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Cassazione civile, sez. II, 25 settembre 2018, n. 22728

Redazionedi Redazione5 Ottobre 2018Aggiornato il:5 Ottobre 2018
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione civile, sez. II, 25 settembre 2018, n. 22728

Fatto

1. – G.C. convenne dinanzi al Giudice di Pace di Ravenna la società “Animali Amici” di M.T. & C. s.a.s..
Premettendo di aver acquistato il 6/2/2007 dalla società convenuta un cane di razza “Pinscher” che successivamente era risultato affetto da grave cardiopatia congenita, chiese la condanna della medesima alla parziale restituzione del prezzo e al risarcimento del danno.
Il Giudice di pace rigettò la domanda attorea, con sentenza che fu confermata in appello dal Tribunale di Ravenna.
Secondo il Tribunale, l’attore aveva acquisito certezza della sussistenza della grave patologia dell’animale il 2/1/2008 (giorno in cui era stato eseguito sullo stesso un esame TAC), cosicché la denuncia del vizio effettuata con lettera raccomandata spedita l’11/1/2008 e pervenuta al destinatario il 16/1/2008 risultava tardiva, essendo stata posta in essere oltre il termine decadenziale di otto giorni previsto dall’art. 1495 c.c., e non essendo applicabile alla fattispecie la disciplina del codice del consumo.

2. – Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione G.C. sulla base di due motivi.
La società Animali Amici di M.T. & C. s.a.s. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 c.p.c., n. 3) la violazione dell’art. 1496 c.c. – D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 128 e 135, (c.d. codice del consumo), per avere il Tribunale ritenuto che il detto art. 1496 c.c., nel disciplinare la “Vendita di animali”, derogasse alla disciplina dettata dal codice del consumo e ne escludesse l’applicabilità; e per avere, conseguentemente, ritenuto che il termine di decadenza per la denunzia dei vizi della cosa venduta fosse quello – previsto dall’art. 1495 c.c. – di otto giorni dalla scoperta del vizio, piuttosto che quello di due mesi previsto dall’art. 132 del codice del consumo.
Secondo il ricorrente, l’animale d’affezione andrebbe ricompreso nell’ampia nozione di “bene di consumo” di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 128, e l’acquirente di un tale animale dovrebbe qualificarsi “consumatore” ove l’acquisto – come nel caso di specie – non sia collegato all’esercizio di attività imprenditoriale o professionale; pertanto, dovrebbe trovare piena applicazione la disciplina posta dal codice del consumo a tutela del consumatore, e non quella – meno garantista – prevista dal codice civile.

2. – La censura è fondata nei termini che seguono.
2.1. – L’invocata applicazione del codice del consumo esige l’esame della nozione di “bene di consumo” e, prima ancora, della nozione di “bene”, quale oggetto della negoziazione giuridica.
In termini generali, col termine “bene”, nel mondo del diritto, si intende l’oggetto della tutela giuridica”.
Un “bene” può essere tutelato dal diritto nell’interesse generale della collettività e, quindi, a prescindere dal riconoscimento a taluno di un diritto soggettivo su di esso (si tratta, essenzialmente, della tutela apprestata dal diritto pubblico, tutela che taluna dottrina denomina “obiettiva”). Nel campo del diritto privato, tuttavia, per “bene” si intende l’oggetto” di un diritto soggettivo, o di situazioni giuridiche soggettive; in tal caso, il bene, quale “oggetto” del diritto, costituisce il correlato logico-giuridico del “soggetto” del diritto medesimo.
Il codice civile, all’art. 810, fornisce la nozione di beni, definendoli come “le cose che possono formare oggetto di diritti”.
Dal punto di vista ontologico, i concetti di “bene” (bonum) e di “cosa” (res) sono diversi e non sovrapponibili.
La cosa, intesa come una qualsiasi porzione del mondo esterno, è di per sè un’entità naturale, pregiuridica; essa diventa “bene giuridico” quando, per il fatto di essere suscettibile di utilizzazione da parte dell’uomo e di assumere “valore economico”, viene presa in considerazione dal diritto, sì da divenire oggetto di rapporti giuridici. In questo senso, non tutte le cose sono beni per il diritto, tali non potendo essere le cose inaccessibili e le res communes omnium.
D’altra parte, l’ordinamento giuridico tutela beni che non sono cose in senso naturalistico (come le attività umane e, in genere, i beni c.d. immateriali, come le opere dell’ingegno).
Nonostante che dal punto di vista naturalistico il concetto di “cosa” non coincida con quello di “bene”, nel diritto positivo i due concetti vengono fatti coincidere. Il codice civile, infatti, come si è veduto, identifica i beni con le cose che possono formare oggetto di diritti e, comunque, utilizza i termini “beni” e “cose” in modo promiscuo. Per questo, la dottrina, sulla scia della tradizione romanistica, distingue tra beni o cose “materiali” (res corporales) e beni o cose “immateriali” (res incorporales).

