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Guide di diritto Civile e procedura civile

La condanna alle spese di lite e la condanna per responsabilità processuale aggravata

Avv. Riccardo Cuccattodi Avv. Riccardo Cuccatto28 Settembre 2021Aggiornato il:28 Settembre 2021
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Indice dei contenuti ⇣
La condanna alle spese del giudizio
La nozione di spesa processuale ed i problemi che si pongono in ordine alla loro ripartizione
Il criterio della soccombenza ed i suoi temperamenti
La distrazione delle spese
Figure particolari di responsabilità per le spese
La condanna per responsabilità processuale aggravata (art. 96 c.p.c.)

La condanna alle spese del giudizio

La nozione di spesa processuale ed i problemi che si pongono in ordine alla loro ripartizione

L’attività processuale, come del resto qualsiasi altra attività umana, implica un costo: si pensi, per esempio, agli oneri fiscali ed a quelli di compenso ai difensori o ai consulenti tecnici oltre a quelli coordinati con l’attività dell’ufficio (diritti di cancelleria o compensi dell’ufficiale giudiziario).
Con riguardo a queste spese, i problemi che si pongono al legislatore sono sostanzialmente di due ordini: da un lato, individuare chi deve incominciare ad anticipare l’importo delle spese del processo e, dall’altro, stabilire chi deve subirne il carico definitivo. La prima di queste questioni è presa in considerazione dall’art. 8 del D.P.R. n. 115 del 2002 (Testo unico in materia di spese di giustizia), che ha sostituito l’abrogato art. 90 c.p.c. In base a tale norma, ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che pone in essere e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione è posta suo carico dalla legge o dal magistrato.
Tra le spese da anticipare assume particolare rilievo il c.d. contributo unificato di iscrizione a ruolo previsto, in sostituzione delle imposte di bollo, per ciascun grado di giudizio del processo civile, negli importi di cui all’art. 13 del Testo unico indicato e con le esenzioni di cui all’art. 10 medesimo testo.
In ordine al secondo problema, si ritiene che le spese processuali vadano definitivamente poste a carico della parte soccombente. Se queste, infatti, dovessero restare a carico della parte che le ha anticipate, quel soggetto al quale il giudice dà ragione otterrebbe il riconoscimento di un diritto già decurtato dell’importo delle spese, il che contrasterebbe con il fondamentale postulato che vuole i diritti integralmente tutelati.

