Cassazione civile, sez. II, 11 settembre 2013, n. 20847
L’art. 1189 cod. civ., in deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188 per il quale il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante, dispone che “il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede”.
Nel caso di specie i giudici di merito riconoscono efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal debitore, il quale viene ritenuto in buona fede per aver eseguito l’obbligazione su esso gravante non al creditore effettivo ma ad un suo procacciatore di affari, ovvero ad un soggetto non autorizzato a riscuotere crediti per conto del preponente.
La Suprema Corte annulla la sentenza di rigetto della Corte territoriale ed in conformità ad altri analoghi precedenti accoglie la tesi del ricorrente, mettendo in evidenza l’insussistenza della buona fede del debitore, la quale “può dirsi raggiunta quando il debitore fornisca la prova non solo di aver confidato senza sua colpa nella situazione apparente, ma, altresì, che il proprio erroneo convincimento sia stato determinato da un comportamento del creditore tale da far sorgere nel solvens in buona fede una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens”.
Infatti, precisa la Corte, “l’effetto liberatorio di cui all’art. 1189 c.c. è collegato al principio dell’apparenza giuridica che ne costituisce il fondamento e siccome l’apparenza deve essere ricondotta ad un comportamento del creditore (non potendo dipendere dalle mere affermazioni o dal comportamento dell’accipiens), l’art. 1189 c.c. è applicabile solo se l’apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento, esente da colpa, sulla effettiva sussistenza della facoltà apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento”.
Cassazione civile, sez. II, 11 settembre 2013, n. 20847