzo luogo, va ricordato che già più sopra sono state esposte le ragioni per le quali, se si prescinde dalle tracce genetiche, non sussistono altri elementi, obiettivamente apprezzabili e davvero rilevanti, idonei a provare che il coltello, sequestrato a casa di S.R., è l’arma, o almeno una delle armi, utilizzata per la commissione del delitto.
Ed allora, considerato che è stata chiaramente la ritenuta attendibilità degli accertamenti della Polizia Scientifica sul punto ad indurre la Corte di Assise di primo grado ad individuare nel coltello suddetto l’arma del delitto, giacché altri profili, di per sé soli, sono risultati di significato non univoco (in particolare la compatibilità con le lesioni) mentre è singolare la formulata spiegazione della presenza del coltello nella casa di Via (omissis) al momento del delitto, il venir meno, per le ragioni esposte, di tale attendibilità, o comunque l’affievolirsi la stessa grandemente, non può essere surrogato proprio dagli elementi che solo la ritenuta attendibilità ha consentito di valorizzare.
In definitiva, l’indizio rappresentato dal DNA di K.M. sulla lama del coltello sequestrato non può essere ritenuto sussistente.
Per quanto concerne il profilo genetico di S.R., indicato dalla Polizia Scientifica come presente sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima, va osservato che il Collegio Peritale non ha potuto estrarre dallo stesso (e neanche dall’altro, i gancetti in realtà erano due) DNA utile per essere analizzato. Ciò è dipeso, molto probabilmente, dal modo in cui il reperto è stato conservato: i gancetti si sono presentati ai periti coperti di materiale crostoso rosso-brunastro, derivante verosimilmente dalla ossidazione dei sali della soluzione di estrazione, utilizzata dalla Polizia Scientifica, e da elementi rugginosi del metallo stesso.
Il Collegio Peritale ha proceduto, quindi, alla valutazione del procedimento seguito dalla Polizia Scientifica, evidenziando errori di interpretazione del tracciato e di nuovo la mancanza delle cautele necessarie ad evitare possibili contaminazioni.
Vanno qui richiamate le argomentazioni di carattere generale sopra svolte circa la necessità di osservare regole e criteri consolidati nella Comunità Scientifica per pervenire ad un risultato attendibile a tini probatori e non soltanto orientativi. Ma va anche aggiunto che nel caso in esame l’esigenza di rispettare tali regole e criteri risulta ancora più necessaria, se possibile, dal momento che siamo in presenza certamente di una traccia mista, di una mistura di DNA, rilasciata da più contributori, anche se non identificati. Infatti – come spiegato anche dal prof. T. oltre che dal Collegio Peritale – la traccia, sebbene consistente, finisce, però, con l’essere esposta a problemi di interpretazione, che non escludono possibilità di contaminazioni, quando si fraziona – per così dire – tra i vari contributori. Ed anche soggetti non particolarmente al dentro della materia possono rendersi ben conto del perché.
La individuazione di un profilo genetico è ben diversa e più complessa rispetto a quella della ricostruzione di una fotografia. Non si tratta di evidenziare i chiaroscuri di una fotografia sbiadita o di ricomporre i pezzi di una fotografia strappata, al fine di riconoscere un individuo avente una ben distinta conformazione, apprezzabile anche con il comune senso della vista. Si tratta, invece, di trasformare, attraverso procedimenti e tecnologie complessi, i componenti del DNA in un tracciato, caratterizzato da picchi di diverse altezze (alleli) e collocati in posizioni differenti, e quindi di “accoppiare” picchi aventi una determinata altezza e collocazione, ottenendo, così, un profilo confrontabile con un profilo, ottenuto con lo stesso sistema, ma da un DNA sicuramente proprio di un determinato soggetto.
Trattandosi, dunque, di un tracciato prodotto da un procedimento ed una tecnologia complessi, sensibile a molti fattori, si comprende bene come, allorché si è in presenza di una mistura (di un campione derivante dall’apporto di più contributori), il problema di disegnare un determinato profilo, di individuare, cioè, nel tracciato i picchi da accoppiare l’uno all’altro, distinguendoli da quelli non rilevanti e da altre coppie, risulti particolarmente complesso, non potendosi molto spesso escludere la possibilità di accoppiamenti diversi e tuttavia ugualmente plausibili.
Ecco perché la prof. V. ha potuto affermare che nel tracciato, ottenuto dalla Polizia Scientifica, in fondo era possibile riconoscere il profilo di chiunque, anche il proprio. Quindi, è ben vero che in quel tracciato è presente, oltre al profilo della vittima (contributore maggiore) anche un profilo riconducibile a quello di S.R., ma non vi è garanzia che tale profilo risulti davvero corretto, dal momento che, in realtà, se si tiene conto di altri picchi, pure presenti nel tracciato e non considerati dalla Polizia Scientifica, si può pervenire a conclusioni diverse.
Né sembra che il calcolo biostatistico, effettuato dal prof. N. per confermare l’attribuzione del profilo a S.R., possa superare tale difficoltà, dal momento che il calcolo biostatistico, mentre è comprensibilmente valido per escludere che un altro soggetto, avente un profilo molto vicino a quello di S.R., si sia trovato a rilasciare il proprio DNA nella casa di Via (omissis) (errore dovuto ad una compatibilità casuale di cui parla il prof. N. a pag. 13 delle proprie osservazioni), non appare utile ad escludere la configurazione del profilo di S.R. in base ad accoppiamenti di picchi diversi da quelli proposti.
La natura mista della traccia avrebbe dovuto comportare una diversa taratura dell’apparecchio, al fine di non perdere la rilevazione di picchi che avrebbero potuto essere rilevanti: ma – ha osservato il P.G. nella sua requisitoria – come faceva la dott. S. a sapere a priori che si era in presenza di una traccia mista? Sennonché, anche qui il problema non è di stabilire se la dott. S. a priori ha fatto bene o ha fatto male a regolare l’apparecchio con una elevata soglia, ma di stabilire l’affidabilità del risultato. Nessuno può, sia pure a posteriori, far venire meno il fatto che la traccia, consistente nel suo insieme, non lo era però relativamente all’apporto dei contributori minori.
Ma l’attendibilità del risultato, indicato dalla Polizia Scientifica, viene nel caso di specie ad essere ancora più minata dalle modalità di repertazione, tali da non garantire la genuinità del reperto; tali, cioè, da non consentire di escludere che il DNA, in ipotesi davvero appartenente a S.R., sia finito sul gancetto non perché rilasciato dallo stesso S.R. per contatto diretto in occasione della contestata aggressione a K.M., ma perché trasportato accidentalmente da altri soggetti che hanno frequentato la scena del crimine.
È opportuno ricordare, infatti, che il gancetto, con il pezzetto di stoffa del reggiseno al quale risultava attaccato, tagliata dal resto dell’indumento, era stato rinvenuto sotto il corpo della vittima nel sopralluogo effettuato già il 2 novembre, ed anche fotografato: però, (presumibilmente per dimenticanza o perché ritenuto poco importante, essendo a disposizione tutto il reggiseno – secondo quanto affermato dalla dott. S. dinanzi al GUP) non era stato prelevato ed analizzato.
Il gancetto risulta, infatti, essere stato prelevato e poi analizzato soltanto un mese e mezzo dopo, il 18 dicembre, ma, in tale occasione, si trovava nella stessa stanza ma in posizione diversa, distante circa un metro da quella in cui era stato visto nel sopralluogo del 2 novembre. Il 2 novembre, invero, il pezzetto di stoffa con i gancetti attaccati si trovava sotto il corpo della vittima mentre il 18 dicembre, allorché, infine, venne prelevato per essere analizzato, era stato trovato in un’altra zona della stanza, nei pressi della scrivania, sotto un tappetino e distante un metro, un metro e mezzo da dove era stato visto nel primo sopralluogo.
La dott. S., interrogata sul punto, ha dichiarato di non sapere indicare le ragioni e le modalità dello spostamento né di poter precisare quante persone fossero entrate nella casa di via (omissis) tra il primo sopralluogo e quello del 18 dicembre, né gli accessi compiuti.
Ebbene, a parte il fatto che il prof. C., proiettando una fotografia tratta dal filmato delle operazioni girato dalla stessa Polizia, ha evidenziato che allorché il gancetto venne prelevato, nel corso del sopralluogo del 18 dicembre, i guanti indossati dagli operatori della Scientifica presentavano già tracce di imbrattamento in corrispondenza dei polpastrelli delle dita con le quali lo avevano afferrato; a parte questo, per la difficoltà di valutare appieno, attraverso la fotografia, la natura delle ombre, interpretabili come possibili segni di precedente imbrattamento; ed a parte il fatto che dalla visione del filmato il gancetto risulta essere stato prelevato e poi riposto di nuovo in terra, più o meno nello stesso punto, per essere fotografato; a parte tutto questo, dunque, è certo che tra il sopralluogo della Polizia Scientifica, nella immediatezza della scoperta del delitto, e il secondo sopralluogo della stessa Scientifica del 18 dicembre, la casa di Via (omissis) fu oggetto di più perquisizioni, dirette a ricercare eventuali altri elementi utili per le indagini, nel corso delle quali la casa venne messa a soqquadro, così come documentato anche dalle fotografie proiettate dalla difesa degli imputati ma realizzate dalla stessa Polizia. E queste perquisizioni vennero comprensibilmente effettuate senza le cautele che accompagnano le indagini della Scientifica, nella convinzione che ormai, comunque, i reperti da sottoporre ad indagini scientifiche fossero stati acquisiti.
In questo contesto è probabile che il DNA, in ipotesi proprio di S.R., sia stato trasportato da altri nella stanza e addirittura sul gancetto, mediante contatto con le mani o anche mediante contatto tra oggetti ed indumenti sui quali era presente (per esempio anche all’interno di una lavatrice, come ha ricordato la dott. G.), non essendo accadimento così insolito quello di una tale modalità di deposito del DNA. Che non sia accadimento insolito lo provano gli studi citati dal Collegio Peritale ed anche dai consulenti della difesa degli imputati, a fronte dei quali i consulenti del P.M. o delle parti civili non hanno mosso contestazioni sulla valenza scientifica degli stessi ma soltanto sulla verificazione in concreto della contaminazione in quel contesto. E. d’altra parte, la stessa dr.ssa S. (pagg. 221, 228) ha riconosciuto che non è possibile datare il momento del rilascio del DNA né stabilire l’ordine cronologico in cui più tracce siano state apposte, anche Cuna sull’altra.
Questa Corte ritiene, dunque, al di là della equivoca interpretazione dei tracciati, di cui già si è parlato, di condividere la ipotesi di una probabile contaminazione: perché nell’acquisizione del reperto non è stata rispettata alcuna cautela necessaria a garantire la genuinità del medesimo; perché sembra ben difficile che il DNA di S.R. sia stato rilasciato soltanto sul gancetto, senza interessare le parti di stoffa del reggiseno più agevolmente afferrabili, e necessariamente da afferrare, per tentare di toglierlo o strapparlo dal corpo della giovane; perché non è verosimile che S.R. (ma anche K.A.M.), in ipotesi protagonisti al pari di R.H.G., abbiano partecipato all’aggressione, all’interno oltretutto di una stanza certo non ampia, senza rilasciare DNA e proprie impronte anche su altre parti del corpo o su oggetti ed indumenti, laddove, al contrario. R.H.G., sicuramente colpevole, ha lasciato all’interno di quella stanza DNA ed impronte su più parti del corpo dell’aggredita (in particolare nella vagina) e su indumenti (felpa, stoffa del reggiseno) ed oggetti ivi presenti. Senza che si possa ragionevolmente sostenere che il mancato rilevamento di DNA ed impronte degli attuali imputati, almeno per quanto riguarda la stanza ove si è verificato l’omicidio, sia stato determinato da una attività di pronta ripulitura da parte dei due, essendo impossibile ipotizzare che in una attività di ripulitura, certo rapida per le circostanze in cui avveniva, i due siano stati in grado di distinguere le impronte proprie da quelle di R.H.G. in modo tale da eliminare le prime e lasciare le seconde, magari al fine di fare ricadere la responsabilità soltanto su R.H.G.. E, del resto, l’ambiente non risultava lavato, essendo presenti polvere, peli e tracce di sporco…
Ma va anche osservato che, poiché venne tagliata la fascia del reggiseno come pure entrambe le spalline – probabilmente da R.H.G., che ha rilasciato il suo DNA sulla stoffa – non vi era ragione di andare ad afferrare, in quel frangente, proprio il gancetto del reggiseno.
E di nuovo lo studio statistico, questa volta “visionato” da esperti di calcolo delle probabilità – come scrive il prof. N. nelle proprie osservazioni alla perizia (pag. 27) – non vale ad escludere la rilevante probabilità della contaminazione, trattandosi di uno studio che si riferisce soltanto alla cross-contaminazione tra reperti analizzati all’interno del laboratorio e che, dunque, non sembra abbia tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto ed in particolare delle singolari modalità e tempi dell’acquisizione del reperto.
La contaminazione, dunque, a parere di questa Corte non si è verificata nelle fasi successive, quelle del trattamento del reperto presso il laboratorio della Polizia Scientifica, bensì prima ancora della sua acquisizione da parte della Polizia Scientifica.
Vale la pena evidenziare che il prof. N., interrogato in udienza dallo stesso P.M. circa la probabilità di contaminazioni in fase di refertazione, non ha, in realtà, dato risposte esaurienti, essendosi per lo più soffermato a trattare l’esclusione della contaminazione in laboratorio, tanto che il Presidente gli ha, nel frangente, fatto rilevare che la risposta non era pertinente perché la domanda concerneva la fase precedente, quella della refertazione. E soltanto alla fine il prof. N. ha comunque affermato, per escludere la probabilità, non già la possibilità, di contaminazione nella fase di repertazione, che in tale caso sarebbe stata rilevata la presenza anche di altri soggetti (ma in realtà il DNA di altri soggetti non identificati era comunque presente sul gancetto) o del medesimo S.R. anche su altri oggetti (ma il DNA di S.R. era certamente presente nel resto della casa, tanto da essere stato rilevato, per esempio, su un mozzicone di sigaretta, né potendosi escludere su altri oggetti non repertati).
In ogni caso, circa l’onere della prova della provenienza della contaminazione, vanno richiamate le argomentazioni già sopra svolte per confutare la tesi che l’onere della prova della provenienza gravi sull’imputato che afferma la contaminazione, dovendo, al contrario, chi sostiene l’accusa basata su quel risultato provare che il procedimento e, prima ancora, la fase della repertazione siano avvenuti nel rispetto delle modalità e cautele necessarie ad evitare il verificarsi di contaminazioni; il che, per quanto sopra rilevato, non si è verificato nel caso in esame. Dunque viene meno la possibilità di utilizzare quale elemento indiziario certo la presenza del profilo genetico di S.R. sul gancetto del reggiseno.
