FATTO
Con citazione notificata il 17 maggio 1993, la Moviter s.r.l. di Bucciante Nicola chiamò in giudizio, davanti al Tribunale di Lanciano il Comune di Archi, chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 222.662.072, oltre agli accessori, a titolo d’indennità per lavori eseguiti extra contratto a favore dell’amministrazione convenuta, in relazione ad un appalto di lavori per il completamento della rete idrica e fognante, stipulato tra le parti il giorno 1 dicembre 1989.
il comune resistette alla domanda, assumendo trattarsi di opere arbitrariamente eseguite dall’attrice, senza autorizzazione dell’amministrazione committente né della direzione dei lavori, per le quali non era stata riconosciuta l’indispensabilità, e delle quali non si era avvantaggiato (si trattava di maggiori allacci rispetto a quelli contrattualmente previsti, dei quali semmai si erano avvantaggiati singoli utenti che li avevano richiesti).
Con sentenza in data 3 dicembre 1996, il Tribunale di Lanciano rigettò la domanda attrice.
Contro questa sentenza, la parte soccombente propose appello, respinto dalla Corte d’appello de L’Aquila con sentenza 30 settembre 2002. Premesso che la società appellante aveva sempre sostenuto di aver eseguito i lavori su espressa richiesta e sollecitazione della direzione dei lavori e dell’amministrazione comunale, la corte ritenne che la fattispecie fosse inquadrabile nell’ambito di una contrattazione nulla per difetto dei requisiti di legge (forma scritta ad substantiam). Considerato però che della commissione dei lavori aggiuntivi non era stata fornita alcuna prova, i lavori medesimi dovevano considerarsi arbitrari, e non davano diritto ad alcun compenso, salva l’applicazione del R.D. n. 350 del 1895, art. 103, sempre che ne ricorressero i presupposti (riconosciuta indispensabilità dei lavori in sede di collaudo, espressa approvazione da parte del committente, inclusione dell’importo totale delle opere, comprese le addizioni o variazioni entro i limiti delle spese approvate.). Quanto all’azione ex art. 2041 c.c., per essa è indispensabile il riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte di coloro cui è rimessa la formazione della volontà dell’ente. Nella specie, tuttavia, l’appellante non aveva dimostrato né la ricorrenza dei presupposti per l’applicabilità del R.D. n. 350 del 1895, art. 103, né l’avvenuto riconoscimento dell’utilità dell’opera.
Per la cassazione della sentenza, notificata il 15 gennaio 2003, ricorre la Bucciante Costruzioni s.r.l., incorporante di Moviter s.r.l. di Bucciante Nicola, con atto notificato il giorno 11 marzo 2003, affidato ad un unico mezzo d’impugnazione.
Il Comune di Archi resiste con controricorso notificato il 2 maggio 2003. A seguito del decesso del difensore del Comune di Archi, e del conseguente rinvio dell’udienza pubblica inizialmente fissata, l’ente ha nominato un nuovo difensore, che ha partecipato alla discussione.
DIRITTO
Il Comune di Archi ha notificato il controricorso dopo il 20 aprile 2003 (quarantesimo giorno dalla notifica del ricorso principale, avvenuta in data 11 marzo 2003), e quindi tardivamente. Il difensore dell’ente ha tuttavia svolto oralmente le sue difese, partecipando alla discussione in udienza pubblica.
Con il ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., nonché vizi di motivazione della sentenza impugnata. Si censura il giudizio della corte territoriale, secondo la quale nella fattispecie non era stata fornita la prova del riconoscimento dell’utilità dell’opera. Premesso che il riconoscimento può essere anche implicito, si citano dei passi della relazione di consulenza tecnica d’ufficio, dai quali emerge che i lavori eseguiti dall’impresa erano indispensabili, che in ordine alla loro esecuzione il direttore dei lavori era tacitamente consenziente, e che il tecnico comunale aveva dichiarato di non aver mai avuto occasione di contestare nulla all’impresa, che a suo dire si era sempre comportata correttamente. Secondo la società ricorrente, ciò significa che l’ente appaltante era al corrente dell’esecuzione di opere contrattualmente non concordate, e ciò nonostante non ne aveva ordinato la rimozione. Al contrario, le opere erano state utilizzate “dalla collettività”, con la conoscenza innegabilmente connivente della loro esecuzione da parte della stazione appaltante. Infine, come si ricorda nell’impugnata sentenza, il comune si era dichiarato in un primo tempo disposto a pagare per quelle opere alla società, seppure in via transattiva, la somma di L. 34.000.000, e secondo la giurisprudenza ai fini dell’azione di arricchimento contro la p.a., il riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte dell’amministrazione deve essere inteso come vantaggio in sé, e non già come quantificazione monetaria.
Il ricorso è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa corte, nell’azione di arricchimento svolta nei confronti della pubblica amministrazione il riconoscimento dell’utilità, condizione dell’azione, può anche essere implicito; esso, tuttavia, deve desumersi dalla prova specifica di comportamenti imputabili (non a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell’ente, bensì solo) agli organi rappresentativi dell’amministrazione interessata o a coloro cui e rimessa la formazione della volontà dell’ente stesso (Cass. 2 aprile 1999 n. 3222; 27 giugno 2002 n. 9348). Tali non sono il consulente tecnico d’ufficio, nominato nel giudizio, né il direttore dei lavori, né il tecnico comunale.
Non maggior valore ha la proposta transattiva dalla quale vorrebbe trarsi argomento a favore del riconoscimento delle ragioni degli odierni ricorrenti. Per costante giurisprudenza di questa corte, le trattative per comporre bonariamente la vertenza, le proposte, le concessioni e le rinunce fatte dalle parti a scopo transattivo, se non raggiungono l’effetto desiderato, non avendo come proprio presupposto l’ammissione totale o parziale della pretesa avversaria non rappresentano riconoscimento del diritto altrui, (Cass. 9 maggio 1997 n. 4060, 17 ottobre 2002 n. 14748, 13 novembre 2003 n. 17134).
In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità sono a carico della parte soccombente, e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 3.600,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori, come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 marzo 2008.
Depositata in Cancelleria il 8 maggio 2008.