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Giurisprudenza Penale Procedura Penale

Profili distintivi tra il reato di concussione e la nuova fattispecie di Induzione indebita a dare o promettere utilità.

Avv. Barbara Beozzodi Avv. Barbara Beozzo15 Febbraio 2013
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Cassazione penale, sez. VI, 15 febbraio 2013, n. 7495

Con la sentenza in epigrafe la Cassazione ha tracciato una prima linea distintiva tra il reato di concussione ed il reato di induzione a dare o promettere di cui all’art. 319 quater cod. pen., come novellato dalla L. 190/2012, offrendo all’interprete del diritto un importante strumento per ricondurre la condotta illecita del pubblico ufficiale all’interno di una fattispecie piuttosto che nell’altra.
Prima della riforma, come noto, il reato di concussione disciplinato dall’art. 317 cod. pen. sanzionava la condotta del pubblico o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringeva o induceva taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o qualche utilità. Nel nuovo art. 317 viene eliminata la concussione per induzione, mentre la pena prevista per la concussione per costrizione viene elevata (ora il delitto è punito con la reclusione da sei a dodici anni). Peraltro, soggetto attivo del delitto può essere solo il pubblico ufficiale e non più l’incaricato di un pubblico servizio, come previsto dal testo originario. Non si può nascondere che siffatta limitazione del novero dei soggetti attivi del reato alla sola figura del pubblico ufficiale solleva molte perplessità, poiché anche l’incaricato di pubblico servizio ben potrebbe porre in essere una condotta integrante gli estremi del reato di concussione.
Alla fattispecie della concussione per induzione (art. 319 quater cod. pen., “Induzione indebita a dare o promettere utilità”) viene invece dedicata un’apposita norma in forza della quale, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni”.
Peraltro, ai sensi del secondo comma di tale disposizione, “chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”. Come evidente, la nuova figura dell’induzione contiene rilevanti differenze rispetto alla previgente disciplina. Innanzitutto la condotta del soggetto attivo del reato viene sanzionata con una pena più mite rispetto alla precedente disciplina, inoltre quest’ultimo può rivestire sia la qualifica di pubblico ufficiale che di incaricato di pubblico servizio. Invece dal punto di vista sanzionatorio, anche se con pena più lieve, al soggetto attivo del reato viene equiparato il soggetto indotto a dare o promettere utilità.
L’esatta identificazione del concetto di induzione ha sempre rappresentato un’operazione interpretativa alquanto difficoltosa per l’operatore del diritto, che per delimitare i confini applicativi di tale figura rispetto a quello della costrizione era tenuto ad accertare le modalità di soggezione del sopruso subito dal soggetto privato. In buona sostanza si riteneva di ravvisare una condotta di induzione ogniqualvolta il privato subisse un sopruso non via diretta da parte del pubblico funzionario, ma meramente in via mediata, ad esempio tramite allusioni, silenzi, metafore, ostruzionismo, costringendo, anzi inducendo il medesimo ad attivarsi egli stesso presso il pubblico funzionario.
Muovendo dalla considerazione che sia la concussione che l’induzione presuppongono parimenti un’intimidazione psicologica nei confronti del soggetto privato, la Suprema Corte, al fine di perimetrare il campo applicativo delle due distinte fattispecie, sposta l’attenzione sulla natura della minaccia subita dal soggetto privato. Affinché possa ravvisarsi in concreto la sussistenza di una fattispecie piuttosto che dell’altra, spiega la Corte, l’interprete non è chiamato ad effettuare una valutazione sull’intensità psicologica della minaccia subita (“ad operare una gerarchia tra minacce”, per usare le parole della Corte), ma è tenuto molto più semplicemente ad accertare l’oggetto della minaccia stessa.
Deve pertanto ritenersi sussistente il reato di concussione (per costrizione) di cui all’art. 317 c.p., qualora venga posta in essere “una violenza morale attuata con abuso di qualità o di poteri che si risolva nella prospettazione, esplicita o implicita, di un male ingiusto”, definibile come tale perché non previsto dall’ordinamento. Se invece il pubblico ufficiale “prospetta conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge, per ricevere in cambio il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità”, allora la norma applicabile è l’articolo 319 quater del codice penale (Induzione indebita a dare o promettere utilità ).
Anche in tale ultima ipotesi viene prospettato un male il quale non può però definirsi ingiusto, perché il soggetto che dovrebbe legittimamente subirlo cerca di evitarlo, acconsentendo così all’indebita richiesta del funzionario pubblico. La conclusione a cui giunge la Corte è del resto suffragata dalla stessa novellazione legislativa che considera il soggetto indotto non più come una vittima ma come autore del reato, nonchè dalla stessa collocazione topografica del reato di induzione, inserito nell’ambito delle norme disciplinanti il reato di corruzione, ove i soggetti punibili sono appunto sia il pubblico funzionario che il soggetto privato. Alla stregua di tali argomentazioni e in virtù dell’applicazione del principio di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen. (il quale, come noto, prevede che “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quelle le cui disposizioni sono più favorevoli al reo”), la Cassazione inquadra la condotta di due agenti della Sezione Polizia autostradale di Fano nella fattispecie tipica di “Induzione di dare o promettere utilità” di cui all’art. 309 quater cod. pen., per aver ottenuto in diverse occasioni somme di denaro da più camionisti in luogo dell’emissione di una sanzione amministrativa nei loro confronti.

Cassazione penale, sez. VI, 15 febbraio 2013, n. 7495

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