Il criterio della soccombenza ed i suoi temperamenti

Se dunque la parte vittoriosa deve essere, con la sentenza, sollevata dal carico delle sue spese, ciò significa che la parte soccombente dovrà, oltre che subire definitivamente il carico delle proprie spese, rimborsare anche alla parte vittoriosa le spese che questa ha incontrato.
L’ordinamento, in particolare, è costretto a ripiegare ad un espediente, fondato su di un ragionamento per esclusione: poiché le spese della parte vittoriosa debbono necessariamente gravare su qualcuno, che non può essere, per le ragioni indicate, la stessa parte vittoriosa, non resta che addossarle alla parte soccombente.
Ai sensi dell’art. 91 c.p.c., infatti, il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 92 c.p.c. in ordine alla possibilità di disporne la compensazione.
Con l’espressione onorari di difesa, in particolare, ci si riferisce al compenso spettante al difensore della parte vittoriosa, il quale lo stesso ha diritto di percepire dal suo difeso, ma che quest’ultimo può, se riesce vittorioso, ripetere dalla parte soccombente nei limiti in cui il giudice ritiene di poter effettivamente addossare l’onere a carico di quest’ultima, attraverso la suddetta liquidazione. Nell’effettuare tale liquidazione, infatti, il giudice dovrà prendere in considerazione la sussistenza, nell’ambito delle tariffe professionali, di compensi che non possono essere addossati all’altra parte, ancorché soccombente; in tal senso si distingue tra compensi ripetibili e compensi non ripetibili.
Secondo la giurisprudenza, la soccombenza è una situazione obiettiva in quanto emergente dalla pura e semplice difformità tra la domanda e la pronuncia, oppure dalla conformità tra quest’ultima e la domanda della controparte, anche se non fatta oggetto di effettiva resistenza o di contestazione. Può anche sussistere soccombenza indipendentemente da una domanda, come nel caso del terzo chiamato in causa, ma non reso destinatario di alcuna domanda.
La soccombenza che il giudice valuta al momento della sua pronuncia è quella riferita al processo che si chiude innanzi a lui, compresi i processi camerali che risolvono contrapposte pretese; quando però tale processo non è di primo grado o di prima fase, e quindi in sede di impugnazione o di merito che segue il cautelare, la valutazione della soccombenza si allarga nel senso del superamento delle fasi precedenti in una valutazione complessiva dell’esito della controversia e sul presupposto che l’intero processo si chiuda con la nuova pronuncia.
La regola della soccombenza, intesa nel senso sopra citato, incontra però alcuni importanti correttivi, resi necessari in special modo dal principio della causalità, che impone di verificare se la parte avrebbe potuto evitare la lite o, comunque, di accertare se l’abbia resa necessaria col proprio comportamento preprocessuale e, nello stesso tempo, di prendere in considerazione la condotta della parte nel corso del processo con particolarmente riferimento alle spese sostenute e a quelle fatte sostenere alla controparte.
Secondo la giurisprudenza, infatti, ai fini dell’adozione del provvedimento sulle spese di lite, il giudice può tener conto anche del comportamento preprocessuale delle parti, ossia della condotta che ognuna di esse, alla stregua dei canoni previsti dall’art. 1175 c.c., deve tenere nella fase in cui è ancora possibile evitare la controversia.
Ai sensi dell’art. 92, comma 1, c.p.c., in particolare, il giudice, nel pronunciare la condanna alle spese, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di lealtà e probità, essa ha causato all’altra parte.
Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti (art. 92, comma 2, c.p.c.). Con la compensazione il giudice lascia le spese a carico della parte che le ha anticipate.
Il concetto di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali, sottende, secondo la giurisprudenza, una pluralità di domande contrapposte cumulate nel medesimo processo tra le stesse parti, ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero anche quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo.
I motivi ai quali fa riferimento l’art. 92 c.p.c., che il giudice può apprezzare discrezionalmente nell’adozione del provvedimento di compensazione delle spese, possono essere di diverso genere. Si pensi, per esempio, al caso in cui la parte vincitrice avesse iniziato il giudizio senza aver prima accertato la sua necessità, ossia senza interpellare previamente l’altra parte, la quale potrebbe non aver adempiuto per semplice dimenticanza. In questo caso, infatti, non apparirebbe giusto il rimborso delle spese a favore di una parte vittoriosa, ma troppo precipitosa. D’altra parte, potrebbe apparire ingiusto addossare l’intero carico delle spese ad una parte soccombente in una controversia che, per la sua particolare complessità, risulti difficilmente evitabile.
Al giudice è dunque consentito, nella valutazione delle spese, fare un largo uso di poteri discrezionali, tanto ampi da incontrare il solo limite nel divieto di addossare tutte le spese alla parte interamente vittoriosa, così come affermato da alcune pronunce della Cassazione.
Secondo la giurisprudenza, infatti, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse, mentre qualora ricorra la soccombenza reciproca è rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito decidere quale debba essere condannata e se ed in quale misura debba farsi luogo alla compensazione. Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione (art. 92, comma 3, c.p.c.).
In sintesi, l’art. 92 c.p.c. consente al giudice di adottare tre diverse decisioni, ossia escludere dalla ripetizione le spese eccessive e superflue; condannare, indipendentemente dalla soccombenza, una parte alla ripetizione delle spese sostenute dall’altra; ovvero compensare, in tutto o in parte, le spese sostenute.
Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in margine della stessa; quelle della notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto sono liquidate dall’ufficiale giudiziario con nota in margine all’originale e alla copia notificata.
I reclami contro le liquidazioni sono decisi con le forme previste con riguardo al procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo delle sentenze o delle ordinanze.
In ogni caso, nelle cause di valore inferiore a 1.100 euro di competenza del giudice di pace, nelle quali le parti sono autorizzate a stare in giudizio personalmente, le spese, le competenze e gli onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda.