Orma sul tappetino Fin dal pomeriggio del 2 novembre 2007 la Polizia Scientifica, in persona di B.G. – assistente capo in servizio alla Questura di Perugia – effettuò la repertazione nel bagno piccolo, quello adiacente alla camera di K.M. ed in uso alla stessa e ad K.A.M..
Quivi la B.G. (si veda pag. 100 della sentenza) fra l’altro riscontrò la presenza di un tappetino, da lei definito “intriso di sostanza ematica dove c’era impressa una forma che morfologicamente poteva sembrare un piede”.
Secondo la dr.ssa S. – biologa presso la sezione di Genetica Forense del servizio Polizia Scientifica di Roma – le tracce ematiche sul tappetino, analizzate sulla base di tre campionature, appartenevano alla vittima (pag. 198 della sentenza). In data 12/5/2008 la Procura della Repubblica affidò al dr. L.R. -ingegnere, direttore tecnico principale della Polizia di Stato, direttore di tre delle sezioni in cui si articola la Divisione Identità dell’ERT – ed all’ispettore capo dell’ERT di Roma, P.B., incarico di consulenza avente ad oggetto, tra l’altro, di comparare le impronte plantari assunte agli indagati (S.R., K.A.M. e G.R.H.) con l’impronta plantare rilevata sul tappetino ed identificata come rilievo 9F. lett. A.
Di siffatta indagine tecnica la sentenza rende ampiamente conto alle pagine 361 e segg..
Quivi si legge che tra le varie deposizioni di sostanza ematica, riscontrate sul tappetino, si distingue chiaramente quella sub lett. A, morfologicamente riconducibile ad un’orma di piede destro scalzo, in cui si possono individuare l’alluce, il metatarso ed una porzione di arco plantare, invece mancando completamente il tallone.
Secondo i rilievi effettuati dai consulenti del P.M., tale impronta presenta le seguenti misure: l’alluce mm. 33 di larghezza e mm. 39 di lunghezza; il metatarso mm. 99 di larghezza e mm. 57 di lunghezza.
A seguito di confronti con l’impronta plantare di S.R. i consulenti sono giunti ad un giudizio di identità probabile.
A loro parere, infatti, l’impronta sul tappetino presenta soprattutto una marcata analogia con quella del S.R. riguardo alla rilevante dimensione dell’alluce in larghezza (mm. 30 quella del S.R., 33 quella del tappetino) ed in lunghezza (mm. 37 e 39 rispettivamente).
Il confronto è stato effettuato mediante sovrapposizione a ciascuna impronta di comparazione ed a quella rinvenuta impressa sul tappetino di una griglia centimetrata, detta “Griglia di L. M. Robbins”, orientata in modo che l’asse verticale coincidesse con il profilo destro del piede e l’asse orizzontale con l’apice dell’alluce.
Eseguite le misurazioni, i consulenti hanno riscontrato ulteriori svariati punti di analogia dimensionale fra l’impronta di riferimento del S.R. e quella del tappetino: arco plantare: mm. 40 contro i 39 del tappetino ampiezze del metatarso misurate in punti diversi: identici valori di mm. 99, mm. 92 e mm. 75 distanza tra il vertice dell’alluce e un determinato punto verde all’inizio dell’arco plantare: mm. 93 del piede S.R., mm. 92 del tappetino.
La sentenza ha mostrato di condividere le conclusioni della consulenza di R. e B., malgrado la loro affermazione che l’impronta sul tappetino, per la mancanza di elementi altamente individualizzanti, rappresentati dalle minuzie presenti sulle creste papillari, era da considerare utile per confronti negativi ma non per quelli positivi (sentenza pag. 362). E malgrado le stesse conclusioni siano state argomentatamente contrastate dalla consulenza di parte S.R., redatta dal prof. F.V..
Sempre stando a quanto si legge in sentenza (da pag. 376), quest’ultimo ha posto l’accento su due elementi morfologici altamente individualizzanti il piede destro di S.R. e chiaramente evidenziati nell’impronta di riferimento, raccolta su foglio di carta previa inchiostrazione, vale a dire l’inesistente appoggio del secondo dito (atteggiamento cd. a martello di tale falange distale) in dipendenza di un lieve valgismo dell’alluce destro e l’altrettanto inesistente appoggio della falange distale del primo dito, rappresentato dalla rilevante assenza di continuità, nell’impronta di cui sopra, tra l’alluce e l’avampiede.
Riferisce la sentenza che secondo il prof. V. l’orma del tappetino conterrebbe l’indicazione dell’appoggio del secondo dito, a differenza di quanto appena detto relativamente all’impronta di riferimento, acquisita al S.R.. Il che condurrebbe a calcolare la larghezza dell’alluce non più in 30 mm. come ravvisato da R. e B., ma in mm. 24,8 circa.
A tale conclusione il consulente della difesa è pervenuto evidenziando l’esistenza di una netta soluzione di continuità fra l’imbrattamento ematico riferibile all’alluce ed una assai più piccola macchia, che costituirebbe l’impronta del secondo dito.
Si legge sempre in sentenza che il V. ha fatto applicazione della griglia di “Robbitis” con una diversa metodica, facendo passare appena al di sotto del metatarso la linea di riferimento (il punto zero della griglia in senso orizzontale, con tutto l’avampiede nella parte superiore), con il riscontro che tutti i punti di interesse (ad es. il vertice dell’alluce e la cd. gobba, oppure il profilo esterno destro dell’orma sul tappetino) sono fuori squadra rispetto al piede del S.R..
La Corte di primo grado (pag. 379) ha ritenuto non condivisibile il dato di partenza del ragionamento del prof. V., vale a dire l’operazione di distacco di quella particella ematica, per effetto della quale la misura in larghezza dell’alluce sul tappetino verrebbe a ridursi drasticamente.
La difesa di S.R., nell’atto di impugnazione ed utilizzando i risultati dell’elaborato V., ha censurato le conclusioni della Corte di primo grado circa la probabile riferibilità dell’impronta sul tappetino all’imputato, con argomentazioni che vengono qui di seguito esposte in uno con la loro valutazione da parte di questa Corte.
Non si può non convenire, anzitutto, che il primo giudice ha del tutto evitato di pronunciarsi su di un punto di grande rilevanza, pur dopo aver diligentemente riportato le osservazioni in proposito del prof. V..
Quest’ultimo, dunque, aveva posto in rilievo una evidente particolarità morfologica del piede destro di S.R., vale a dire il pressoché inesistente appoggio della falange distale del primo dito, rappresentato dalla rilevante assenza di continuità, nell’impronta di riferimento raccolta mediante inchiostrazione della pianta e successivo appoggio su di un foglio collocato su di una superficie liscia, tra l’alluce e l’avampiede.
Il semplice esame visivo delle fotografie del tappetino, presenti in atti ed in particolare nella relazione tecnica R. – B., rende evidente che, al contrario, nell’orma ivi impressa l’alluce ed il metatarso sono uniti in un’unica macchia ematica.
Orbene, poiché il contatto del piede con il sangue ebbe a verificarsi sul pavimento della stanza di K.M., vale a dire su di una superficie piana e rigida, la falange distale del primo dito del S.R., che non poggia, non avrebbe avuto modo di imbrattarsi e, quindi, non avrebbe nemmeno potuto lasciare la traccia ben visibile, invece, sul tappetino.
Sempre sotto l’aspetto morfologico il prof. V. ha anche sostenuto che l’orma sul tappetino presenta – diversamente da quella ricavata al S.R. – l’appoggio della falange distale del secondo dito.
Esaminando attentamente le immagini in bianco e nero alle pagg. 26 e 27 della sua relazione, si resta convinti della fondatezza di tale convincimento. Vi si nota, infatti, una traccia rotondeggiante a fianco di quella riferibile all’alluce ed in posizione leggermente inferiore all’apice dell’alluce stesso.
Si è già visto che la sentenza non condivide questa “operazione di distacco” (così definita dalla pronuncia a pag. 379) ed in proposito vi si legge che “la base della stoffa del punto in contestazione (la spugna elabora un ghirigoro a rilievo, in tale frazioncina) fa vedere che la traccia ematica è un tutt’uno su tutto il ricciolo ed è uniformemente legata con le altre parti della stoffa sui quale ha poggiato l’alluce, ragione per cui la dimostrazione che quella particella costituirebbe l’appoggio del 2° dito (mancante nella morfologia del piede di S.R.) appare assolutamente debole e non appagante “.
Senonché, se così fosse l’alluce dell’orma sul tappetino non avrebbe andamento fortemente triangolare, con apice molto più stretto rispetto alla base, come quella di S.R., ma sostanzialmente quadrangolare.
Stando alle affermazioni dei primi giudici, infatti, l’apice sarebbe il punto più largo dell’alluce, tant’è vero che argomentano come segue (sempre pag. 379): “Infine, sebbene possa convenirsi che nel calcolo della larghezza dell’alluce (i 30 mm. circa) si sia andati a ricadere in un punto non imbrattato, tuttavia la visione d’insieme del tappetino rende evidente il perché dell’operazione. Ed invero (es. foto 17 allegato fotografico dell’ERT che propone l’impronta tappetino a figura intera) posto che quella frazioncina in discussione fa parte della sommità/cupola dell’alluce, il punto all’estremità destra dei 30 mm. in larghezza si colloca lungo la linea discendente da quella sommità, in perpendicolare, senza allargamento alcuno”.
Il che è in stridente ed irrimediabile contrasto con quanto balza agli occhi osservando l’impronta di comparazione lasciata dal piede destro di S.R., in cui l’alluce ha andamento fortemente triangolare verso l’alto.
Di conseguenza il V. (pag. 59,) ha escluso la correttezza del punto di repere utilizzato da R. e B., da loro collocato ben oltre il limite del colorito rossastro riferibile al materiale ematico, che ha determinato la traccia dell’alluce, proprio in quanto convinti che la macchiolina, in effetti lasciata dalla falange distale del secondo dito, fosse parte integrante dell’apice dell’alluce stesso. Scegliendo, invece, il margine effettivamente visibile, il diametro traverso dell’alluce risulta di 24,9 mm invece che di 30.
La Corte di primo grado conclude l’argomento con quanto si legge a pag. 380: “Un dato appare, infine, alla Corte inoppugnabilmente acquisito: le stesse immagini del tappetino proposte (dal prof. V.: nota dell’est.) a colori vivaci con l’apparecchiatura di illuminazione del Crimescope aumentano il riscontro di compattezza della dimensione dell’alluce (nonché quella del metatarso) ed accrescono la percezione di unità al tutto di quella particella che si sarebbe voluto distaccare. La conseguenza è quella di non ritenere praticabile la versione alternativa che vorrebbe confutare o minare il giudizio di identità probabile a suo tempo formulato dalla Polizia Scientifica, la cui tenuta viene in gualche modo rafforzata “.
È questa, tuttavia, una mera impressione soggettiva, priva di ogni supporto logico e, men che meno, tecnico-scientifico, come tale inadatta a superare il dato oggettivo poco sopra espresso. Ma non sono solo queste le diversità morfologiche fra l’impronta sul tappetino ed il piede dell’imputato.
Come si legge a pag. 45 della relazione, il V. ha provveduto ad allineare le orme, ponendo come linea di riferimento la base dell’avampiede in quanto molto netta a ben visibile nel tappetino repertato, il che gli ha consentito di evidenziare: la diversa ampiezza dell’appoggio del primo metatarso; la diversa ampiezza di tutto l’avampiede “denotata nell’orma del S.R. dalla sporgenza oltre una prima linea gialla di riferimento della salienza dell’articolazione metatarso-falangea del secondo dito”: la diversa posizione dell’apice dell’alluce del S.R. “che va ben oltre la seconda linea gialla di riferimento allineata all’apice della traccia dell’alluce visibile sull’orma del tappetino”. A pag. 50, infine, viene posta in rilievo la diversa inclinazione assiale dell’alluce fra l’orma del tappetino e quella del S.R. ed a pag. 53 la diversa posizione di tutte le dita.
La sentenza di primo grado ha completamente evitato non tanto di prendere in esame ma anche solo di menzionare tutte queste prospettazioni.
D’altro canto, gli stessi R. e B. hanno obiettivamente posto in rilievo a pag. 19 della relazione alcuni punti di considerevole discrepanza dimensionale fra l’impronta sul tappetino e quella di riferimento del S.R., peraltro in contrasto con la loro conclusione di probabile identità.
Anche di questo aspetto nulla si legge in sentenza.
Dovendo concludere riguardo a questo argomento, la Corte ritiene di nessun valore indiziario, a carico dell’imputato S.R., l’orma impressa con materiale ematico di K.M. sul tappetino. La circostanza, evidenziata dagli stessi consulenti del PM R. e B. e riportata in sentenza, della sua utilità solo per confronti negativi e non già positivi, le incontrovertibili diversità morfologiche rispetto all’orma di riferimento prelevata a S.R., le differenze dimensionali propugnate dal prof. V. e quelle poste in rilievo dagli stessi R. e B. non consentono di condividere la valutazione di primo grado di identità probabile fra le due impronte.
Merita, a questo punto, svolgere alcune considerazioni in ordine alla possibile appartenenza dell’impronta sul tappetino.
Va menzionata, dunque, la circostanza che lungo il corridoio la Polizia ha riscontrato la presenza di impronte insanguinate e ben visibili che, partendo dalla camera di K.M., “andavano degradando verso l’esterno, verso la porta d’ingresso e progressivamente si affievolivano e diventavano quasi filiformi. Non erano, invece, visibili impronte di piede nudo” (così in sentenza a pag. 186).
Tali impronte sono risultate essere state tutte impresse dalla scarpa sinistra di R.H.G. (sentenza pag. 359).
Orbene, si è visto che l’orma sul tappetino è stata lasciata, invece, da un piede destro.
Pur senza addentrarsi in comparazioni, che non competono a questa Corte deputata ad occuparsi soltanto di K.A.M. e S.R., resta aperta ed effettivamente inesplorata la possibilità che sia stata impressa dal piede destro di R.H.G. l’orma sul tappetino.
All’esito della diversa valutazione metrica di quest’ultima, indotta dai fondati rilievi del prof. V., gli elementi dimensionali del piede di G.R.H. non sono più incompatibili con quelli rilasciati con il sangue di K.M. sul tessuto del tappetino.
Non può, dunque, escludersi che il G.R.H., dopo aver lasciato l’impronta di foto 104 sul cuscino (sent. pag. 359) e, forse, quella di foto 105 (sent. pagg. 366-367) abbia subito lo sfilamento della relativa scarpa destra nel corso delle violente manovre aggressive cui sottopose la K.M., così procurandosi l’imbrattamento ematico del piede, che provvide a lavarsi nel bagno piccolo, situato immediatamente sulla sinistra della porta della camera di K.M.. Diversamente, anche la sua scarpa destra avrebbe dovuto lasciare una qualche traccia ematica lungo il corridoio, in uscita, da lui verosimilmente percorso, invece, ancora con il piede destro scalzo, anche se ormai deterso dal sangue.
