Cassazione civile, sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4211
La fattispecie riguarda il caso di un Testimone di Geova il quale, al momento del ricovero in ospedale a seguito di un trauma, in osservanza della propria fede religiosa, aveva manifestato la volontà di non essere sottoposto ad eventuali trasfusioni di sangue. Diritto fondato sul combinato disposto dell’ art. 32 della Costituzione, dell’art. 9 della L. 28 marzo 2001 n. 145 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina”), e dell’art. 40 del codice di deontologia medica.
Tuttavia, all’aggravarsi delle condizioni con pericolo di vita per il paziente, i medici, nel corso dell’intervento chirurgico, essendo questi anestetizzato e mancando la possibilità di interpellare altri soggetti legittimati in sua vece, contattato telefonicamente il Procuratore della Repubblica, hanno ugualmente praticato una trasfusione indispensabile per salvargli la vita, ritenendo altamente probabile che l’originario rifiuto non fosse più valido.
I giudici di merito, nel rigettare la domanda del Testimone di Geova volta ad ottenere il risarcimento dei danni morali, hanno ritenuto legittimo il comportamento adottato dai sanitari.
Si è osservato infatti che il dissenso, così come il consenso, ad essere sottoposti a trattamento terapeutico deve essere “inequivoco, attuale, effettivo e consapevole”.
L’originario dissenso, espresso in un momento in cui le condizioni cliniche non facevano temere un imminente pericolo di vita, rendeva quantomeno dubbia la persistenza di una siffatta volontà non potendosi ritenere coincidente la volontà di essere curato evitando la terapia trasfusionale con quella di morire pur di evitare di essere trasfuso.
La S.C., confermado l’orientamento del giudice d’appello, ha aggiunto e precisato che «tale motivazione non è viziata da errori di diritto, perchè rispettosa della legge 28 marzo 2001 n. 145 […], che all’art. 9 stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”; e che i sanitari trentini li abbiano tenuti in considerazione, risulta non foss’altro dall’avere interpellato telefonicamente, in costanza di intervento operatorio, il Procuratore della Repubblica ricevendone implicitamente un invito ad agire».
Da notare infine che il giudice d’appello, nella relativa sentenza, aveva concluso nel senso che pure nell’ipotesi in cui il dissenso originariamente manifestato dal paziente fosse stato ritenuto perdurante, comunque il comportamento adottato dai sanitari sarebbe stato scriminato ex art. 54 c.p. e che, quindi, esclusa l’illiceità di tale comportamento, doveva escludersi la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile.
Cassazione civile, sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4211