2.2. – Nel campo dell’esperienza giuridica vanno considerati come “cose” anche gli esseri viventi suscettibili di utilizzazione da parte dell’uomo: non solo i vegetali, ma anche gli animali.
L’uomo ha sempre manifestato verso gli animali, in quanto esseri senzienti, un senso di pietà e di protezione, quando non anche di affetto. Da qui l’esistenza, in tutte le epoche storiche, di precetti giuridici, essenzialmente di natura pubblicistica, posti a salvaguardia e a tutela degli animali (basti pensare, subito dopo l’unificazione dell’Italia, al codice Zanardelli, che puniva gli atti crudeli, le sevizie e i maltrattamenti verso gli animali; fino alla più recente legge 20 luglio 2004, n. 189, che ha inserito nel libro II del vigente codice penale il nuovo “Titolo IX-bis”, denominato “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”, configurando, a tutela degli animali, una apposita serie di delitti in luogo delle precedenti contravvenzioni).
Non tutti gli animali, però, assumono per l’uomo lo stesso significato ed hanno lo stesso rilievo.
Com’è noto, a parte gli animali selvatici (i quali ricevono protezione attraverso la legislazione che regolamenta la caccia e individua le specie “protette”), gli animali addomesticati dall’uomo sono tradizionalmente distinti in animali “da reddito”, utilizzati per il lavoro o per la produzione (carni, latte, uova, lana, pelli, etc.), e animali “da compagnia” (o “d’affezione”), per tali intendendosi “ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall’uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari” (D.P.C.M. 28 febbraio 2003, art. 1).
Ed il crescente ruolo che negli ultimi decenni hanno assunto gli animali da compagnia nella società contemporanea ha indotto uno speciale rafforzamento della loro tutela giuridica; rafforzamento attuato, principalmente, con la L. 14 agosto 1991, n. 281, (c.d. “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”) e con la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, stipulata a Strasburgo il 13 novembre 1987 e ratificata in Italia con la L. 4 novembre 2010 n. 201.
Va tuttavia precisato che la disciplina pubblicistica che appresta tutela agli animali non rende comunque questi ultimi titolari di diritti.
L’animale, per quanto sia un essere senziente, non può essere soggetto di diritti per la semplice ragione che è privo della c.d. “capacità giuridica” (che si definisce, appunto, come la capacità di essere soggetti di diritti e di obblighi); capacità che l’ordinamento riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche. L’animale, perciò, è solo il beneficiario della tutela apprestata dal diritto e non il titolare di un diritto alla tutela giuridica.
In questo senso, la comune espressione “diritti degli animali” va intesa in senso atecnico, agiuridico, con essa intendendosi riferire, non già alla (inconfigurabile) titolarità di diritti soggettivi da parte degli animali, ma al complesso della tutela giuridica che il diritto pubblico appresta in difesa di quegli esseri viventi.

2.3. – Si è detto che l’art. 810 c.c., definisce i beni come “le cose che possono formare oggetto di diritti”; e il diritto civile indubbiamente, sulla scia della tradizione romanistica, considera gli animali come mere “cose mobili”, beni giuridici che possono costituire “oggetto” di diritti reali (cfr. artt. 812,816,820,923,924,925,926,994,1160,1161 e 2052 c.c.) ovvero di rapporti negoziali (cfr. artt. 1496,1641,1642,1643,1644 e 1645 c.c.).
Gli animali, perciò, possono costituire oggetto di compravendita (art. 1470 c.c.); e lo stesso codice civile disciplina specificamente la compravendita di animali nell’apposita fattispecie di cui all’art. 1496 c.c. (denominata appunto “Vendita di animali”).
La diffusione degli animali da compagnia in fasce sempre più larghe di popolazione ha dato luogo, in tempi recenti, ad un fenomeno commerciale di non poco rilievo; e si sono prospettate, con riferimento al commercio di animali d’affezione (su cui specificamente l’art. 8 della richiamata Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia), problematiche di tutela giuridica un tempo ignote.

