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Sentenze Civile e procedura civile

Cassazione civile, sez. II, 14 maggio 2024, n. 13227

Redazionedi Redazione20 Maggio 2024
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Cassazione civile, sez. II, 14 maggio 2024, n. 13227

Fatti di causa

1. La Curatela del Fallimento (omissis) s.r.l. proponeva domanda revocatoria ordinaria nei confronti della (omissis) s.r.l. innanzi al Tribunale di Busto Arsizio, chiedendo che fosse dichiarata l’inefficacia del contratto di compravendita stipulato in data 16.11.2018 e trascritto in data 21.11.2018, subito dopo l’apertura del fallimento del 15.11.2018, tra la stessa società (omissis) s.r.l. in bonis e la citata convenuta (omissis) s.r.l., avente ad oggetto un immobile sito in Limbiate, precedentemente acquistato al prezzo di 580.000,00 euro.
In accoglimento del reclamo proposto dalla società fallita, rilevando che vi era stata rinuncia alla domanda da parte del creditore istante, la Corte di appello di Milano revocava nelle more il fallimento e trasmetteva gli atti al P.M., su iniziativa del quale la società (omissis), con sentenza n. 21/2020, veniva nuovamente dichiarata fallita.

2. Con sentenza n. 1316/2021 il Tribunale di Busto Arsizio accoglieva la domanda attorea.

3. (omissis) s.r.l. interponeva gravame avverso la predetta sentenza.
Il Fallimento (omissis) s.r.l. si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della decisione impugnata.

4. Con sentenza n. 1816/2022, pubblicata il 26 maggio 2022, la Corte di Appello di Milano rigettava l’appello.
5. Avverso tale decisione (omissis) s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidando le sue doglianze a due complessi motivi di ricorso.

6. Il Fallimento (omissis) S.r.l. ha resistito con controricorso, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso ai sensi degli artt. 360-bis n. 1 e art. 366, comma 1, n. 4 c.p.c., per il difetto di specificità dei motivi e chiedendone, comunque, il rigetto nel merito.

7. A seguito di proposta di sintetica proposta di definizione accelerata formulata dal Consigliere delegato per manifesta infondatezza del ricorso, la ricorrente ha chiesto la decisione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c.

8. In prossimità dell’adunanza camerale, le parti hanno depositato memoria.

Ragioni della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2901 c.c. e dell’art. 66 R.D. n. 267/1942 e l’omessa valutazione di circostanze (asseritamente) fondamentali per il giudizio, per insussistenza dell’operazione c.d. “sospetta” e assenza del presupposto oggettivo, la violazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., unitamente alla violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c.
Secondo il ricorrente il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere sussistente l’eventus damni e il presupposto soggettivo ai fini dell’azione revocatoria ordinaria.
Inoltre, il giudice a quo avrebbe dimostrato di non aver esaminato fatti e documenti decisivi per il giudizio, in particolare:
- ritenendo irrilevante che il prezzo di vendita fosse congruo secondo la perizia di stima allegata e che l’atto di compravendita in oggetto di esame non presentasse alcuna anomalia;
- escludendo la circostanza che alla base del credito di (omissis), pagato tramite compensazione, vi fossero fatture e documenti di trasporto e che ciò non facesse venir meno l’efficacia dell’atto, insuscettibile di revocatoria ordinaria;
- rilevando erroneamente che il mezzo di pagamento costituisse una datio in solutum e non una mera compensazione atecnica;
- considerando che la procedura fallimentare non avesse dimostrato il carattere pregiudizievole dell’atto, in relazione alla sufficienza o meno dei beni residui del debitore ad offrire la garanzia patrimoniale per il ceto creditorio.
Il Giudice di appello, secondo la ricorrente, avrebbe inoltre invertito illegittimamente l’onere della prova, con riferimento alla necessità di dimostrare l’operazione c.d. sospetta.
Da ultimo, la ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere rilevanti i documenti n. 9, depositato nel primo grado di giudizio, e n. 10, in quanto viceversa irrilevanti ai fini dell’azione revocatoria proposta.

2.- Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente deduce ancora la violazione dell’art. 2901 c.c. e dell’art. 66 R.D. n. 267/1942 congiuntamente all’omessa valutazione di (asserite) circostanze fondamentali per il giudizio avuto riguardo all’assenza del presupposto soggettivo, alla violazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., oltre che alla violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c.
La Corte d’Appello di Milano, secondo la ricorrente, avrebbe errato nell’omesso esame delle seguenti circostanze:
- ritenendo rilevanti, ai fini dell’azione revocatoria ordinaria, circostanze riferibili al fallimento del 2018, poi revocato, che non erano influenti nella vicenda in esame, la quale aveva ad oggetto la procedura di fallimento aperta nel 2020;
- non attribuendo decisività al fatto che i documenti di trasporto di atti risultassero sottoscritti dal conducente/vettore e che tale documentazione, non disconosciuta, fosse in grado di dimostrare che la merce commissionata e indicata in fattura era regolarmente pervenuta alla destinataria ed era stata consegnata;
- non considerando che il bene fosse di assoluto interesse per (omissis) e che non fosse certo stato acquisito per finalità diverse da quella di collocare la propria sede operativa;
- non valutando che il valore reale dell’immobile oggetto dell’acquisto, indicato dalla perizia, era pari alla somma di euro 327.000,00, prezzo inferiore al corrispettivo pattuito in contratto.
Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte di appello ha erroneamente considerato esistente il c.d. consilium fraudis, non rilevando come fossero trascorsi oltre due anni dall’atto dispositivo e che, dunque, non era sufficiente la semplice consapevolezza di nuocere ai creditori ai fini della qualificazione dell’elemento soggettivo, bensì era necessaria la preordinazione con la volontà di nuocere al ceto creditorio.
Infine, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata in via presuntiva, essa società (omissis) non poteva conoscere la situazione di dissesto di (omissis) Srl sia per il fallimento del 2020, sia per la prima pronuncia, poi revocata, del 15/11/2018.

