Cassazione civile, sez. lavoro, 8 gennaio 2021, n. 149
La mera cessazione del rapporto di lavoro non è da sola prova del licenziamento. Si tratta di circostanza di fatto dalla quale il giudice può trarre il proprio convincimento ma spetta al lavoratore l’onere della prova.
La mera cessazione definitiva nell’esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto dal significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale.
Tale cessazione non equivale ad “estromissione”, parola che non ha un immediato riscontro nel diritto positivo per cui alla stessa va attribuito un significato normativo, sussumendola nella nozione giuridica di “licenziamento’, e quindi nel senso di allontanamento dall’attività lavorativa quale effetto di una volontà datoriale di esercitare il potere di recesso e risolvere il rapporto.
L’accertata cessazione nell’esecuzione delle prestazioni può solo costituire circostanza fattuale in relazione alla quale, unitamente ad altri elementi, il giudice del merito può radicare il convincimento, adeguatamente motivato, che il lavoratore abbia assolto l’onere probatorio sul medesimo gravante circa l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa datoriale ovvero per licenziamento (cfr. Cass. 13195/2019).
È pacifico infatti che nel caso del licenziamento orale operi il disposto dell’art. 2697 c.c. secondo cui la parte che deduce l'estinzione del rapporto è tenuta a dimostrare la sussistenza di un fatto idoneo alla sua risoluzione.
Art. 2697 cod. civ.
Onere della prova
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
Cassazione civile, sez. lavoro, 8 gennaio 2021, n. 149