La distrazione delle spese

L’art. 93 c.p.c. configura una eccezione alla regola generale secondo la quale il compenso al difensore è dovuto solo dal suo rappresentato o assistito, salvo il diritto di quest’ultimo, se vittorioso, al rimborso nei confronti della parte soccombente.
Ai sensi di tale norma, infatti, il difensore con procura può chiedere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, distragga in favore suo e degli altri difensori gli onorari non riscossi e le spese che dichiara di aver anticipato. Finché il difensore non abbia conseguito il rimborso che gli è stato attribuito, la parte può chiedere al giudice, con le forme stabilite per la correzione delle sentenze, la revoca del provvedimento, qualora dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per gli onorari e le spese.
La ragione di questa eccezione sta nell’opportunità di una maggiore garanzia per il difensore nel conseguimento del suo compenso, garanzia che gli deriva dalla possibilità di conseguirlo direttamente dalla parte soccombente.
Tecnicamente, quando il difensore presenta la relativa istanza agisce in una veste assimilabile a quella della parte e, per effetto della pronuncia, diviene creditore anche della parte soccombente.
Su questo fondamento, la giurisprudenza suole ritenere che il difensore distrattario (ossia che ha chiesto la distrazione) sia legittimato ad impugnare personalmente la pronuncia o l’omessa pronuncia sulla sola questione relativa alla distrazione.
Secondo la giurisprudenza, in particolare, in tema di spese giudiziali, il difensore che abbia chiesto la distrazione in suo favore partecipa al processo ed anche nelle fasi di impugnazione senza acquisire la qualità di parte, salvo che sorga controversia sulla distrazione. Ne consegue che resta preclusa al difensore distrattario l’impugnazione in proprio quanto alla pronuncia sulle spese, poiché anche in questo caso unica legittimata è la parte rappresentata, in quanto soggetto comunque obbligato, nel rapporto con il professionista, a soddisfare le sue pretese. Solo se sorga contestazione non sull’entità o sulla compensazione delle spese, ma sulla disposta distrazione, ovvero sull’omessa pronuncia relativa alla richiesta di distrazione, si instaura uno specifico rapporto processuale, in cui il difensore assume la qualità di parte e l’impugnazione è proponibile anche dal difensore ovvero contro lo stesso.
D’altra parte, la Cassazione ritiene che la domanda di distrazione sia svincolata dal contraddittorio per difetto della legittimazione della controparte a contrastarla, e può dunque essere proposta anche per la prima volta con la comparsa conclusionale o in appello.
In caso di riforma della sentenza, il distrattario sarà ovviamente tenuto alla restituzione delle somme percepite e perciò legittimato passivo anche nel giudizio di rinvio o in autonomo giudizio.

Figure particolari di responsabilità per le spese

Ai sensi dell’art. 94 c.p.c., gli eredi beneficiati, i tutori, i curatori e in generale coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio possono essere condannati personalmente, per motivi gravi che il giudice deve specificare nella sentenza, alle spese dell’intero processo o di singoli atti, anche in solido con la parte rappresentata o assistita.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la disposizione contenuta nell’articolo menzionato presuppone che colui che è condannato alle spese giudiziali in proprio abbia effettivamente la rappresentanza del soggetto che è parte in senso sostanziale, ovvero che sia intervenuto in giudizio per assistere il soggetto parzialmente capace.
L’art. 94 c.p.c. si giustifica con il fatto che il soggetto rappresentante, pur non assumendo la veste di parte nel processo, esplica pur tuttavia, anche in nome altrui, una attività processuale in maniera autonoma, conseguendone l’operatività del principio della soccombenza.
Tale condanna presuppone comunque gravi motivi, i quali sono da identificarsi, secondo la giurisprudenza, nella trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. ovvero nella mancanza della normale prudenza che caratterizza la responsabilità processuale aggravata (Cass., S.U., n. 5398 del 1988).
Il principio della soccombenza, d’altra parte, trova evidente applicazione anche nell’art. 95 c.p.c., secondo il quale le spese sostenute dal creditore procedente e da quelli intervenuti che partecipano utilmente alla distribuzione sono carico di chi ha subito l’esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile.