Impronte evidenziate dal luminol con profilo biologico utile È stato nel corso del secondo sopralluogo nella villetta di via (omissis) n.7, eseguito dalla Polizia Scientifica dell’Ert in data 18/12/2007, che si procedette all’aspersione con il luminol del pavimento del corridoio e della cucina – soggiorno, delle camere da Ietto di K.A.M. e di F.R., del bagno grande.
L’ispettore capo I. provvide a fotografare le tracce di piedi scalzi, evidenziate solo nel corridoio – soggiorno e nella camera da letto di K.A.M.. Durante lo scatto non adoperò nastrini metrici fluorescenti, come sarebbe stato utile per la successiva misurazione delle impronte fotografate (sent. pag. 369).
Di tali tracce (reperti da 176 a 184) riferisce la sentenza di primo grado alle pagg. 303 e segg., con specifico riguardo a quelle risultate positive alle indagini genetiche, nonché a pagg. 370-373 per quelle sottoposte ad indagini morfologiche e dimensionali in mancanza di riscontri genetici.
Si tratta di impronte di piedi nudi, rilevate nella stanza della F.R. (176 e 177), nella stanza della K.A.M. (178, 179, 180), nel corridoio (184, rectius 183).
Secondo le indicazioni delle schede SAL del laboratorio genetico della Polizia scientifica su tali impronte venne effettuata la diagnosi generica di sangue, che diede esito negativo.
Le indagini genetiche, condotte dalla dr.ssa S., biologa della Polizia Scientifica, diedero i seguenti risultati: 176 traccia di K.M.; 177 traccia mista di K.M. e K.A.M.; 178, 179, 180, profilo biologico di K.A.M.; 184 (rectius, 183) profilo genetico misto di K.M. e K.A.M..
Nel corso del dibattimento di primo grado la dr.ssa S.G., consulente della difesa, ha evidenziato che la quantità era compatibile con DNA di bassa quantità (low copy number), che l’analisi non era stata ripetuta per convalidare il risultato e che c’erano picchi non considerati che potevano indicare la presenza di altri contributori. Ha posto anche un problema di contaminazione di non genuinità delle tracce, di conseguente irrilevanza delle stesse.
La sentenza, pur dando atto che le sostanze luminol positive sono piuttosto numerose, ha argomentatamele escluso (pag. 304) che il materiale di rivestimento del pavimento della casa di via (omissis) avesse una tale caratteristica.
Ha, del pari, valutato come inverosimili le eventualità formulate riguardo a sostanze specifiche, affermando (pag. 305): “occorrerebbe infatti ipotizzare che una di tali sostanze (alcuni vegetali, succo di frutta, ruggine, candeggina, …) fosse stata sul pavimento sul quale era effettuato il test del luminal e, presente alla data del 18 dicembre … sarebbe stata interessata da una qualche traccia biologica posizionatasi su una di tali sostanze luminal positive, traccia biologica proveniente da K.A.M. e in due casi anche da K.M.”.
In particolare riguardo alla candeggina, pur dando atto della verosimiglianza che tale prodotto fosse stato asperso in tutta la casa nelle ordinarie operazioni di pulizia, ha concluso che in concreto “non è dato sapere quando e da parte di chi una tale attività di pulizia, così diffusa ed estesa e che avrebbe riguardato le varie stanze sia stata posta in essere. Nessuno, inoltre, entrando nella casa ha dichiarato di aver avvertito odore di candeggina. Inoltre, se fosse stata la candeggina sparsa per tutta la casa per una attività di pulizia che aveva riguardato i vari ambienti, si sarebbero dovute esaltare molte più tracce luminol positive di quelle rinvenute”.
Ha, pertanto, concluso che necessariamente le impronte erano state apposte con il materiale ematico di K.M., calpestato nella stanza dell’omicidio e di seguito veicolato nelle altre parti della casa dalla K.A.M..
Il convincimento della Corte di primo grado è stato impugnato dalla difesa della K.A.M. e si scontra con insormontabili contraddizioni di ordine logico e fattuale.
Anzitutto, il vero dato certo è che la diagnosi generica del sangue ha dato esito negativo. Secondo la Corte ciò avvenne per la pochezza del materiale biologico a disposizione, ma il consulente di parte prof. T. ha precisato, senza smentite (udienza 18 luglio 2009, pag. 174), che il test con la tetrametilbenzidina è molto sensibile, tanto da riuscire positivo anche in presenza di soli cinque globuli rossi. La stessa dr.ssa S., inoltre, ha chiarito (udienza preliminare del 4 ottobre 2008) che mentre l’esito positivo dell’esame potrebbe essere ingannevole in ragione della reattività dell’evidenziatore anche ad altre sostanze, l’esito negativo dà certezza sull’assenza di sangue.
In secondo luogo, premesso che esistono delle candeggine inodori o addirittura profumate – il luminol, comunque, reagisce anche ad altri detergenti – non è impossibile supporre chi possa avere effettuato le pulizie della casa. Nell’abitazione vivevano insieme quattro ragazze ed appare sensato ritenere che esse, magari a turno, provvedessero alla bisogna, tanto più che la dimora era frequentata anche da altri, fidanzati o amici che fossero, e, quindi, soggetta ancor più a sporcarsi. Il numero limitato di impronte rilevate può essere spiegato con un calpestio in tempi diversi e con l’utilizzo della candeggina solo in punti specificamente sporchi. Del resto, perplessità analoghe a quelle sollevate in sentenza potrebbero muoversi anche supponendo che si tratti di tracce ematiche: perché solo in quei pochi punti, oltretutto non consecutivi e sparsi, invece, in vari ambienti? La sentenza giunge ad una spiegazione inverosimile (pag. 306): K.A.M. “con i piedi nudi, lavati dal sangue di K.M. ma sotto i quali dovevano ancora essere rimasti dei residui di sangue, si recò nella propria stanza, nella stanza della F.R. e passò per il corridoio e su alcuni punti della stanza, interessati da tale suo passaggio, lasciò le tracce che sono state rilevate”.
A parte il paradosso di un lavaggio di piedi non accurato, resta senza spiegazione la circostanza che le tracce non siano state lasciate una dietro l’altra fin dall’uscita dal bagno piccolo – peraltro, a questo proposito si veda più oltre -, ed invece una soltanto nel corridoio, all’altezza del muro divisorio tra la stanza di K.M. e quella di K.A.M. (quindi qualche passo dopo l’uscita dal bagno); due addirittura nella più lontana stanza della F.R.; tre nella stanza di K.A.M.. Considerazione ancor più valida alla luce della contraddizione grave della sentenza, laddove (pagg. 408 e 409) suppone che, invece, le impronte siano state lasciate da K.A.M. con i piedi intrisi di sangue in quanto soltanto successivamente avrebbe proceduto a lavarsi.
Consapevole della debolezza delle sue tesi, la sentenza dà per certo (pag. 413) che un’attività di pulizia sia stata posta in essere. A tale certezza perviene sulla base della considerazione che il piede che lasciò l’orma sul tappetino non potè giungervi che attraverso dei passi che avrebbero dovuto lasciare sul pavimento altre orme, ancor più evidenti.
Pur tralasciando di considerare che l’orma sul tappetino, come si è visto, è stata attribuita a S.R. e non ad K.A.M., la spiegazione dell’incongruenza evidenziata dalla Corte può rinvenirsi nelle dichiarazioni della stessa K.A.M., la quale ha asserito di aver fatto la doccia la mattina successiva e di essere rientrata nella sua stanza trascinando con i piedi nudi bagnati il tappetino, rimesso poi al suo posto. Una conferma in tal senso l’ha fornita il prof. V., il quale ha visionato e fotografato il tappetino, evidenziando che lo stesso presentava macchie di sangue nella parte inferiore, non corrispondenti a quelle sulla parte superiore (sua relazione a pag. 37). D’altronde l’effettuazione di un’operazione di pulizia è contraddetta proprio dalle numerose tracce rinvenute nella casa.
Per superare tale obiezione la Corte di primo grado arriva a sostenere che nell’operazione di pulizia consapevolmente furono risparmiate le impronte di scarpe, per indirizzare i sospetti su altri (pag. 416). Ma a far desistere da un siffatto proposito sarebbe stata certamente la consapevolezza che i proprietari di quelle scarpe, una volta identificati proprio grazie alle impronte, avrebbero potuto effettuare successivamente una devastante chiamata di correità. Assai meglio sarebbe stato cancellare tutto. Del resto, nel bagno in questione sono state rinvenute varie altre macchie ematiche, di cui si parlerà appresso, non fatte oggetto di ripulitura.
Per chiudere il capitolo pulizia, contraddetto da argomenti logici e fattuali, è da considerare, infine, che non sono stati trovati strofinacci sporchi di sangue né in via (omissis) né a casa di S.R. (la sentenza non affronta affatto tale aspetto), materiale che, secondo la pronuncia, sarebbe stato acquistato da K.A.M. la mattina presto del 2 novembre presso l’esercizio del Q.. Questi, tuttavia, a prescindere dall’attendibilità del suo racconto, ha escluso di aver visto la K.A.M. effettuare acquisti, tanto meno di quel tipo – del che già si è trattato -.
Resta senza spiegazione anche un’altra importante circostanza: soltanto due tracce contengono un profilo misto K.M. – K.A.M., la 176 in camera della F.R. e la 183 nel corridoio. Le altre sono riferibili alla sola K.A.M. e la traccia 176, lasciata nella stanza della F.R., addirittura soltanto a K.M.. Se fosse plausibile la spiegazione della Corte di primo grado dovrebbero tutte contenere un profilo misto o, comunque, anche quello di K.M. soltanto.
Con un pò di buon senso è utile, invece, ricordare che le ragazze vivevano in comune in quella casa, erano tutte amiche, e chissà quante volte sono andate su e giù nelle varie stanze a piedi nudi, come di sovente fanno i giovani, lasciando in qua e là le proprie tracce, anche casualmente sovrapponendole, verosimilmente sulla candeggina ma senza escludere del tutto qualche altra possibilità, come una macchia di succo di frutta o di brodo vegetale.
Ed infatti – come già sopra ricordato – la dr.ssa S. (pagg. 221, 228) ha riconosciuto che non è possibile datare il momento del rilascio del DNA né stabilire l’ordine cronologico in cui più tracce siano state apposte, anche l’una sull’altra.
A questo riguardo occorre, allora, riflettere che l’orma 183 è stata repertata in corrispondenza di un’impronta di scarpa di G.R.H. in direzione uscita, cosicché può essere stata questa a contaminare con il DNA di K.M. quello di K.A.M..
E sempre a proposito di contaminazione, prima del 18 dicembre, giorno in cui è stato utilizzato il luminol, la Polizia ha eseguito operazioni di perquisizione degli ambienti della casa e può esservi stato casuale trascinamento di materiale genetico.
Ma anche sotto il profilo genetico le convinzioni della Corte di primo grado non sono condivisibili.
Secondo la dr.ssa G., consulente della difesa K.A.M., in tali tracce il DNA sarebbe di bassa quantità (low copy number) con la necessità di ripetizione delle analisi.
Si legge in sentenza che l’attendibilità e l’affidabilità del risultato delle analisi deriva dalla bontà della strumentazione, dalla sottoposizione della stessa alla manutenzione prescritta, dalla correttezza della metodica. È, inoltre comprovata dalla circostanza che i risultati non sono isolati: la traccia mista con profilo biologico riconducibile a K.M. e ad K.A.M. è apparsa in due casi, mentre quella relativa alla sola K.A.M. è comparsa in altri quattro casi.
In realtà, la qualità della strumentazione nulla può quando la quantità di DNA è insufficiente per dare un risultato affidabile. In proposito la perizia C.-V., disposta da questa Corte, ha chiarito che al di sotto dei 200 pg. l’interpretazione del risultato non è univoca e, comunque, è necessario ripetere la quantificazione del DNA e procedere anche a più analisi confermative.
Nel caso delle impronte evidenziate dal luminol questa sana e corretta pratica non è stata utilizzata ovvero non è stato possibile effettuarla: tanto basta per non ricavare alcuna sicurezza in ordine ai risultati.
Per concludere sull’argomento, le impronte in questione, a parere di questa Corte, non posseggono alcun valore indiziario a carico di K.A.M..
Impronte evidenziate dal luminol senza profilo biologico utile Sono stati contrassegnati con i numeri 1, 2 e 7 i reperti costituiti da impronte latenti evidenziate con il luminol nella stanza della K.A.M. e nel corridoio della casa di via (omissis), risultate prive di profilo biologico utile.
Anche la valutazione di queste è stata affidata dal Pubblico Ministero al dr. R. ed all’Ispettore B..
I due hanno precisato (sentenza da pag. 369) che le relative fotografie erano caratterizzate da assenza di riferimento metrico. Erano state anche scattate non in condizioni di perpendicolarità rispetto al pavimento, ove erano apposte, per cui era stata necessaria un’operazione di correzione della prospettiva. Questa era stata eseguita prendendo a confronto il rilievo 5, contenente il riferimento metrico certo. Ciò aveva permesso di ottenere le dimensioni della mattonella del pavimento su cui le orme erano impresse. La prima misura conseguita era stata di mm. 169,3 per l’altezza e di mm. 336 per la base. Un successivo ripensamento aveva ridotto l’altezza a mm. 162.
Secondo i consulenti del PM (sentenza da pag. 371) il rilievo 1, presente nella camera da letto della K.A.M., è un’impronta di piede destro compatibile con quella di comparazione, ottenuta dalla K.A.M..
Il rilievo n. 2, presente nel corridoio in direzione dell’uscita, è un’impronta di piede destro compatibile con quella di comparazione, ottenuta dal S.R..
Il rilievo n. 7, rilevato nel corridoio davanti alla porta della stanza di K.M. ed orientato verso l’entrata, è un’impronta di piede destro compatibile con quella di comparazione, ottenuta dalla K.A.M..
Ritiene questa Corte che si tratti di elementi del tutto inconferenti al fine di un’attribuzione di responsabilità a carico degli imputati.
A detta degli stessi R. e B., anzitutto, tali rilievi sono utili soltanto per confronti negativi e non già positivi, per la mancanza delle minuzie presenti sulle creste papillari.
Essi, inoltre, sostengono che le impronte siano state impresse per soltanto verosimile deposizione di sostanza ematica. A tale valutazione giungono semplicemente perché l’evidenziazione è avvenuta per reazione al luminol.
Si è poco sopra già detto, però, che varie altre sostanze, alcune di uso comune, sono reagenti al luminol, cosicché anche l’attribuzione di sola verosimiglianza della presenza di sangue appare inadeguata in eccesso: più appropriata sarebbe stata la definizione di semplice possibilità.
