Corte Costituzionale, 23 novembre 2006, n. 393
La L. 251 del 2005, meglio nota come ex Cirielli, ha apportato, fra le altre modifiche al codice penale, una revisione completa del regime prescrizionale dei reati (art. 6 della legge richiamata che sostituisce integralmente l’art. 157 c.p.) sortendo l’effetto di inasprire la disciplina previgente relativamente ad alcuni reati e, viceversa, rendendo più breve il termine prescrizionale per altri.
Al fine di coordinare il passaggio da una disciplina all’altra, la legge, al decimo ed ultimo articolo, contiene una serie di disposizioni transitorie e in particolare, al terzo comma così dispone “Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione”.
Proprio in ordine a tale disposizione è stata sollevata dal Tribunale di Bari questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui l’applicazione della nuova e più favorevole disciplina è subordinata alla condizione della mancata apertura del dibattimento nei procedimenti pendenti.
La Consulta ha ritenuto fondata la questione sollevata stante l’irragionevolezza della scelta effettuata dal legislatore nel voler fissare nella dichiarazione di apertura del dibattimento la scriminante temporale per l’applicazione dei nuovi e più favorevoli termini di prescrizione, con conseguente violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Al fine di meglio comprendere le ragioni della decisione di cui sopra occorre riprendere brevemente alcuni concetti relativi alla successione delle leggi penali nel tempo.
Il principio generale della irretroattività della legge di cui all’art. 11 delle preleggi trova specificazione più puntuale in materia penale nell’art. 2 c.p. coordinandosi con altro principio generale dell’ordinamento, quello del favor rei. Ne deriva che il principio del “tempus regit actum” è parzialmente derogato in favore dell’applicazione retroattiva della legge più favorevole al reo, dando luogo ad un sistema alquanto complesso per cui: a) vi è irretroattività delle norme incriminatrici (1 comma); b) vi è retroattività delle norme abrogatici (2 comma); c) vi è una limitata retroattività delle altre norme penali ovvero solo se più favorevoli al reo rispetto a quelle vigenti al “tempus commissi delicti” (4 comma, salvo condanna passata in giudicato).
Occorre altresì rilevare come se il principio della irretroattività della norma incriminatrice ha rilevanza costituzionale (“Nessuno può essere punito in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” – Art. 25 Cost.), così non è per il regime giuridico riservato alla lex mitior. Ne deriva che la stessa legge che introduce norme più favorevoli al reo può altresì contenere disposizioni che ne escludano la retroattività, derogando all’art. 2, 4 comma c.p., fermo restando il limite del rispetto dell’art. 3 della Costituzione ovvero dell’uguaglianza dei cittadini.
La Corte Costituzionale ha affermato (ripetendosi ancora una volta sul tema) che eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria solo se ricorre una sufficiente ragione giustificativa. Più precisamente il livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio della retroattività della disposizione più favorevole al reo impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo.
Si tratta di criteri propri non solo dell’ordinamento nazionale ma desumibili da tutta una serie di disposizioni di carattere comunitario (comma 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario») ed internazionale (art. 15, 1 comma, Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato con L. n. 881/77 «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»).
Cosicché, in applicazione di detti criteri, la Consulta ha così motivato la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251:
«…la questione di legittimità costituzionale in esame si risolve in quella della intrinseca ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e dunque alla luce del principio di eguaglianza, della scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.
A giudizio di questa Corte, la scelta effettuata dal legislatore con la censurata disposizione transitoria non è assistita da ragionevolezza.
L’apertura del dibattimento non è in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al già menzionato rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa (e ciò a prescindere del tutto dalla addebitabilità del ritardo nello svolgimento del processo).
Infatti, l’incombente di cui all’art. 492 del codice di procedura penale non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in particolare i riti alternativi – e, tra essi, il giudizio abbreviato – che hanno la funzione di “deflazionare” il dibattimento); né esso è incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processuali anteriori».
Corte Costituzionale, 23 novembre 2006, n. 393