La condanna per responsabilità processuale aggravata (art. 96 c.p.c.)

Come previsto dall’art. 96, comma 1, c.p.c., se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice su istanza dell’altra parte la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni che liquida anche d’ufficio nella sentenza. La colpa grave viene ravvisata nell’assenza della normale prudenza o diligenza in colui che non avverte l’ingiustizia di una domanda o di una eccezione che sarebbe stato facile rilevare con l’uso della normale prudenza o diligenza.
Secondo la giurisprudenza l’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.c., per aver la controparte agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo dell’illecito (dolo o colpa grave), sia di quello oggettivo, consistente nell’entità del danno sofferto. Ne consegue che, ove dagli atti del processo non risultino elementi obiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno, nulla può essere liquidato a tale titolo, neppure ricorrendo a criteri equitativi.
Altro presupposto della responsabilità di cui al primo comma della norma menzionata è la totale soccombenza; non può farsi, pertanto, applicazione di detta norma quando sussista invece una situazione di soccombenza reciproca.
Nello stesso tempo, il giudice che accerta l’insussistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta una domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza (art. 96, comma 2, c.p.c.).
Quanto alla responsabilità per l’esecuzione di misure cautelari, in particolare, la giurisprudenza ne ha ravvisato la sussistenza nel caso in cui, eseguito un provvedimento cautelare, il sequestrante non abbia provveduto ad instaurare il giudizio per il merito, nel quale può essere definitivamente contestata l’avvenuta esecuzione del sequestro in mancanza del diritto cautelato.
L’ipotesi prevista dal secondo comma della norma menzionata si distingue da quella precedente, in quanto per la sua integrazione è sufficiente il difetto della normale prudenza e non, invece, il dolo o la colpa grave; per la sussistenza di tale forma di responsabilità aggravata basta dunque la colpa lieve.
Come affermato dalla giurisprudenza, l’inesistenza a cui fa riferimento l’art. 96, comma 2, c.p.c., è da ritenersi comprensiva anche della notevole sproporzione tra il quantum accertato e quello per cui sono state sollecitate le dette misure, con riguardo alla differenza tra tali importi. Ugualmente, tale inesistenza ricorre anche quando il creditore proceda esecutivamente su beni di un terzo al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 2910, comma 2, c.c., poiché in tal caso il creditore esecutante si trova nei confronti del terzo nella medesima condizione di inesistenza del diritto nella quale lo porrebbe la mancanza del credito nei confronti del debitore esecutato.
Si suole affermare in dottrina e giurisprudenza che, poiché la portata dell’art. 96 c.p.c. esaurisce ogni ipotesi di responsabilità aggravata e poiché il comma 2 della norma suddetta contempla ipotesi specifiche e ben delineate, ogni altra ipotesi di responsabilità aggravata non risultante tra queste ultime, ancorché concernente il processo esecutivo o cautelare, rientra nella portata del primo comma; si pensi, per esempio, alle esecuzioni compiute senza titolo, a processi cautelari iniziati o proseguiti al di fuori dei presupposti di legge.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 c.p.c., il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata (art. 96, comma 3, c.p.c.).
La responsabilità aggravata può comunque essere riconosciuta solo in quanto sia richiesta esplicitamente (l’espressione d’ufficio contenuta nella norma è infatti riferita solo alla liquidazione) e la relativa domanda, in quanto non incidente sull’oggetto del processo, può essere proposta anche in sede di precisazione delle conclusioni; d’altra parte, la domanda è proponibile anche in Cassazione col controricorso.

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