3.- Rileva il collegio che - previo rigetto delle eccezioni processuali di inammissibilità formulate dalla parte controricorrente, che non colgono nel segno - il primo motivo del ricorso non è fondato.
Come già evidenziato nella proposta formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., la Corte territoriale ha effettuato una compiuta ed adeguata valutazione circa la ravvisata esistenza dell’eventus damni, avendo valorizzato una serie di circostanze, tra loro collegate, sul piano oggettivo, così esprimendo una motivazione insindacabile nella presente sede di legittimità, ovvero: a) che il prezzo pattuito non era congruo, anche secondo le risultanze della perizia di stima prodotta dalla stessa appellante (con una differenza di oltre 53.000,00 euro); b) che solo due anni prima il cespite era stato acquistato dalla società (omissis) al prezzo notevolmente superiore di euro 580.000,00; c) che l’atto di vendita aveva compromesso il patrimonio della società fallita, giacché il bene oggetto del contratto era l’unico bene immobile della detta società ed era libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli.
In proposito, va posto in risalto che il requisito oggettivo dell’eventus damni ricorre non solo nel caso in cui l’atto dispositivo comprometta totalmente la consistenza patrimoniale del debitore, ma anche quando determini una variazione soltanto qualitativa del patrimonio che comporti una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del credito (v., tra le tante, Cass. n. 20232/2023; Cass. n. 16221/2019; Cass. n. 1896/2012), nonché, a maggior ragione, allorché alla sottrazione del cespite dal patrimonio del debitore non consegua neanche l’acquisizione nel medesimo patrimonio di un corrispettivo in denaro, alla stregua della effettuata compensazione legale (Cass. n. 2552/2023). Il tutto puntualizzandosi che, con riguardo all’esercizio dell’azione da parte del curatore, in materia di azione revocatoria ordinaria di un atto di disposizione patrimoniale compiuto da soggetto successivamente dichiarato fallito, allo stesso curatore, al fine di dimostrare la sussistenza dell’eventus damni, è accollato l’onere di riscontrare la consistenza dei crediti vantati dai creditori ammessi al passivo fallimentare, la sussistenza, al tempo del compimento del negozio, di una situazione patrimoniale del soggetto fallito che mettesse a rischio la realizzazione dei crediti sociali ed il mutamento qualitativo o quantitativo della garanzia patrimoniale generica, rappresentata dal patrimonio sociale, determinato dall’atto dispositivo (Cass. n.19515/2019; Cass. n. 9565/2018; Cass. n. 8931/2013), condizioni che sussistevano ed erano state riscontrate nella fattispecie, secondo le congrue - e, perciò, insindacabili - argomentazioni precedentemente esposte adottate dalla Corte d’appello.
La Corte milanese ha, poi, esattamente rilevato - in conformità alla giurisprudenza di legittimità - che, a fronte della vendita senza corresponsione del prezzo, in ragione della compensazione legale del corrispettivo pattuito con altro precedente credito vantato dall’acquirente verso l’alienante - si ricade in un’ipotesi di datio in solutum (attuata mediante la cessione di beni, con imputazione del prezzo a compensazione di un debito scaduto), che costituisce modalità anomala di estinzione dell’obbligazione ed è, quindi, da ritenersi assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria promossa dal curatore ex art. 66 L.F., sottraendosi all’inefficacia ai sensi dell’art. 2901, terzo comma, c.c. solo l’adempimento di un debito scaduto in senso tecnico e non un atto discrezionale, dunque non dovuto, come la predetta cessione, in cui l’estinzione dell’obbligazione è l’effetto finale di un negozio soggettivamente ed oggettivamente diverso da quello in virtù del quale il pagamento è dovuto (v. Cass. n. 4244/2020; Cass. n. 26927/2017; Cass. n. 28981/2008).

