Cassazione civile, sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001
Il ricorso all’utero in affitto (cd. “surrogazione di maternità”) è vietato nell’ordinamento italiano per motivi di ordine pubblico per cui va dichiarato lo stato di adottabilità del minore nato su commissione.
Nel nostro ordinamento è madre colei che partorisce (art. 269, comma 3 cod. civ.) mentre è fatto espresso divieto (L. n. 40/2004, art. 12, comma 6) rafforzato da sanzione penale, della pratica di surrogazione di maternità secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per conto di un’altra donna.
Tale divieto è posto a presidio di beni giuridici fondamentali quali la dignità umana della gestante e l’istituto stesso dell’adozione, con cui la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al semplice accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico.
Il divieto di surrogazione di maternità non è stato messo in discussione neppure dalla sentenza 162/2014 della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa che fa salve le norme di che trattasi.
Art. 12, comma 6 Legge 40/2014
Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.
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Cassazione civile, sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001