D’altro canto, l’esclusione di presenza di sangue, a seguito dell’esame con la tetrametilbenzidina, nelle impronte di cui si è parlato poco sopra conduce a ritenere assai improbabile che in queste, invece, e solo in queste il sangue sia presente.
A tanto si giunge, almeno per l’impronta di cui al rilievo n. 7, anche in base a considerazioni meramente logiche. Si è detto che si tratta di impronta di piede destro orientata verso l’ingresso della camera di K.M.: appare ragionevole pensare che, se fosse stata deposta per imbrattamento ematico avrebbe dovuto essere orientata in uscita. Rebus sic stantibus, invece, si dovrebbe trovare una plausibile giustificazione del suo contrario posizionamento verso l’entrata: del che nulla si trova in sentenza.
La presenza delle impronte attribuite ad K.A.M. trova, comunque, piena giustificazione nella circostanza che ella viveva nella casa, ove le è sicuramente capitato di aggirarsi in qualche occasione a piedi nudi, lasciando tracce sul pavimento, reso ricettivo da un detergente per pulizia ovvero da qualche .altra sostanza sensibile al lumino).
Analoga giustificazione può trovare anche l’unica impronta attribuita a S.R. (rilievo n. 2). Egli si era recato, secondo K.A.M., forse tre volte in via (omissis) (sentenza pag. 65) presente K.M. e (sent. pagg. 54, 55) nella giornata del 1° novembre egli ed K.A.M. si erano trattenuti nella villetta da soli, dove avevano anche pranzato. Trattandosi di una giovane coppia, formatasi appena da pochi giorni, non è improbabile che in quella circostanza si siano intrattenuti in intimità, compiendo qualche passo anche a piedi nudi.
Ad ogni buon conto, perplessità sussistono anche in ordine alla correttezza del giudizio di compatibilità, affermato dai consulenti del PM sulla base di valutazioni dimensionali.
Il consulente di parte S.R. prof. V. ha evidenziato (da pag. 69) tutte le difformità, morfologiche fra l’orma di cui al rilievo n. 2 e quella di comparazione rilasciata dal S.R..
Come si è già visto in altra parte l’orma di S.R. presenta marcati caratteri individualizzanti: mancato appoggio della falange distale del secondo dito e mancato appoggio della prima falange dell’alluce.
Per contro, esaminando visivamente le due tracce in comparazione, nel reperto n. 2 risultano evidenti sia l’impronta del secondo dito sia l’appoggio della prima falange del primo dito.
Il suddetto esame visivo porta anche a cogliere ulteriori difformità, riguardanti il differente posizionamento dell’estremo superiore del tallone anteriore e la sua diversa curva laterale destra.
Il prof. V. ha elencato anche altri particolari – meno evidenti – di differenziazione: l’andamento della linea ottenuta congiungendo l’apice delle dita e la posizione di tutte le dita, con particolare riferimento alla traccia del quinto dito.
Quanto all’analisi metrica, il consulente del S.R. (pag. 76) ha premesso che la documentazione fotografica delle orme evidenziate con il luminol nel corso del sopralluogo del 18 dicembre 2007 soffre di gravi pregiudizi tecnici, in quanto non si provvide ad effettuarla ortogonalmente rispetto alle orme evidenziate e non furono utilizzati nastrini fluorescenti come riferimenti metrici precisi. Il che ha condotto il dr. R. e l’isp. B. a quell’operazione di correzione della prospettiva che è stata più sopra sommariamente menzionata.
Un primo risultato, tuttavia, è stato riconosciuto errato dallo stesso R. all’udienza del 9 maggio 2009, imputandolo a difetti di parallasse ed affermando di aver proceduto ad una correzione con il riportare gli angoli retti a 90 gradi e con il rifacimento del calcolo delle misure, senza, peraltro, indicare il criterio ed il calcolo matematico seguiti.
Questi parametri di riferimento, così faticosamente elaborati, hanno comportato delle misurazioni dell’orma evidenziata dal luminol con valori tutti notevolmente diversi nella consulenza R.-B. rispetto a quella V.. Secondo quest’ultimo il piede che l’ha impressa è da ritenersi notevolmente più piccolo di quello del S.R., una misura ragguagliabile alla taglia 36-37. Ebbene, a fronte di queste obiezioni, tutte adeguatamente e convincentemente documentate, riguardanti sia l’aspetto morfologico che quello dimensionale del rilievo n. 2, assolutamente nulla si legge in sentenza dei motivi che hanno indotto la Corte di primo grado a preferire i risultati R.-B.. Questi, infatti, sono stati recepiti, si potrebbe dire, “a chius’occhi”, senza nemmeno fare menzione delle contrapposte tesi del V.
A prescindere da queste considerazioni, tuttavia, deve confermarsi che nessuna efficacia, dal punto di vista accusatorio, può riconnettersi all’orma di cui al rilievo n. 2, considerato che gli stessi R.-B. l’hanno definita utile solo per riscontri negativi ma non per riscontri positivi. L’assenza di profilo biologico deve, inoltre, condurre ad escludere che esse siano state impresse con materiale ematico e, infine, la frequentazione della casa da parte del S.R. ne giustifica la presenza, come si è già detto.
Argomentazioni del tutto analoghe vanno svolte riguardo ai rilievi n. 1 e n. 7, attribuiti ad K.A.M.
All’udienza del 6 luglio 2009 il prof. T., consulente di parte, ha evidenziato che, sotto l’aspetto morfologico, il piede destro della K.A.M. ha il secondo dito più lungo dell’alluce, al contrario delle orme evidenziate dal luminol. A prescindere, anche a questa Corte, nella comparazione delle immagini della stessa consulenza R. – B., appare chiaro che la posizione di tutte le dita risulta diversa.
Anche a questo riguardo, nessun cenno nella sentenza.
Va, comunque, detto che la presenza delle impronte della K.A.M., soprattutto quella del rilievo n. 1, accertata nella sua stanza, è ancor più inconferente, visto che ella abitava nella casa e può averle apposte in qualsiasi momento.
Anche per queste, naturalmente, vale l’affermazione di utilità solo per confronti negativi e non positivi e per la mancata dimostrazione che siano state impresse con il sangue. Tracce ematiche nel bagno piccolo Si è già visto che fu l’assistente capo Gioia Brocci, il pomeriggio del 2 novembre 2007, ad effettuare la repertazione nel bagno piccolo, adiacente alla camera di K.M..
Ella ha dichiarato (sentenza pag. 100) che, oltre al tappetino di cui in altra parte si è trattato, in tale bagno erano presenti tracce che apparivano di natura ematica.
Ha precisato che si trattava di gocciolature dal colore roseo “non il rosso caratteristico della sostanza ematica”. Quest’ultimo lo riscontrò solo sul rubinetto del lavandino.
Circa le modalità di repertazione, ha affermato di averle effettuate con un’unica carta bibula, perché “la goccia a monte e lei goccia a valle avevano una stessa continuità; e erano piccole gocciolature nella stessa linea, quindi per colore e per continuità di sgocciolamento ho ritenuto opportuno prelevarle con un unico dischetto” (così all’udienza del 23/4/2009).
Tracce che apparivano di natura ematica erano anche presenti sulla scatola di cotton fioc, sulla tavoletta del water, sull’interruttore della luce e sul bidè “e c’era sempre la goccia a monte, proprio sul bordo e la stessa continuità fino al sifone del bidè, del solito colore e nella stessa linea”. Tracce erano presenti anche sulla porta del bagno, queste, però, non come se fossero annacquate ma di un colore rosso vivo.
All’udienza del 22/5/2009 la dr.ssa P.S., biologa presso la sezione di genetica forense della Polizia scientifica di Roma, ha riferito (sent. pag. 198 e 204) che sull’interruttore della luce, sulla tavoletta copri water e sull’impalcatura della porta era stato trovato il sangue della vittima, mentre le campionature effettuate sul bidè, sul lavandino e sul contenitore di cotton fioc avevano rivelato sangue umano ed un profilo misto della K.M. e della K.A.M.. La campionatura eseguita sulla parte anteriore del rubinetto del lavabo aveva rivelato, invece, sangue umano ed il profilo genetico della sola K.A.M..
Le difese degli imputati hanno severamente criticato le modalità di repertazione utilizzate riguardo al lavandino ed al bidè.
È stata proiettata in aula la parte di filmato relativa a tale procedura: vi si vede perfettamente l’assistente B. passare e ripassare più volte il medesimo tampone di carta bibula, con un movimento di trascinamento, dall’orlo del lavandino giù fino all’apertura dello scarico e viceversa e ciò sui due lati. Medesima procedura per il bidè, dove il tampone – si suppone diverso dal primo – viene utilizzato per un’accurata pulizia della zona del tappo di scarico.
Con riguardo a questa modalità la dr.ssa S. ha osservato (sent. pag. 212) “che apparentemente può sembrare non idonea per la repertazione” ma in quello specifico contesto lo era “per la tipologia di tracce che sono state reperiate” che “erano chiaramente rosate, quindi apparivano come tracce sicuramente annacquate ed erano apparentemente tutte della stessa origine perché erano delle gocciolature avevano una sorta di rigagnolo che partiva dall’alto e finiva allo scolo”. A suo giudizio era improbabile che si trattasse di due DNA in partenza separati ed unitisi a formare un’unica traccia e ciò, come si legge in sentenza a pag. 212, “sia per il medesimo punto interessato ossia per lo stesso aspetto di sangue molto diluito”. Affermazione sulla cui genericità ed inconsistenza è inutile richiamare l’attenzione, tanto più che è in netto contrasto con altra dichiarazione, assai più logica e condivisibile, della stessa S., riportata più avanti. Orbene, non è possibile convenire con quanto affermato dalla dr.ssa S. in ordine alla correttezza della modalità di repertazione delle tracce sul lavandino e sul bidè. Anche ad una mente profana si palesa evidente che i due sanitari in questione, deputati alla pulizia personale, costituiscono un ricettacolo naturale del DNA, che viene rilasciato con facilità mentre ci si lava: cellule epiteliali, fluidi organici (sudore, saliva), formazioni pilifere scorrono trascinate dall’acqua e, almeno in parte, si trattengono sulla superficie della ceramica, in particolare nella zona dello scarico, e vi restano in mancanza di una pulizia frequente ed accurata.
Va ricordato che l’assistente capo B. ebbe a dichiarare di aver repertato {sent. pag. 100) sul lavandino anche un pelo, del quale, peraltro, non si ha notizia dei risultati forniti dall’analisi genetica, se realizzata. E sul rubinetto si è trovato sangue solo della K.A.M..
Il bagno piccolo in questione era in uso alle due ragazze, K.M. ed K.A.M., mentre le altre due (F.R. e L.M.) usavano il bagno più grande.
Sembra, quindi, del tutto verosimile che DNA delle due ragazze potesse trovarsi sui sanitari del bagno piccolo.
In una tale situazione la repertazione mediante ripetuto strusciamento dal bordo fino allo scarico e viceversa, e ciò su entrambi i lati con il medesimo tampone di carta bibula, al contrario di quanto sostenuto dalla dr.ssa S. si palesa come la meno indicata al fine di ottenere un risultato tranquillizzante. Sicuramente in tal modo è stato raccolto tutto il DNA presente sul percorso, creandone una mistura che all’origine probabilmente non esisteva.
Occorre ricordare quanto affermato in via generale proprio dalla S. e riportato a pag. 221 della sentenza: non è possibile datare una traccia né è possibile stabilire se una sia stata lasciata prima di un’altra.
Più precisamente, con specifico riferimento alle tracce sul lavandino e sul bidè, ha dichiarato, come si legge in sentenza alla pag. 228 “che erano asciutte e non era possibile datarle né stabilire se per prima fu posta la traccia riconducibile alla K.A.M. e poi quella riconducibile alla vittima, o viceversa”.
Appare, dunque, del tutto ininfluente, ai fini di una decisione sfavorevole alla K.A.M., che sui sanitari sia stato rinvenuto DNA misto suo e della vittima.
Se, infatti, la mistura fosse stata preesistente al momento dell’apposizione, avrebbe dovuto rinvenirsi anche sulla tavoletta del water, sull’interruttore della luce e sull’impalcato della porta: il che non è stato, sicuramente perché chi ha apposto il sangue della vittima in quel preciso punto non ha trovato un DNA deposto precedentemente.
Ancora più discutibile il risultato genetico delle campionature sul recipiente di cotton fioc: ad avviso della S. (sent. pag. 223) potrebbe esservi presente anche una terza persona, sempre di sesso femminile. E ciò perché gli alleli erano molto omogenei in altezza e si poteva pensare ad accoppiamenti diversi rispetto a quelli attribuiti a K.A.M. e K.M., così da includere altre persone rispetto a quelle già presenti. Opinione condivisa dalla dr.ssa T., consulente della parte civile familiari di K.M. (sent. pag. 243).
Il che fa pensare alla sovrapposizione di tracce in tempi diversi, per essere passato il barattolo in più mani, piuttosto che ad un unico contatto dell’assassino.
Non può, quindi, convenirsi con le conclusioni che la sentenza fa in proposito a pagg. 405 e seg..
Secondo la Corte di primo grado i due imputati, sporchi del sangue di K.M., si sarebbero recati nel contiguo bagno piccolo ed ivi si sarebbero lavati (occorre ricordare che, sempre secondo i primi giudici, l’impronta sul tappetino sarebbe stata lasciata dal piede destro di S.R.).
Ma, se così fosse accaduto, non si spiega come mai non sia stata ritrovata la minima traccia genetica di S.R. nel bagno piccolo, malgrado che l’operazione di sfregamento, dovuta alla ripulitura, dovesse comportare la perdita di cellule di sfaldamento (come si legge sempre in sentenza). La circostanza che sia stato rinvenuto solo il DNA di K.A.M. con quello di K.M., induce a ritenere che la mistura sia stata opera della Polizia durante una inappropriata opera di repertazione. Maggiore affidamento sulle analisi si potrebbe fare, infatti, se la repertazione fosse stata puntiforme e non per strusciamento insistito e ripetuto in punti diversi di ciascun sanitario.
Simulazione di furto La Corte di Assise di primo grado, condividendo la tesi di accusa, ha ritenuto che la rottura del vetro della finestra di una stanza della casa di Via (omissis) (quella in uso a F.R.) ed il rovistamento nella stessa siano non già i segni di un ingresso illecito nell’abitazione con l’intento di rubare ma soltanto il voluto effetto della messa in scena di un furto, in realtà mai ideato, da parte di chi aveva interesse a far ricadere su altri, che non avevano la disponibilità delle chiavi per entrare nella casa, la responsabilità per l’omicidio di K.M.. E poiché, a parte la stessa vittima, soltanto le altre ragazze che condividevano la casa potevano entrare con le chiavi, interesse a simulare il furto, ad effettuare dunque il depistaggio, potevano averlo – secondo tale tesi – soltanto K.A.M., e S.R. che stava con lei. Non le altre due ragazze che quella notte erano rimaste sicuramente lontane da quella casa: l’una (L.M.) addirittura in altro paese (Montefiascone), l’altra (F.R.) in Perugia ma a casa del suo ragazzo di allora, in tutt’altra zona.
