Consiglio di Stato, sez. VI, 20 maggio 2014, n. 2555
Con
riferimento alla disciplina del diritto di accesso agli atti
amministrativi nell’ambito di un rapporto di lavoro e, più
specificatamente, alla (dibattuta) tematica dei relativi casi di
esclusione di cui all’art. 24 della Legge n. 241/1990, la Sezione
Sesta del Consiglio di Stato conferma – attraverso la recentissima
sentenza in esame – il proprio revirement
giurisprudenziale
sul punto (introdotto con il pronunciamento n. 3128 del 24 febbraio 2014).
I giudici di Palazzo Spada,
infatti, hanno accolto il ricorso in appello ex art. 116 codice del processo amministrativo
(d.lgs. 104/2010) proposto dalle amministrazioni soccombenti in primo grado avverso il
riconoscimento – in capo ad una determinata società – del diritto di
accesso agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di un
procedimento (conclusosi nel 2012 con verbale unico di accertamento)
relativo a violazioni di norme in materia di lavoro e legislazione
sociale compiute dai dipendenti di alcune imprese operanti nel
settore trasporto merci.
Operando,
dunque, un bilanciamento fra il diritto alla cura e alla tutela degli
interessi giuridici e quello alla riservatezza dei lavoratori e
(soprattutto) delle dichiarazioni da loro rese in sede di
procedimento ispettivo (diritti entrambi garantiti dalla
Costituzione), la Sesta Sezione del Consiglio di Stato –
“capovolgendo”, sostanzialmente, quanto statuito dalla sentenza
di primo grado n. 8888/2013 del T.A.R. Lazio – ha ritenuto che il diritto di difesa, per quanto “privilegiato” ai sensi dell’art.
24, comma 7, della L. n. 241 del 1990 (1),
debba necessariamente essere considerato, in questo caso, “recessivo”
rispetto al diritto alla riservatezza di cui sopra.
Una
netta presa di posizione sul tema, dunque, da parte della
giurisprudenza amministrativa, che manifesta l’assoluta necessità di
tutelare le sopra citate dichiarazioni rese dai lavoratori in sede
ispettiva, in quanto “contenenti
dati sensibili la cui divulgazione potrebbe comportare azioni
discriminatorie o indebite pressioni nei confronti dei lavoratori, i
quali devono essere posti in grado di collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie, nonché di presentare esposti e denunce
senza temere possibili ritorsioni nell’ambiente di lavoro in cui
vivono”. Ma
qual è, effettivamente, la ratio posta
alla base di tale analisi?
Ebbene,
la risposta – come si evince dal testo della sentenza qui in
discussione – è da rinvenirsi nella riservatezza che deve essere
garantita a quei soggetti (i lavoratori) che risulterebbero
ragionevolmente i più deboli nell’ambito del rapporto di lavoro;
l’obiettivo dichiarato, in sostanza, è quello di prevenire
“eventuali
ritorsioni o indebite pressioni da parte delle società datrici di
lavoro o di quelle obbligate in solido con le medesime, per
preservare in tal modo l’interesse generale ad un compiuto controllo
della regolare gestione dei rapporti di lavoro”.
Ciò
senza dimenticare, peraltro, che – anche in assenza dell’accesso alle
dichiarazioni rese dai lavoratori medesimi – la tutela degli
interessi giuridici vantati dalle predette società risulterebbe
comunque pienamente garantita dall’ordinamento, in quanto –
riferiscono i giudici amministrativi –
“la
compiuta conoscenza dei fatti e delle allegazioni contestate risulta,
di norma, assicurata dal contenuto del verbale di accertamento
relativo alle dichiarazioni dei lavoratori e visto che comunque vi è
la possibilità di ottenere accertamenti istruttori in sede
giudiziaria. Il che, peraltro, dimostra come la documentazione a cui
si richiede di accedere e che contiene dati sensibili, non risulti strettamente indispensabile, come del resto previsto dallo stesso
articolo 24, comma 7, della Legge n. 241/1990 per curare o difendere
i propri interessi giuridici”.
E
, si badi bene, nonostante la società ricorrente in primo grado
non fosse diretta datrice di lavoro dei dipendenti coinvolti, bensì
semplice responsabile in solido per le sanzioni amministrative
comminate alle imprese, il Collegio precisa che i ragionamenti svolti
conservano il loro valore “a
prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro diretto tra soggetto che ha reso le dichiarazioni e società che chiede
l’accesso, sia essa datrice di lavoro o chiamata in solido al
pagamento delle sanzioni comminate”.
Queste due posizioni, infatti, sono da collocarsi sullo stesso piano
”di garanzia” ai fini della questione giuridica trattata in
questa sede, vale a dire nell’ottica del corretto (e non sempre
agevole!) bilanciamento tra il diritto alla tutela degli interessi
giuridici e il diritto alla riservatezza dei lavoratori.
(1)
”Deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per
difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti
contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei
limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti
dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in
caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale”.
Consiglio di Stato, sez. VI, 20 maggio 2014, n. 2555