4.- Anche il secondo motivo è privo di fondamento e va ugualmente rigettato.
Con esso - come si è già detto - la ricorrente si duole che la Corte territoriale ha riconosciuto l’integrazione del presupposto soggettivo della formulata azione revocatoria in ragione della dimostrazione, da parte del curatore, anche in via presuntiva, della consapevolezza, in capo alla società disponente e alla società acquirente, del fatto di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori, consapevolezza insita nella conoscenza della pregressa situazione debitoria, con violazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.
Senonché, si osserva che, ancora una volta, il giudice di appello ha al riguardo valorizzato plurime e convergenti circostanze idonee a smentire la ricostruzione della ricorrente, ponendo in risalto che: a) che i crediti ammessi al passivo del fallimento dichiarato nel 2020, già ammessi al passivo del fallimento dichiarato nel 2018, ammontavano ad oltre 700.000,00 euro e risalivano agli anni 2016, 2017, 2018 e 2019, sicché la decozione della società (omissis) era certamente apprezzabile al momento della stipula della vendita; b) che l’atto di vendita era stato formalizzato il 16 novembre 2018, mentre il 15 novembre 2018 era stata iscritta nel registro delle imprese la dichiarazione di fallimento della società (omissis) (sebbene successivamente esso fosse stato revocato e nuovamente dichiarato nel 2020); c) che il prezzo era stato convenuto nella stessa misura del credito vantato dall’acquirente verso l’alienante.
Sulla base di questo quadro fattuale, la Corte distrettuale ha adeguatamente e consequenzialmente desunto l’emergenza della scientia damni, essendo sufficiente - a tal proposito - la consapevolezza, del debitore alienante e del terzo acquirente, della diminuzione della garanzia generica per la riduzione della consistenza patrimoniale del primo, non essendo necessaria la collusione tra gli stessi, né occorrendo la conoscenza, da parte del terzo, dello specifico credito (o degli specifici crediti) per cui è proposta l’azione (Cass. n. 28423/2021; Cass. n. 16825/2013), condizioni anch’esse ritenute adeguatamente integrate nella fattispecie, avendo la Corte d’appello specificato che, nonostante il fallimento dichiarato nel 2018 fosse stato revocato, per poi essere nuovamente dichiarato nel 2020, i crediti verso la società (omissis) risalivano anche agli anni antecedenti alla prima dichiarazione di fallimento.
Quanto ai vizi ricondotti al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. vale la preclusione da “doppia conforme” di cui all’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c. (ratione temporis applicabile nella fattispecie), avendo la Corte di appello deciso in base alle stesse motivazione di quelle del giudice di primo grado (condividendola nel ripercorrere lo svolgimento logico-giuridico e giungendo alla medesima conclusione nel ritenere che l’appellante avesse acquistato l’immobile di Limbiate, oggetto di causa, nella piena consapevolezza del carattere lesivo dell’atto per gli altri creditori), non senza peraltro dar conto del difetto di specificità dei documenti richiamati, non risultandone specificamente riportato il contenuto.

5.- In definitiva:
- con riferimento al primo motivo, va - tra gli altri elementi - riconfermato che una compravendita comportante una datio in solutum (attuata mediante la cessione di beni, con imputazione del prezzo a compensazione di un debito scaduto) costituisce una modalità anomala di estinzione dell’obbligazione ed è, quindi, assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria promossa dal curatore ai sensi dell’art. 66 L.F. (determinando - al di là della possibile congruità del prezzo di vendita e dell’esistenza o meno di crediti opposti in compensazione - un mutamento qualitativo e di affidabilità del patrimonio del fallito), sottraendosi all’inefficacia in virtù dell’art. 2901, comma terzo, c.c. solo l’adempimento di un debito scaduto in senso tecnico e non un atto discrezionale;
- con riguardo al secondo motivo, sul presupposto che l’azione revocatoria era stata esercitata a tutela di crediti anteriori alla stipulazione della compravendita assoggettata a tale azione, sul curatore fallimentare gravava solo l’onere di dimostrare la consapevolezza, in capo al disponente e dalla società ricorrente di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori.
E sulla base di valutazioni la Corte di appello ha compiuto adeguati accertamenti di merito, insindacabili in questa sede.

6.- In conclusione, per quanto complessivamente argomentato, il ricorso va rigettato e la ricorrente deve essere condannata - in virtù dell’applicazione del principio della soccombenza - al pagamento delle spese di questo giudizio, liquidate come in dispositivo.
Essendo la presente decisione resa in tema di procedimento per la definizione accelerata di un ricorso manifestamente infondato, di cui all’art. 380-bis c.p.c., come sostituito dal d.lgs. n. 149 del 2022, con formulazione di istanza di decisione ai sensi dell’ultimo comma della norma citata, decisione che è risultata conforme alla proposta, la parte ricorrente deve essere, inoltre, condannata al pagamento delle ulteriori somme previste dall’art. 96, ai commi 3 e 4, c.p.c., che si liquidano sempre come in dispositivo (sulla doverosità del pagamento della somma di cui all’art. 96, comma 4, c.p.c. in favore della Cassa delle ammende: Cass. S.U. 27195/2023).
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della stessa ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio del presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 6.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge.
Condanna, altresì, la ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento, sempre a favore della parte controricorrente, di una somma ulteriore di euro 2.000,00, equitativamente determinata, nonché, in virtù dell’art. 96, comma 4, c.p.c., al pagamento della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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