E l’avv. di parte civile M. ha parlato di “splendido parallelismo” tra il reato di simulazione del furto e quello di calunnia in quanto – a suo dire – entrambi posti in essere nell’ambito di un disegno unitario, diretto a trarre in inganno gli investigatori circa gli autori del delitto.
Il parallelismo, però, non appare davvero cosi “splendido” se si considera che D.L., indicato nelle “spontanee dichiarazioni” da K.A.M. come autore dell’omicidio, non aveva nessuna attitudine a rivestire il ruolo, in ipotesi assegnatogli, come autore del tentativo di furto, considerato che l’assenza di precedenti di questo genere e la totale inesperienza in ingressi attraverso finestre, poste per di più ad una certa altezza, non avrebbero potuto consentire di radicare su di lui i sospetti per l’ingresso attraverso la finestra e tanto meno con l’intento di rubare. Ma, in verità, si potrebbe sostenere che l’interesse a simulare un furto avrebbe potuto essere proprio anche dello stesso R.H.G., non potendosi escludere che egli, avendo frequentato talvolta l’abitazione posta al piano sottostante (ove abitava anche il ragazzo di allora di K.M., G.S.) fosse conosciuto da K.M. quel minimo sufficiente a tranquillizzarla nel farlo entrare in casa, magari con la scusa di dovere andare in baglio, ove poi era realmente andato. Ed allora si potrebbe sostenere che, a quel punto, dopo il tragico accadimento, R.H.G., proprio perché era stato fatto entrare dalla porta di ingresso, abbia pensato di allontanare da sé i sospetti di chi, magari a sua insaputa, lo avesse per caso visto mentre gli veniva aperta la porta, simulando che altri ignoti fossero entrati nella casa attraverso la finestra. La Corte di Assise di primo grado esclude che R.H.G. possa avere avuto interesse a simulare il furto mediante effrazione della finestra, ricordando che egli proprio pochi giorni prima era stato sorpreso all’interno di un asilo di Milano dove si era introdotto illecitamente di notte e che era stato indicato come probabile autore di altri furti, cosicché sarebbe stato davvero singolare – così argomenta quella Corte – che per sviare da sé i sospetti avesse simulato la verificazione di una attività illecita che gli era consueta. In verità, si potrebbe rispondere che sono proprio quegli elementi, che inducono la Corte a ritenere trattarsi chiaramente di una simulazione, a far pensare che R.H.G., mettendo in scena una simulazione evidente, abbia ritenuto di allontanare da sé i sospetti, dal momento che un ladro di professione non simula un furto ma lo commette davvero.
Sennonché ritiene questa Corte che quelle ipotizzate sono soltanto delle congetture, dal momento che non vi è ragione per affermare che si sia trattato di una messa in scena anziché di una reale violazione di domicilio a scopo di furto, abbandonato per il tragico evolversi degli avvenimenti. La convinzione che si sia trattato di una messa in scena deriva – secondo la Corte di Assise di primo grado – da diversi elementi rilevati in sede di sopralluogo: il vetro che sarebbe finito sopra gli oggetti spostati dall’ipotetico intruso, dal momento che gli oggetti, se rovistati dopo l’ingresso all’interno della camera, avrebbero dovuto trovarsi sopra i frammenti di vetro e non sotto; il fatto che non sono stati evidenziati all’esterno i segni di una arrampicata sul muro (un chiodo infisso nel muro esterno è risultato del tutto dritto ed integro, laddove una eventuale arrampicata, difficoltosa per essere la finestra a 3 metri di altezza, avrebbe dovuto comportare quanto meno lo spostamento o la piegatura di tale chiodo; la difficoltà della effrazione con un sasso, considerato che le persiane, lasciate accostate dalla F.R. per la difficoltà di chiuderle a causa del rigonfiamento del legno avrebbero dovuto dapprima essere aperte.
La Corte di Assise di primo grado, dunque, partendo dal dato che le persiane, se chiuse (come affermato dalla F.R. all’udienza del 7.2.2009), o anche invece soltanto tirate ma non chiuse (come affermato in precedenza sempre dalla F.R. il 3.12.2007) per la difficoltà di chiuderle a causa del rigonfiamento del legno, non avrebbero consentito, a chi si fosse proposto di entrare dalla finestra previa effrazione del vetro con un sasso, di attuare il proprio intento, dovendo in qualche modo aprirle prima, ha valutato troppo macchinosa e rischiosa, per essere verosimile, l’attività necessaria per entrare in casa dalla finestra: una prima ascensione per aprire le persiane, e poi una seconda ascensione, dopo avere lanciato un sasso per rompere il vetro della finestra. Inoltre – ad avviso di quella Corte – gli scuri posti dietro i vetri avrebbero rappresentato un altro ostacolo.
Sennonché quella che può sembrare attività laboriosa a chi non ha alcuna esperienza in tal senso, può rivelarsi fattibile, anche se non particolarmente agevole, da parte di chi ha maturato tale esperienza. Né l’altezza della finestra (circa 3 metri e mezzo) può essere considerata ostacolo insuperabile, dal momento che la presenza di un chiodo sulla parete sottostante e di una finestra con grata, rappresentavano validi punti di appoggio, tanto che (esperimento certo perché filmato senza che ne sia stata posta in discussione la veridicità) un collaboratore di studio dell’avv. M. è riuscito agevolmente nell’intento di raggiungere la finestra a scopo dimostrativo, senza che il chiodo si sia piegato o altre tracce siano rimaste sulla parete. Non si vede, dunque, perché il chiodo non avrebbe dovuto reggere al peso di altri o perché avrebbero dovuto essere lasciate all’esterno tracce evidenti. Peraltro, è notorio con quanta facilità soggetti dediti a furti in appartamenti riescano ad entrare attraverso finestre poste ad altezze ben superiori, tanto da avere indotto molti proprietari a collocare grate anche ai piani più alti.
Questa Corte ritiene, peraltro, che le persiane fossero accostate ma non chiuse: in primo luogo perché la dichiarazione resa dalla F.R. in data 3.12.2007 (“le persiane le avevo tirate, però penso di non averle chiuse”) è maggiormente attendibile di quella resa all’udienza del 7.2.2009 (ricordava di “…avérla chiusa anche perché sapevo che sarei mancata qualche giorno…”), essendo la prima dichiarazione più vicina nel tempo ai fatti riferiti, quando dunque il ricordo doveva essere più vivido, in secondo luogo perché è proprio il fatto che, essendo il legno rigonfiato, le persiane strusciavano sul davanzale a rendere verosimile che ella, per non dover affrontare lo sforzo di tirarle ancora più in dentro per chiuderle, le abbia lasciate semplicemente accostate, fermate soltanto dalla presenza del rigonfiamento.
Dunque, non sono certo le modalità dell’ascensione o l’assenza di tracce particolari sulla parete che possono indurre a ritenere che si sia trattato di una simulazione.
La Corte di Assise di primo grado, sempre condividendo la tesi del P.M., ha ritenuto che il lancio di un sasso dal terrapieno posto dinanzi alla finestra, al fine di infrangere il vetro, sia operazione non agevole: ma il consulente della difesa, maresciallo F.P., ha dimostrato che tale operazione era invece possibile ed agevole per chi avesse avuto una qualche esperienza, sempre che le persiane fossero aperte o perché lasciate così o perché aperte dallo stesso autore prima di effettuare il lancio. In realtà non sono stati prospettati argomenti idonei a superare la dimostrazione della fattibilità dell’operazione operata dal maresciallo P. e, del resto, la vicinanza del terrapieno alla finestra induce a ritenere, anche in base a dati di comune esperienza, che ciò era ben possibile, tanto che il P.M. nella sua requisitoria ha insistito sulla centralità del punto della apertura o meno delle persiane, nella evidente consapevolezza che la situazione di apertura avrebbe consentito la fattibilità del lancio per infrangere il vetro.
Inoltre, la sussistenza degli “scuri” non poteva costituire un ostacolo alla rottura del vetro: non risulta che gli scuri fossero stati a loro volta fermati e, d’altra parte, il segno nel legno in corrispondenza della infrazione del vetro è sintomatico della forza dell’impatto del sasso contro il vetro e quindi contro lo “scuro”.
Ma la prova regina della simulazione sarebbe – secondo quella Corte – la mancanza di vetri sotto il davanzale della finestra, all’esterno dell’abitazione, e la presenza di vetri sopra gli indumenti e gli oggetti che si trovavano all’interno della stanza; il che dimostrerebbe che la rottura del vetro della finestra fu successiva e non antecedente al rovistamento, a quel punto chiaramente effettuato solo per inscenare un tentativo di furto.
Anche su questo punto, però, questa Corte dissente, dal momento che la dinamica del lancio del sasso e la forza di impatto non rendevano necessario che alcuni vetri finissero all’esterno anziché all’interno della stanza, ove in realtà i vetri non apparivano soltanto sopra gli oggetti o gli indumenti ma anche sotto, come risulta dalla deposizione resa dalla F.R. all’udienza del 7.2.2009, che rappresenta una situazione della stanza estremamente caotica, tutta un “miscuglio”. Così testualmente: “…PRESIDENTE – Scusi che significa un miscuglio? RISPOSTA – Era un miscuglio di vetri, vestiti, vetri… PRESIDENTE – Quindi erano anche sotto i vetri? RISPOSTA – Si, erano anche sotto, ma anche erano sopra.
PRESIDENTE – Quindi un miscuglio in questo senso.
RISPOSTA – Sì sì…” Ed anche l’ispettore B., a ben vedere, riferisce di una situazione molto caotica e non già di vetri rotti collocati soltanto sopra le cose. Così testualmente all’udienza del 6.2.2009: “…PUBBLICO MINISTERO – I vetri stavano, dove stavano i vetri? TESTE – I vetri erano a terra e la cosa curiosa, che a me mi saltò all’occhio è che questi vetri erano anche sopra i vestiti…” I vetri, dunque, furono notati “anche” sopra gli oggetti e non già “soltanto” sopra gli stessi.
Ed anche il teste A. parla di vetri sia sopra che sotto, mentre il teste Z. ha fatto presente di essere stato colpito dalla collocazione di vetri sopra gli oggetti ma con ciò non ha affatto negato che i vetri fossero anche in terra.
Ma questa situazione, vetri sul davanzale e nella stanza sparsi un pò ovunque, è rappresentata anche dalle fotografie e dai filmati effettuati dalla stessa Polizia e proiettati in aula dalla difesa. Né si può sostenere che le fotografie ed i filmati non siano rappresentativi della situazione perché già in parte alterata dal movimento della Polizia e dall’ingresso in casa degli stessi occupanti, dal momento che si tratta di fotografie e filmati effettuati nella immediatezza del sopralluogo, quando la Polizia doveva avere ragionevolmente mantenuto più o meno inalterata tutta la situazione.
Ed il miscuglio può essere spiegato con il fatto che l’altezza della finestra, più alta rispetto almeno ad alcuni degli oggetti contenuti nella stanza, può avere consentito ai vetri, per effetto della spinta acquisita dalla forza di impatto del sasso che aveva infranto la finestra, di finire sopra anziché sotto alcuni oggetti ma anche l’attività di rovistamento, svolta ovviamente in modo frenetico, se effettuata in un ambiente ove si trovano sparsi dei vetri, può far sì che alcuni vetri finiscano su alcuni oggetti o indumenti anziché sotto. Va anche ricordato che il filmato, effettuato dalla polizia scientifica in sede di sopralluogo, evidenzia la presenza di un frammento di vetro accanto a una impronta di piede nella stanza di K.M.. Il che induce logicamente a ritenere che l’effrazione della finestra sia avvenuta prima dell’ingresso nella camera di K.M., non essendovi ragione per ipotizzare che dopo l’asserita simulazione del furto, posta in essere per sviare i sospetti per la responsabilità del delitto già consumato, l’autore della stessa abbia avuto motivo di tornare di nuovo nella camera di K.M., lasciando così un frammento di vetro, rimasto attaccato alla suola della scarpa o agli indumenti indossati.
La Corte di Assise di primo grado ha ritenuto che ciò possa essere spiegato con la considerazione che, dopo la simulazione del furto e la rottura della finestra, chi aveva realizzato ciò si sia portato nella stanza di K.M. per chiudere la porta o/e per coprirne il corpo senza vita con la trapunta. Tale spiegazione non sembra molto verosimile, considerato che dopo l’asserita simulazione del furto, l’autore della stessa aveva l’esigenza di allontanarsi dall’abitazione al più presto, potendo la visione della rottura del vetro anche dall’esterno suscitare motivo di allarme a chi anche accidentalmente si fosse trovato a sopraggiungere nei pressi della casa; in ipotesi, laddove si fosse trattato di simulazione, questa sarebbe stata posta in essere dopo la collocazione della trapunta sul corpo e la chiusura della porta della stanza e non prima.
Va, infine, osservato che il fatto che poi non sia stato asportato alcunché non esclude che l’intenzione originaria fosse stata quella di penetrare all’interno dell’appartamento per rubare, dal momento che è ben comprensibile che, visto il drammatico evolversi degli eventi, poi tale intenzione sia stata totalmente abbandonata per fuggire al più presto dall’abitazione. Ma se dalla considerazione delle modalità di ingresso, obiettivamente fattibili, si passa anche alla considerazione della attitudine ed esperienza soggettiva, non si può non attribuire rilevanza ai precedenti specifici di R.H.G. (il termine precedente viene utilizzato non in senso tecnico, di annotazioni sul certificato del casellario, ma in senso generico come esperienze comunque accertate e non negate neanche dall’interessato).
R.H.G. più volte, infatti, si era reso protagonista di furti in appartamenti o uffici: in uno studio legale di Perugia allorché aveva asportato, previa effrazione con un grosso sasso di una porta finestra posta su un terrazzino, a circa 3 o 4 metri di altezza, un computer ed un cellulare; all’interno di un asilo a Milano, allorché venne rinvenuto nel suo zaino anche un coltello da cucina avente la lunghezza di 40 cm. asportato dalla cucina dell’asilo; ed ancora all’interno dell’abitazione del sig. T., allorché, essendo stato scoperto, si era guadagnato la ruga minacciando costui con un coltello a serramanico.
