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Amministrativo Enti locali Giurisprudenza

In house providing: quando una società a capitale misto non può essere designata quale diretta affidataria di un pubblico servizio.

Avv. Pietro Chimissodi Avv. Pietro Chimisso3 Marzo 2008
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 3 marzo 2008, n. 1

Il thema decidendum della sentenza in nota riguarda la legittimità o meno degli atti mediante i quali un’Azienda Sanitaria Locale ha deliberato, peraltro revocando un precedente bando di gara, l’affidamento diretto del servizio di assistenza domiciliare, ad una società mista composta da una pluralità di aziende sanitarie complessivamente titolari della maggioranza del capitale sociale e da soci privati scelti, in precedenza, con una procedura negoziata ad evidenza pubblica.
Il caso controverso occasiona un’esposizione ricognitiva e sintetica, anche al lume del diritto comunitario, circa i principi ed i limiti in tema di affidamento in house dei pubblici servizi.
In generale, l’Adunanza Plenaria rammenta che l’espressione in house providing è comparsa per la prima volta nel libro bianco del 1998 della Commissione europea, con riferimento agli appalti aggiudicati all’interno della PA, ad esempio, tra Amministrazione centrale e locale o, ancora, tra un’Amministrazione ed una società da essa interamente controllata. La situazione di in house legittima l’affidamento diretto, senza previa gara, di un pubblico servizio tutte le volte in cui una PA decida di assegnarne la gestione ad una società esterna -ossia, soggettivamente separata dalla parte pubblica- che presenti caratteristiche tali da potersi qualificare come una derivazione o una longa manus dell’Amministrazione committente. In sostanza, l’espressione in house richiama, allusivamente, una gestione grosso modo riconducibile alla stessa PA affidante o a sue articolazioni; praticamente, si è in presenza di un modello di organizzazione meramente interno, qualificabile in termini di delegazione interorganica.
Siffatto istituto, configurando una deroga ai principi di concorrenza, non discriminazione e trasparenza, tutti costituenti canoni fondamentali del trattato istitutivo della Comunità europea, è stato ritenuto ammissibile solo nel rispetto di alcune rigorose condizioni, individuate dalla giurisprudenza comunitaria ed elaborate anche da quella nazionale. Esse sono principalmente: il cd. controllo analogo a quello svolto sui propri servizi necessariamente esercitato dall’Amministrazione nei confronti dell’impresa in house ed il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell’impresa affidataria e le esigenze pubbliche che la PA controllante è chiamata a soddisfare. La sussistenza del requisito del controllo analogo tende ad essere esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, giudicandosi necessaria la partecipazione pubblica totalitaria; per altro verso, si ritiene che il solo controllo pubblico totalitario non sia sufficiente a garantire la ricorrenza dei presupposti dell’in house, occorrendo anche, sul piano squisitamente organizzativo ed amministrativo, un’influenza determinante del socio pubblico, sugli obiettivi strategici come pure sulle decisioni importanti.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria tale modello non è concretamente realizzabile in una società a capitale misto pubblico-privato, pertanto, nella sentenza epigrafata, con riferimento al caso di specie, il Collegio sancisce la carenza dei presupposti integranti un’ipotesi di in house providing. In sostanza, viene esclusa la riconducibilità del modello organizzativo della società mista a quello dell’in house, ritenendosi peraltro ininfluente il fatto che, nella fattispecie, sia stata esperita una procedura concorrenziale in funzione dell’individuazione dei partners cui conferire le quote di capitale privato della società designata ai fini dell’affidamento diretto.

Clicca e scarica il testo integrale della sentenza ⇣
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 3 marzo 2008, n. 1

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