Ebbene, la Corte di Assise di primo grado, per escludere la rilevanza indiziaria di tali precedenti nei confronti di R.H.G., ha evidenziato le differenze tra detti episodi e la presunta introduzione attraverso la finestra nell’appartamento di Via (omissis). Tale operazione di distinzione però non sembra rilevante dal momento che, mentre le differenze trovano, ovviamente, ragione nella diversità di luoghi, tali da richiedere ciascuno una modalità di ingresso particolare, le analogie, che non sono poche (si tratta pur sempre di furti all’interno di stabili, talvolta posti in essere proprio previa effrazione di una finestra con un grosso sasso), dimostrano l’attitudine di R.H.G. a commetterli e l’esperienza già maturata.
Né vale osservare che il collaboratore di studio dell’avv. M., che ha effettuato l’esperimento, è più alto di R.H.G. e dunque facilitato nella ascensione, perché in realtà R.H.G., per quanto più basso, è tuttavia agile e sportivo tanto che giocava a Basket. Il che induce a ritenere che egli ben poteva penetrare all’interno della casa di Via (omissis) con le modalità descritte. Ma – si dice – possibile che R.H.G., essendo conosciuto in quanto aveva talvolta frequentato la casa, non trovasse in tale frequentazione una remora psicologica ad entrare furtivamente nella stessa? La risposta, però, è sì: la personalità di R.H.G., quale emerge dalle deposizioni testimoniali, non rivela un particolare rispetto per gli altri. Egli, non solo – come già ricordato – aveva maturato esperienze come autore di furti in immobili altrui, commessi anche con la presenza in casa dei derubati (vedere T.); non solo non aveva esitato ad utilizzare il coltello per minacciare il derubato che lo aveva in seguito (sempre T., ma anche all’interno dell’asilo di Milano si era impossessato un coltello lungo 40 cm.) ma più volte per strada, soprattutto quando era ubriaco, aveva anche importunato delle ragazze, tentando di abbracciarle e baciarle, ed infine, il tatto stesso (solo in apparenza banale, perché in realtà molto significativo del modo di essere) che fosse uso andare in bagno nelle case altrui (quale ospite o quale intruso, qui non importa) per defecare o orinare senza poi scaricare (una sera era accaduto al piano di sotto della casa di Via (omissis), come riferito dal teste B.S.; nell’asilo di Milano ove si era introdotto venne trovato – come asserito dalla teste S.D.P. – il water dei bambini sporco, pur essendo stato sicuramente lasciato in precedenza pulito: ed anche la sera dell’omicidio si era recato al bagno nella casa di Via (omissis) lasciandolo sporco, tanto che La Polizia Scientifica ha potuto ritrovare il suo DNA nella carta igienica) denota una assoluta mancanza di rispetto verso gli altri, forse addirittura ostentata. Il che induce a ritenere che non avesse alcuna remora ad entrare per rubare anche nella casa in cui era stato accolto come amico (ma in realtà egli era stato ospitato al piano di sotto, dai ragazzi assenti la notte del 1° novembre, e non al piano di sopra dove abitavano le ragazze), Peraltro egli, conoscendo già la casa, era in grado di accertarsi con facilità circa la presenza o meno al suo interno dei suoi abitanti. Quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Assise di primo grado, non vi è ragione di ritenere che avesse delle remore psicologiche o dei timori particolari ad introdursi all’interno della casa di Via (omissis) in assenza di coloro che l’abitavano.
E va anche ricordato che il 20 dicembre 2007, allorché venne arrestato dalla Polizia Tedesca, R.H.G. aveva delle ferite sulla mano destra, compatibili con la rottura del vetro e con l’arrampicata. Un ultimo argomento, speso per sostenere la tesi della simulazione del furto, e rappresentato dal fatto che S.R., nella telefonata effettuata per richiedere l’intervento dei Carabinieri avrebbe detto che non risultava asportato nulla: come faceva a dire – così si argomenta – che non era stato asportato nulla prima che potesse essere fatto un sopralluogo accurato da parte di coloro che abitavano nella casa? E la risposta è che poteva dirlo proprio perché sapeva bene, per esserne l’artefice unitamente ad K.A.M., che si trattava soltanto di una messa in scena.
Questa Corte non ritiene tale argomento significativo. L’affermazione “non hanno rubato nulla” era una risposta spontanea, dettata dal fatto che K.A.M. ad un primo sommario esame, essendo già entrata in casa, non aveva rilevato la mancanza evidente di cose importanti e, del resto, qualora fossero stati loro a porre in essere la simulazione ed a chiamare i Carabinieri per rappresentare la loro sorpresa dinanzi all’accaduto e la loro estraneità all’omicidio, certo sarebbero stati più accorti e S.R. non avrebbe risposto con spontaneità “non hanno rubato nulla”.
In definitiva non vi sono elementi per ritenere che si sia trattato di una simulazione piuttosto che di una reale modalità di ingresso all’interno dell’abitazione.
Donde l’assoluzione dal reato di cui a capo E) perché il fatto non sussiste ed il venir meno del valore indiziario della contestata simulazione.
Alibi Come si è già ricordato nel riassumere la motivazione della sentenza appellata, la Corte di Assise di primo grado ha ritenuto l’alibi prospettato dagli imputati (essere rimasti insieme per tutta la notte a casa di S.R. ove avevano anche cenato) non solo non provato ma addirittura sicuramente falso ed ha considerato tale falsità un grave elemento di prova di colpevolezza, non potendo – secondo quella Corte – trovare ragione la prospettazione di un alibi falso se non nella consapevolezza della propria colpevolezza.
In verità la falsità dell’alibi, anche se per ipotesi sussistente, potrebbe rappresentare un indizio, da valutare nel contesto di altri e più significativi indizi, ma certo da sola non una prova della colpevolezza e, d’altra parte, la condanna per il delitto di omicidio non può costituire una sanzione per la falsità dell’alibi prospettato, ma soltanto il punto di arrivo di una dimostrazione di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio laddove, invece, la prospettazione di un alibi falso potrebbe trovare spiegazione anche nel timore di essere coinvolti nel delitto di omicidio per il solo fatto di essersi trovati nella casa di Via (omissis), senza tuttavia avervi partecipato. D’altra parte, se si esamina la giurisprudenza in materia ci si rende conto che la valutazione della gravità dell’indizio, costituito dalla falsità dell’alibi, è diversa in tema di misure cautelari ed in tema di giudizio di merito: ed invero, un conto è valutare l’asserita falsità nella prospettiva di salvaguardare le esigenze cautelari, procedendo al bilanciamento equilibrato tra gravità degli indizi ed esigenze cautelari, ed un conto è valutare la rilevanza di tale asserita falsità allorché non si tratta più di trovare un punto di equilibrio tra esigenze cautelari ed elementi indiziari anche gravi, ma di decidere definitivamente in ordine alla imputazione al di là di ogni ragionevole dubbio. Cosicché, una volta venuti meno gli elementi indiziari più gravi e rilevanti, quali i risultati degli accertamenti effettuati dalla Polizia Scientifica, l’asserita falsità dell’alibi, prospettato dai due attuali imputati, non potrebbe da sola consentire di ritenere provata la loro responsabilità. In ogni caso non ritiene questa Corte che si possa affermare la falsità dell’alibi prospettato. La Corte di Assise di primo grado ha ritenuto la falsità dell’alibi in base ai seguenti elementi: i due imputati erano stati visti in Piazza (omissis) dal teste Cu. tra le 21,30 e le 23; il computer di S.R., esaminato dalla Polizia Postale, non presentava traccia di interazione umana dopo le 21,10 e fino alle ore 5,32; il fatto che il computer non presentava interazione in quell’arco di tempo stava a significare che i due giovani, diversamente da quanto asserito, non erano rimasti in casa ma erano usciti ed avevano trascorso una notte insonne perché, diversamente, il computer non sarebbe risultato attivo di nuovo la mattina presto; il messaggio, inviato al cellulare di S.R. da suo padre alle ore 23.14, risultava essere pervenuto soltanto alle ore 6,02, segno che il cellulare era rimasto spento durante quello spazio di tempo, ed anche il cellulare di K.A.M. risultava spento in quel frangente; lo spegnimento dei cellulari stava a significare che i due giovani erano usciti da casa; la cena era stata, peraltro, da loro consumata ben prima dell’ora dagli stessi indicata dal momento che, allorché il padre di S.R. aveva telefonato al figlio, all’incirca alle ore 20,42 del 1 novembre, il figlio stava già lavando i piatti, lamentandosi della perdita di acqua dal lavandino: il che induceva a ritenere che essi avessero già consumato la cena e rendeva possibile l’uscita da casa per andare a Piazza (omissis), dove erano stati visti dal Cu. già alle 21,30; inoltre, non era verosimile che i due fossero rimasti a dormire fino a tardi, pure avendo il proposito di andare ad effettuare una gita a Gubbio, perché la realizzazione di tale proposito comportava – secondo la Corte – la necessità di svegliarsi presto, considerata la strada da percorrere; né era verosimile che K.A.M., che pure aveva trascorso la notte a casa di S.R., si fosse poi recata a casa sua in Via (omissis) per fare la doccia: che necessità ne aveva? – si chiede la Corte – considerato che dopo avere fatto l’amore con S.R. si era già lavata la sera a casa di lui?; peraltro, che K.A.M. non fosse rimasta a letto con S.R. fino a tardi lo provava la deposizione resa dal Q., che aveva riconosciuto in K.A.M. la ragazza che la mattina presto del 2 novembre aveva atteso per strada l’apertura del suo esercizio, nel quale era entrata, recandosi nel reparto igiene e casa, anche se egli non aveva ricordato acquisti effettuati dalla ragazza; ed ancora K.A.M. non aveva menzionato, nel rispondere dell’interrogatorio, la telefonata fatta a S.R. da suo padre la mattina del 2 novembre alle ore 9,30, laddove avrebbe dovuto, invece, ricordarla per essere avvenuta quando ancora – secondo il loro alibi – ella si trovava a casa di S.R..
Questa Corte di Assise di secondo grado ritiene, però, che nessuno degli elementi suddetti possa valere, né da solo né se posto in relazione con gli altri, a provare la falsità della versione resa dai due imputati, trattandosi di elementi di per sé di significato niente affatto univoco che, alla luce anche delle ulteriori risultanze processuali, possono trovare una spiegazione diversa rispetto a quella operata dalla Corte di Assise di primo grado e più plausibile in base a nozioni di comune esperienza.
Del teste Cu. si è evidenziata già la inattendibilità (anche se, in verità, una volta determinata l’ora dell’aggressione a K.M. intorno alle 22, varrebbe addirittura, se attendibile, a scagionare pienamente i due attuali imputati).
Che i due abbiano cenato prima dell’ora indicata non sembra determinante ma in ogni caso non vi è prova che essi, alle 20,42, allorché parlando per telefono con il padre, S.R. lo informò di essersi accorto che il lavandino perdeva mentre stava lavando i piatti, essi avessero già cenato. Ben può essere accaduto che egli abbia voluto lavare dei piatti rimasti sporchi dal pranzo prima ancora di mettersi a cena, oppure può essere accaduto che qualche posata o qualche piatto siano stati lavati quando la cena non era comunque ancora terminata, per rimuovere immediatamente lo sporco da una pentola o da un piatto per non farlo aderire in modo più marcato: fatto sta che S.R. non risulta avere comunicato al padre che essi avevano già ultimato la cena ma soltanto che si trovava con K.A.M..
Ed invero queste sono le dichiarazioni rese in proposito dal padre nel corso della sua deposizione (udienza 19.6.2009): “… mi disse se non ricordo male quella sera della telefonata che si era, mentre lavava i piatti o faceva qualcosa nella cucina si era versata dell’acqua per terra, questo si…”. Ed ancora “… che stava in casa e che stava armeggiando in cucina e gli era successo questo guaio insomma. Che si era accorto mentre lavava i piatti che si versava l’acqua per terra…”. Non sì parla dunque affatto di cena già ultimata.
Ma anche il fatto che il computer, esaminato dalla Polizia Postale, non abbia evidenziato interazione umana tra le 21,10 e fino alle ore 5,32 non esclude che i due giovani siamo rimasti comunque in casa. Gli altri computer in uso a S.R. non sono stati analizzati, dal momento che l’hard disk è andato distrutto dopo il loro sequestro, cosicché non può essere escluso che essi fossero stati utilizzati anche dopo le 21,10: ma del resto è ovvio che la permanenza in casa non può essere caratterizzata da una interazione continua con i computer. Peraltro, poiché nessuno ha chiesto l’esame di S.R., né il P.M., né la Parte civile e neanche i difensori degli imputati, non sono disponibili sul punto spiegazioni suscettibili di essere riscontrate. In verità sorprende di più la traccia di una interazione con il computer alle ore 5,32 piuttosto che la mancanza di interazione nelle ore precedenti: ma la cosa può essere spiegata con un risveglio notturno di S.R., neanche avvertito dalla ragazza che si trovava con lui, ed un impulso, in una notte dopotutto romantica (l’aveva trascorsa insieme alla ragazza amata), ad ascoltare della musica in attesa di riprendere sonno. D’altra parte sarebbe meno comprensibile che un giovane, comunque indiscutibilmente non avvezzo al crimine, nella stessa notte in cui era rimasto coinvolto in un delitto tanto grave (vittima, dunque, egli stesso di una tragedia immane benché in ipotesi colpevole) avesse la voglia e l’animo di intrattenersi, a poche ore dalla tragedia, ad ascoltare musica al computer come se nulla fosse stato.
La Corte di Assise di primo grado non esclude neanche, in base alla consulenza G.-D’A. (consulenti della difesa) effettuata sul computer, che vi possa essere stata una certa interazione, della durata di pochi secondi, dopo la mezzanotte, per vedere un film ma – argomenta quella Corte – poiché l’orario è successivo all’ora della aggressione, ciò non escluderebbe la responsabilità per l’omicidio, non provando la permanenza in casa nel periodo antecedente al collegamento. Sennonché, a parte la totale incertezza del dato acquisito, va richiamata l’osservazione già sopra formulata circa l’ascolto di musica: può essere davvero verosimile che i due giovani, dopo una tragedia del genere, si siano messi a vedere un film? La risposta non può essere che no e non varrebbe obiettare che si tratta, comunque, di una valutazione basata su un criterio di mera normalità e dunque di probabilità e non di certezza, dal momento che anche la deduzione tratta dalla assenza di prova di interazione umana nell’arco di tempo compreso tra le 21.10 e le 5.32 è una mera congettura, per di più contrastante con un criterio di normalità.
Cellulare spento: in realtà l’essere il cellulare di S.R. rimasto spento nel periodo compreso tra le 23,14 e le ore 6,02 non è una circostanza provata direttamente ma una deduzione derivante dal fatto che la Polizia di Stato ha accertato che il messaggio di buonanotte, inviato dal padre di S.R. alle ore 23,14 del 1 novembre, giunse al figlio soltanto alle ore 6.02 del giorno successivo, pur non essendo state riscontrate anomalie nel funzionamento della rete.
È vero, però, che il consulente della difesa ha accertato che non in ogni punto della casa il segnale giungeva regolarmente, il che potrebbe spiegare, magari in concomitanza con altro fattore esterno (per esempio la presenza occasionale di un ostacolo) il ritardo nella ricezione del messaggio (accadimento non raro, come sa bene chi è uso scambiarsi sms) cosicché lo spegnimento del cellulare non può essere considerata circostanza certa. Ma quello che rileva maggiormente non è tanto l’essere stato davvero spento il cellulare, quanto il significato attribuito dalla Corte di Assise di primo grado allo spegnimento del cellulare. Non si comprende, infatti, per quale ragione, una volta esclusa la premeditazione ed anche semplicemente la previa progettazione di “un’orgia” (in realtà la stessa Corte di Assise di primo grado ha rappresentato la tragedia come l’epilogo di un accadimento del tutto casuale), S.R. avrebbe dovuto spegnere il cellulare uscendo di casa insieme ad K.A.M., sembrando piuttosto ben più naturale che avesse spento il cellulare perché era rimasto in casa insieme alla sua ragazza (tutto il suo mondo era lì in quel momento), con la quale si apprestava a trascorrere una notte di intimità e non avendo ragione di aspettarsi una telefonata da casa posto, che suo padre lo aveva già chiamato prima. E, in ogni caso, la presenza in casa anche di un telefono fisso (circostanza accertata dalla Polizia) garantiva la possibilità di ricevere eventuali chiamate, per motivi urgenti, nonostante il cellulare spento.
Ed in quel contesto è del pari verosimile che K.A.M., rimasta a dormire a casa di S.R. ma senza avere con sé il ricarica batteria, avesse spento il proprio cellulare per risparmiare la batteria.
Si ribadisce che non risulta logico attribuire allo spegnimento dei cellulari, una volta esclusa qualsiasi premeditazione, significato indiziario di una uscita da casa piuttosto che di permanenza in essa.
Della deposizione resa dal Q. si è già evidenziata la inattendibilità, o comunque, la debolissima attendibilità, cosicché non vale certo ad escludere che K.A.M. sia rimasta a dormire presso la casa di S.R. fino ad ora più tarda, mentre la programmata gita a Gubbio non comportava la necessità di una “alzataccia”, considerato che Gubbio può essere raggiunta da Perugia in circa 45 minuti e che i due giovani, presumibilmente, intendevano effettuare una gita di poche ore e non certo uno studio approfondito della città sotto il profilo storico e culturale, cosicché ben avrebbero potuto partire anche alle 11.
Ed ancora, non è niente affatto inverosimile che K.A.M., prima di partire per Gubbio, abbia pensato di andare a farsi una doccia nella casa di Via (omissis): non solo perché – come da lei asserito – la doccia di Via (omissis) era più funzionale, ma anche perche ella aveva là biancheria e abiti per potersi cambiare prima di partire per Gubbio.
La mancata menzione da parte di K.A.M. della telefonata del padre di S.R. delle ore 9,30 non comporta necessariamente la falsità dell’alibi, potendo essere spiegata con la non importanza attribuita da K.A.M. a tale telefonata, o con il non essersi resa conto della stessa perché magari stava ancora dormendo o si trovava in bagno o, infine, per avere errato nell’indicare l’ora in cui uscì da casa di S.R. per andare in Via (omissis), magari antecedente a quella telefonata.
Infine, va ricordato che nel presente grado il P.G. ha prospettato come ulteriore elemento di prova della falsità dell’alibi il fatto che siano stati citati, per deporre su asserite confidenze apprese in carcere da R.H.G. circa la estraneità al delitto degli attuali imputati, delle persone (M.A., Av. ed altri…) da ritenere inattendibili (e di fatto ritenute inattendibili anche da questa Corte). Sennonché, è evidente che il tentativo della difesa, doveroso in considerazione della gravità delle accuse, di acquisire eventuali elementi di prova a favore degli imputati anche mediante deposizioni di soggetti poi ritenuti inattendibili, non può essere interpretato in alcun modo come elemento sintomatico dalla falsità dell’alibi, con il quale tale tentativo, peraltro posto in essere dai difensori e non dagli imputati, non ha nulla a che vedere, dal momento che si riferisce a circostanze (confidenze asseritamente effettuate in carcere) successive di anni ai fatti di causa. Del pari, non possono ricadere sugli attuali imputati, né essere interpretati come elementi sintomatici della falsità dell’alibi, i tentativi – leciti o illeciti qui non importa – posti in essere dai loro congiunti di provare la loro innocenza.
La realtà è che siamo in presenza di elementi indiziari del tutto equivoci e che hanno trovato, nella interpretazione operata dalla Corte di Assise di primo grado, un valore sintomatico di falsità dell’alibi soltanto perche in quel momento letti alla luce di accertamenti genetici effettuati dalla Polizia Scientifica ritenuti attendibili, cosicché, venuta meno tale attendibilità, gli elementi suddetti risultano interpretabili in modo del tutto diverso e conforme all’alibi prospettato.
Comportamento successivo alla verificazione dell’omicidio.
La Corte di Assise di primo grado ha attribuito valore indiziario anche al comportamento tenuto da K.A.M. e S.R. successivamente alla verificazione dell’omicidio di K.M. (mattina del 2 novembre).
Della condotta tenuta da K.A.M. quella mattina (essersi o meno intrattenuta fino a tardi a casa di S.R., essersi recata in Via (omissis) per fare una doccia prima di partire per Gubbio ecc..) si è già trattato in precedenza, in particolare nel paragrafo concernente l’alibi. Qui va osservato che la Corte di Assise di primo grado ha soffermato la propria attenzione anche sulle telefonate effettuate da K.A.M. e S.R. quella mattina, ritenendo di cogliere in esse alcune contraddizioni, interpretate quale elemento sintomatico della consapevolezza dei due giovani circa la loro responsabilità per quanto accaduto. Ebbene, dall’esame dei tabulati la prima telefonata risulta effettuata (alle ore 12.07) da K.A.M. a K.M., su uno dei numeri alla stessa in uso, e che ovviamente rimane senza risposta.
Questa telefonata non ha nulla di sospetto: è chiaro che K.A.M., se effettivamente innocente e dunque allarmata di alcune stranezze che aveva notato nella casa di Via (omissis) (ad iniziare dal portone esterno trovato aperto, per continuare con il vetro rotto della finestra della camera della F.R. e con la porta della camera di K.M. trovata chiusa, nonché con la presenza di alcune tracce di sangue in bagno) abbia, come prima cosa, una volta parlatone con S.R., pensato di contattare K.M. per assicurarsi che nulla le fosse accaduto.
Né è logico ritenere – come, invece, ritenuto dalla Corte di Assise di primo grado – che tale telefonata abbia avuto il solo scopo di accertarsi che il telefono cellulare non fosse stato rinvenuto dal momento che, al contrario, era presumibile che lo squillare della suoneria avrebbe potuto, se il cellulare non fosse stato ancora rinvenuto, agevolarne il rinvenimento (come, in effetti, è avvenuto): il che sarebbe stato il risultato contrario a quello voluto, laddove essi fossero stati colpevoli. Peraltro, non si comprende come due giovani, sicuramente esperti di cellulari e – secondo la valutazione della Corte di Assise di primo grado e del P.M. – tanto scaltri da mettere in scena la simulazione di un furto con scasso, per allontanare da sé i sospetti, e da chiamare essi stessi i Carabinieri facendosi trovare sul posto, come pure dal riportare l’arma del delitto a casa di S.R., riponendola insieme alle altre posate nel cassetto della cucina, poi, però, non abbiano pensato di togliere dai cellulari la scheda e la batteria prima di gettarli via, si da rendere praticamente impossibile il loro rinvenimento.
Subito dopo (ore 12,08) K.A.M. chiama F.R. per parteciparle il suo stato di allarme: anche tale chiamata è comprensibile, dal momento che F.R. abitava nella stessa casa.
Poi K.A.M., poiché la F.R. non le dice di chiamare subito la Polizia ma di controllare meglio la situazione e poi di chiamarla di nuovo, effettua una ulteriore chiamata all’altro numero in uso a K.M. (ore 12,11), ma ovviamente anche questa chiamata non ha risposta. A questo punto, però, la F.R., evidentemente dopo averci riflettuto un attimo ed avere sentito crescere la propria preoccupazione, richiama ella K.A.M., dicendo di avvertire i Carabinieri. Ed allora, dopo un pò. S.R., che stava insieme ad K.A.M., chiama la propria sorella V. (ma c’è un motivo: ella era ufficiale dei Carabinieri) e subito dopo (ore 12,51) ed ancora alle ore 12,57 i Carabinieri (al numero 112), mentre K.A.M. chiama la propria famiglia in America perché evidentemente, nel precipitare degli eventi, cresceva comunque anche, la necessità di partecipare alla famiglia la propria preoccupazione.
Prima dei Carabinieri – come è noto – giunse la Polizia – ma questo solo per un caso fortuito, perché attraverso il rinvenimento dei telefoni cellulari era stato possibile risalire alla casa di Via (omissis), dove risiedevano le titolari dei cellulari (la stessa F.R. per il telefono utilizzato da K.M. per chiamare in Italia e la stessa K.M. per quello utilizzato per chiamare in Inghilterra).
Molto si è discusso sulla antecedenza o meno della chiamata al 112 rispetto all’arrivo della Polizia, essendo stato ipotizzato dal P.M. che la chiamata dei Carabinieri al 112 fosse stata effettuata alla vista del sopraggiungere della Polizia, solo per avvalorare la tesi della propria innocenza. Sennonché anche la Corte di Assise di primo grado, sulla base delle deposizioni rese dal personale della Polizia operante e degli orari riportati sui tabulati, è giunta alla conclusione che tali telefonate siano state effettuate prima dell’arrivo della Polizia e nella ignoranza della imminenza di tale arrivo. E, del resto, ciò che rende irrilevante il problema della antecedenza o meno della chiamata dei Carabinieri rispetto al sopraggiungere della Polizia è il fatto che, comunque, K.A.M. aveva chiamato F.R. già alle 12,08, sicuramente prima del sopraggiungere della Polizia, cosicché, a quel punto, aveva già partecipato ad un soggetto estraneo (che si sia trattato dei Carabinieri o di F.R. sotto questo profilo non importa) che essi (K.A.M. e S.R.) erano entrati nella casa di Via (omissis), rilevando una situazione tale da suscitare allarme.
Ma un altro elemento indiziario è individuato dalla Corte di Assise di primo grado nella contraddizione che essa ritiene di rilevare tra quanto detto da S.R. durante la telefonata ai Carabinieri e quanto, invece, riferito ai Poliziotti sopraggiunti sul posto. Nella telefonata ai Carabinieri, per la precisione nelle due telefonate susseguitesi a distanza di pochi minuti, S.R. aveva fatto presente la situazione trovata nella stanza della F.R. (vetro rotto, camera a soqquadro) ma aveva anche affermato “..no non c’è furto…” ed ancora “non hanno portato via niente…” mentre ai poliziotti sopraggiunti, ma solo perché stavano indagando circa il rinvenimento dei cellulari, aveva spiegato – secondo quanto riferito dagli stessi poliziotti -che essi stavano aspettando l’arrivo dei Carabinieri perché era stato compiuto un furto all’interno dell’abitazione.
Secondo la Corte di Assise di primo grado S.R. aveva dichiarato ai Carabinieri che non vi era stato furto soltanto perché egli sapeva che si trattava di una messa in scena, dal momento che, diversamente, non avrebbe potuto, ad un primo esame e prima dell’arrivo della principale interessata (la F.R.), fare una affermazione del genere. E, d’altra parte, l’ingenuità di fare una tale affermazione – rivelando, così, di essere ben consapevole che si trattava di una simulazione – trovava spiegazione nella considerazione che egli, tutto preso dal rappresentare la penetrazione all’interno dell’abitazione, mediante la rottura del vetro della finestra, da parte di chi non aveva la disponibilità delle chiavi, al fine di allontanare i sospetti da sé e da K.A.M.. che aveva le chiavi, si era tradito circa la reale natura del fatto, essendo la sua attenzione concentrata sul rappresentare le modalità di penetrazione all’interno dell’abitazione piuttosto che sulla sottrazione di beni dall’interno dell’abitazione (che secondo l’ipotesi dell’accusa egli sapeva insussistente).
Ma secondo la Corte di Assise di primo grado, S.R. doveva essersi poi reso conto della ingenuità commessa sì da tentare di rimediare, dicendo ai Poliziotti, sopraggiunti poco dopo, che stavano aspettando i Carabinieri perché era stato compiuto un furto all’interno dell’abitazione. Questa Corte di Assise di secondo grado, però, non è d’accordo sulla spiegazione suddetta in quanto essa attribuisce a soggetti, non qualificati come operatori di diritto, la capacità terminologica e concettuale propria di questi ultimi, sì da ritenere che laddove, interpellati dai Poliziotti sopraggiunti, avevano affermato che stavano aspettando i Carabinieri perché era stato compiuto un furto all’interno dell’abitazione, avevano inteso deliberatamente cambiare versione, rispetto a quanto riferito ai Carabinieri, per il timore che l’affermazione “no non è stato asportato nulla” potesse rivelare la loro responsabilità in ordine alla simulazione del furto. In realtà per dei soggetti non qualificati giuridicamente l’espressione “è stato compiuto un furto all’interno dell’abitazione” equivaleva a rappresentare sinteticamente la situazione da loro constatata: penetrazione all’interno dell’abitazione mediante effrazione del vetro della finestra e messa a soqquadro della stanza…”, non avendo certo né la capacità né la voglia di mettersi a discettare della differenza tra mera violazione di domicilio, tentativo di furto o furto consumato..: quello che contava in quel momento per i due giovani era, soprattutto, fare presente che i Carabinieri erano stati già chiamati.
Sul fatto che nelle telefonate ai Carabinieri S.R. aveva affermato che non era stato asportato nulla si è già argomentato in occasione del paragrafo “simulazione del furto” e possono qui essere richiamate quelle argomentazioni per escludere che tale affermazione debba essere interpretata come manifestazione della consapevolezza della asserita (ma non ritenuta tale da questa Corte) simulazione. Quindi, non è dato cogliere alcuna reale contraddizione nella condotta dei due giovani, tale da assumere valore indiziario a loro carico.
La Corte di Assise di primo grado e prima ancora il P.M. hanno posto tra gli elementi indiziari anche il comportamento tenuto dai due giovani dopo il sopraggiungere della Polizia ed ancora nei giorni successivi: diversamente dagli altri, essi rimasero un pò in disparte mentre veniva sfondata la porta e scoperto il cadavere e poi, sia in quel momento che nei giorni successivi, perfino presso la Questura ove erano stati convocati, si erano più volte abbracciati, scambiandosi delle tenerezze. Ed ancora, K.A.M. che presso la Questura, mentre si trovava in attesa di essere interrogata, o mentre aspettava che venisse interrogato S.R., sembra essersi esibita in esercizi ginnici, quali “la ruota”. È stato, inoltre, sottolineato come comportamento disdicevole l’essere stata notata in un negozio insieme a S.R., intenta ad acquistare della biancheria intima (sembra addirittura un “tanga”!!!). Ma non è finita: uno dei P.M. ha affermato nella sua requisitoria di avere notato che, durante le proiezioni in aula delle fotografie del corpo straziato dalle coltellate di K.M., i due imputati non avrebbero guardato tali fotografie ma sarebbero stati con gli occhi bassi.
Orbene questa Corte non ritiene che si possa attribuire ai comportamenti descritti, anche se in ipotesi veri, alcun valore indiziario di colpevolezza, essendo innumerevoli i modi di reagire di ogni essere umano dinanzi a situazioni tragiche: lo scambio di tenerezze e magari la stessa esibizione in esercizi ginnici possono trovare spiegazione nella esigenza di ritrovare, in gesti e comportamenti consueti un minimo di normalità nel contesto di una situazione comunque tragica (innocenti o colpevoli che fossero). E, caso mai, il significato da attribuire a tali comportamenti dovrebbe essere favorevole ai due attuali imputati, non potendosi davvero credere che due giovani, due bravi giovani secondo la stessa Corte di Assise di primo grado, consapevoli di essersi, in ipotesi, resi protagonisti di un orribile crimine, potessero conservare il desiderio di scambiarsi effusioni e di esibirsi in esercizi ginnici.
Quanto all’acquisto di capi di biancheria, va osservato che K.A.M., dopo il sequestro dell’abitazione di Via (omissis), era rimasta anche priva dei propri indumenti posti all’interno della casa e, dunque, nella necessità di acquistarne qualcuno per cambiarsi. Che, poi, abbia acquistato un “tanga” piuttosto che un modello di mutande più severo, non può davvero essere considerato manifestazione di animo insensibile ed incline ad oscenità, trattandosi, in base a comune esperienza, di un capo alla moda largamente diffuso tra giovani e meno giovani signore. Né è consentito attribuire valore indiziario di colpevolezza all’avere o meno essi guardato le fotografie di K.M. durante la proiezione in aula perché (a parte che si tratta di condotta constatata soltanto da uno dei P.M. presenti): si tratta di fotografie tali, per la crudezza delle immagini e la tragicità dell’evento, da rendere doloroso e poco tollerabile per chiunque, soprattutto se sensibile, indugiare sulla loro vista. Ancor più, dunque, per chi con la giovane vittima aveva intrattenuto rapporti di coabitazione ed amicizia.
Ma, infine, ci si potrebbe chiedere – anche se la domanda non se la sono posti né il P.M. né la Corte di Assise di primo grado – come è possibile che due giovani, se innocenti, abbiano potuto trascorrere quattro anni in carcere, con la prospettiva di rimanerci per più di altri venti, senza tuttavia impazzire: il fatto di non essere impazziti non è allora da interpretare come convinzione della giustizia della loro condizione e, dunque, come espressione di consapevolezza della propria colpevolezza? La risposta, ovviamente, non può essere che no: in primo luogo perché è pericoloso prendere in considerazione elementi non obiettivamente apprezzabili, essendo infinite le reazioni individuali degli esseri umani anche nelle tragedie più sconvolgenti; ed in secondo luogo perché la speranza di vedere, infine, affermata la propria innocenza può sostenere in prove così dure chi è davvero innocente.
Dal comportamento tenuto da K.A.M. e S.R. nel periodo successivo alla verificazione dell’omicidio non può trarsi, pertanto, alcun elemento indiziario a loro carico. Valutazioni conclusive Il riesame, alla luce delle risultanze dibattimentali del primo grado e delle ulteriori acquisizioni del presente grado, delle circostanze di fatto nelle quali la Corte di Assise di primo grado ha ritenuto di poter ravvisare elementi indiziari tali da legittimare una pronuncia di colpevolezza, ha evidenzialo – a parere di questa Corte – la insussistenza materiale, prima ancora che la equivocità di tali elementi. In realtà gli unici elementi che rimangono fermi sono rappresentati dalla consumazione del reato di calunnia (ma privo della aggravante contestata e perciò del nesso necessario a fini indiziari con il delitto di omicidio), e dalla non totalmente comprovata veridicità dell’alibi (che è situazione ben diversa dalla ritenuta falsità del medesimo) ed infine dalla dubbia attendibilità del teste Q.. Tutti gli altri elementi sono venuti meno nella loro materialità: così è per l’ora della morte, accertata dalla Corte di Assise di primo grado dopo le ore 23 e individuata da questa Corte intorno alle ore 22,15; così è per i risultati delle indagini genetiche effettuate dalla Polizia Scientifica e per l’analisi delle impronte e delle altre tracce rilevate all’interno dell’abitazione di Via (omissis) e, conseguentemente, per la individuazione dell’arma del delitto e per la presenza di S.R. e K.A.M. nella casa al momento del delitto; così è per la ritenuta simulazione della penetrazione nella casa di Via (omissis) mediante effrazione della finestra o per il comportamento tenuto dai due imputati la mattina del 2 novembre e nei giorni successivi. In definitiva la Corte di Assise di primo grado, per poter ricostruire la vicenda sottoposta al suo esame, ha ritenuto di poter coordinare elementi di fatto, ritenuti di per sé stessi certi ma di significato non del tutto univoco, in un quadro unitario nell’ambito del quale ciascuno di quegli elementi potesse conseguire un chiarimento definitivo e tutti, nel loro insieme, un significato univoco, si da assurgere a prova di colpevolezza.
Ora, però, sono venuti meno gli stessi “mattoni” di quella costruzione: non si tratta, cioè, soltanto di una diversa ricollocazione di quei “mattoni”, tale da non consentire l’attuazione del progetto architettonico disegnato, ma piuttosto di una mancanza del materiale necessario per la costruzione. Ed il venire meno degli elementi materiali del progetto accusatorio non consente, ovviamente, di pervenire ad una pronuncia di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. In verità, dalla lettura della sentenza impugnata non risulta che la Corte di Assise di primo grado si sia posta il problema della necessità di valutare le risultanze probatorie in base al principio stabilito dall’art. 533 c.p.p., dal momento che la ricostruzione dei fatti avviene sempre secondo un criterio di probabilità. Ed invero, la parola probabile (o improbabile) ricorre ben 39 volte nel corso della motivazione: ovviamente è solo una osservazione di natura lessicale ma, comunque, significativa. Ed è stato per consolidare una convinzione basata su valutazioni di mera probabilità che la Corte di Assise di primo grado ha avvertito la necessità di cogliere un movente che, però, mentre non è corroborato da alcun elemento obiettivo di prova, è esso stesso niente affatto probabile: la scelta improvvisa da parte di due giovani, bravi e disponibili verso gli altri, del male per il male, così, senza altra utilità (donde l’aggravante dei futili motivi contestata dal P.M.), tanto più incomprensibile perché diretta a sostenere l’azione criminosa di un giovane, R.G., con il quale essi non avevano alcun rapporto (non vi sono, per esempio, prove di telefonate o sms tra i tre giovani) e diverso da loro per storia personale, carattere e condizione umana. Come pure fornire una spiegazione, non corroborata da alcun elemento obiettivo di prova e del tutto inverosimile, della presenza in Via (omissis) al momento del delitto di un coltello in dotazione alla cucina dell’abitazione di S.R..
Ed anche nella requisitoria del P.M. ricorre spesso il termine probabile, essendo stata espressamente avvertita questa Corte di non dare troppo peso alla espressione “al di là di ogni ragionevole dubbio” in quanto si tratterebbe – così argomenta il P.M. – soltanto di una affermazione di principio pleonastica, con la quale il legislatore avrebbe semplicemente recepito concetti già elaborati dalla giurisprudenza senza richiedere, dunque, per pervenire ad una pronuncia di condanna, un quid pluris rispetto alla normativa precedente.
L’argomentazione del P.M. può essere condivisa soltanto in parte. È vero, cioè, che anche prima dell’affermazione normativa del principio suddetto la condanna poteva essere pronunciata soltanto quando le prove a carico erano tali da consentire di superare la presunzione di innocenza dell’imputato, che informa tutto l’ordinamento (art. 27, 2° comma, della Costituzione ma per esempio anche l’ultima parte dell’art. 527, 3 comma, c.p.p.), cosicché, anche in presenza di prove a carico ma non del tutto sufficienti o contraddittorie, la pronuncia doveva essere di assoluzione. Ma, affermare che la riformulazione, effettuata dall’art. 5 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, dell’art. 533 c.p.p. con l’inserimento del principio suddetto, sia stata una operazione – per così dire di “mera chirurgia estetica” sembra svilire il significato profondo di tale principio, che il legislatore invece ha voluto ribadire.
E del resto l’esame dei lavori parlamentari, che hanno preceduto la deliberazione della legge 20 febbraio 2006 n. 46, rivela che si tratta di un principio di civiltà giuridico largamente condiviso non solo, ovviamente, da coloro che hanno votato a favore della legge ma anche da coloro che hanno manifestato la loro contrarietà, dal momento che non l’hanno manifestata per una non condivisione della sostanza del principio, ma soltanto per valutazioni di tecnica normativa, ritenendo che potessero sorgere dei problemi di coordinamento tra il nuovo testo dell’art. 533 c.p.p. e l’art. 530 c.p.p..
La condizione richiesta da tale norma per pervenire ad una pronuncia di condanna non consente, dunque, di formulare una convinzione in termini di probabilità: per emettere una pronuncia di condanna: non è, cioè, sufficiente che le probabilità della ipotesi accusatoria siano maggiori di quelle della ipotesi difensiva, neanche quando siano notevolmente più numerose, ma è necessario che ogni spiegazione diversa dalla ipotesi accusatoria sia, secondo un criterio di ragionevolezza, niente affatto plausibile. In ogni altro caso si impone l’assoluzione dell’imputato. Così Cass. Sez. I, Sentenza n. 17021 del 03/03/2010 Ud. (dep. 11/05/2010) Rv. 247449: “La regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.” E prima ancora Cass. Sez. 4, Sentenza n. 48320 del 12/11/2009 Ud. (dep. 17/12/2009) Rv. 245879: “… Insomma la regola dell’oltre il ragionevole dubbio ha messo definitivamente in crisi quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in presenza di più ipotesi ricostruttive del fatto era consentito al giudice di merito di adottarne una che conduceva alla condanna sol perché la riteneva più probabile rispetto alle altre. Ciò non sarà più consentito perché, per pervenire alla condanna, il giudice non solo deve ritenere non probabile l’eventuale diversa ricostruzione del fatto che conduce all’assoluzione dell’imputato ma deve altresì ritenere che il dubbio su questa ipotesi alternativa non sia ragionevole (deve cioè trattarsi di ipotesi non plausibile o comunque priva di qualsiasi conferma).” È la rilevanza del valore in gioco, libertà personale dell’imputato, che comporta una notevole diversità di criteri di valutazione della prova nel processo penale rispetto al processo civile ove il valore in gioco ha per lo più natura patrimoniale.
Così Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10741 del 11/05/2009. Rv. 608391: “La valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, presenta tuttavia notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità penale e responsabilità civile.
Nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige infatti la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Dunque nel nostro caso, ove il valore in gioco è rappresentato dalla libertà personale degli imputati, la valutazione delle prove a carico deve essere effettuata nel più rigoroso rispetto del principio suddetto.
Ebbene, gli unici elementi indiziari che rimangono fermi (consumazione del reato di calunnia ma privo della aggravante contestata, non totalmente comprovata veridicità dell’alibi, dubbia attendibilità del teste Q.) non consentono, neanche nel loro insieme, di pervenire a ritenere provata in qualche modo la colpevolezza di K.A.M. e S.R. per il delitto di omicidio e per gli altri delitti ad esso strumentali. Il venire meno nella loro materialità degli elementi indiziari sui quali la Corte di Assise di primo grado ha basato la propria decisione, esonera dal dover prospettare una ipotesi alternativa.
Una volta esclusa la sussistenza della prova di colpevolezza a carico degli attuali imputati non spetta, invero, a questa Corte prospettare quale possa essere stato il reale svolgimento della vicenda, né se l’autore del reato sia stato uno o più di uno né se siano state o meno trascurate altre ipotesi investigative. Quello che rileva ai fini della decisione è soltanto la mancanza di prova di colpevolezza degli attuali imputati.
Donde la loro assoluzione dai reati contestati ai capi A, B, C, D per non aver commesso il fatto e dal reato di cui al capo E perché il fatto non sussiste.
L’assoluzione degli imputati dai reati loro ascritti (ad eccezione del delitto di calunnia, del quale è stata dichiarata colpevole K.A.M.) comporta la reiezione della domanda, proposta nei loro confronti dalle parti civili con riferimento a detti reati: la signora A.T. ed i famigliari di K.M.. Del pari deve essere respinto l’appello incidentale proposto dal P.M., che presuppone una pronuncia di colpevolezza.
Termina qui il gravoso impegno di questa Corte di Assise che ha visto tutti i giudici, popolari e togati, accumunati da un profondo sentimento di giustizia ma anche di umiltà dinanzi al dramma oscuro delle vicende umane, nella condivisa convinzione che “Anche se l’errore giudiziario non potrà mai essere del tutto eliminato (così testualmente la Suprema Corte nella già citata sentenza n. n. 48320 del 12/11/2009) la regola introdotta vale a significare che l’ordinamento, se tollera l’assoluzione del colpevole, non tollera però la condanna dell’innocente”.
PQM
La Corte di Assise di Appello di Perugia Visto l’art. 605, c.p.p., in parziale riforma della sentenza pronunciata in data 4-5 dicembre 2009 dalla Corte di Assise di primo grado di Perugia nei confronti di K.A.M. e S.R., appellata dagli stessi e in via incidentale dal Procuratore della Repubblica di Perugia, DICHIARA K.A.M. colpevole del reato di cui al capo F, esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p., e, riconosciute attenuanti generiche equivalenti all’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 368 c.p., la condanna alla pena di anni tre di reclusione; conferma, limitatamente a tale capo, le statuizioni civili di cui alla sentenza appellata e condanna K.A.M. al pagamento delle spese di costituzione e difesa di parte civile sostenute nel presente grado da D.L., liquidate in complessivi euro 22.170,00 per diritti ed onorari oltre a rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge
ASSOLVE entrambi gli imputati dai reati loro ascritti ai capi A, B, C, D per non aver commesso il fatto e dal reato di cui al capo E perché il fatto non sussiste, respingendo la domanda proposta nei loro confronti dalla parte civile A.T.; ORDINA l’immediata liberazione di K.A.M. e S.R. e non detenuti per altra causa; indica per il deposito della motivazione il termine di giorni novanta.
Perugia 3 ottobre 2011