2.4. – Premesso quanto sopra, tornando all’esame di quanto rileva ai fini della decisione del ricorso, si tratta di stabilire se l’animale, e in particolare l’animale d’affezione, oltre a costituire bene giuridico possibile oggetto del contratto di compravendita, possa essere qualificato anche come “bene di consumo” ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 128.
Il giudice di appello ha ritenuto che la normativa prevista dal codice del consumo non possa essere applicata in materia di compravendita di animali, trattandosi di un contratto che trova specifica disciplina nell’art. 1496 c.c., laddove è stabilito che “Nella vendita di animali la garanzia per i vizi è regolata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali. Se neppure questi dispongono, si osservano le norme che precedono”. Secondo il Tribunale, in assenza di leggi speciali e di usi locali, non rimarrebbe che applicare la disciplina prevista dal codice civile in materia di vizi della cosa venduta (art. 1490 c.c. e segg.) e, in particolare, il termine di decadenza (di otto giorni) previsto dall’art. 1495 c.c., per la denunzia del vizio.
La conclusione cui è pervenuto il giudice di merito non è conforme a diritto.
È noto che la disciplina codicistica della compravendita è stata profondamente incisa dalla normativa sopravvenuta introdotta a tutela del consumatore; a partire dal D.Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24, che, recependo le direttive Europee in materia di beni di consumo, ha inserito nuovi articoli nel codice civile (art. 1519 bis c.c. e segg.) finalizzati a garantire al consumatore un maggiore grado di protezione; fino al successivo D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, (c.d. codice del consumo), che ha stralciato le nuove disposizioni dal codice civile per collocarle nell’ambito di una autonoma legge organica posta a tutela del consumatore.
Orbene, non è dubbio che l’interpretazione dell’art. 1496 c.c., (su cui Cass., Sez. 3, n. 604 del 06/03/1971, relativamente alla gerarchia tra le norme applicabili) non può rimanere cristallizzata al tempo della adozione del codice civile, ma deve tener conto dell’evoluzione del sistema normativo nel suo complesso e, in particolare, della sopravvenuta disciplina posta a tutela del consumatore e del suo riflesso sulle norme codicistiche che regolano la compravendita.
Il significato di una determinata norma, infatti, non si riduce a quello che discende dagli enunciati linguistici che compongono la disposizione legislativa, ma dipende anche dal significato delle altre norme del sistema con le quali essa entra in relazione; dipende anche dal significato delle norme sopravvenute con le quali la norma da interpretare interagisce. Perciò, l’attività interpretativa è, di per sè, “sistematica” e, proprio perché sistematica, è anche “adeguatrice”, nel senso che è aperta al mutamento, consentendo così l’evoluzione dell’ordinamento giuridico.
Tenendo presente quanto appena detto, va peraltro considerato che l’art. 135, comma 2, del codice del consumo stabilisce che, in tema di contratto di vendita, le disposizioni del codice civile si applicano “per quanto non previsto dal presente titolo”; e che l’art. 1469 bis c.c., introdotto dall’art. 142 del codice del consumo, stabilisce che le disposizioni del codice civile contenute nel titolo “Dei contratti in generale” “si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore”.
Esiste, dunque, nell’attuale assetto normativo della disciplina della compravendita, una chiara preferenza del legislatore per la normativa del codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica (relativa tanto al contratto in generale che alla compravendita): nel senso che, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del codice del consumo (art. 128 e segg.), potendosi applicare la disciplina del codice civile solo per quanto non previsto dal codice del consumo.
È necessario tuttavia che sussistano i presupposti per l’applicazione del codice del consumo, secondo le categorie da esso predeterminate.
A tal fine, va osservato che l’art. 128 del codice del consumo stabilisce che, ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel capo I del titolo III dello stesso codice dal titolo “Della vendita dei beni di consumo”, per “bene di consumo” si intende “qualsiasi bene mobile” e per “venditore” si intende “qualsiasi persona fisica o giuridica pubblica o privata che, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, utilizza i contratti di cui al comma 1” (contratti di vendita, permuta, somministrazione, appalto etc.).
Ai sensi dell’art. 3 del codice del consumo, per “consumatore” si intende poi “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. E, in proposito, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha spiegato che la qualifica di “consumatore” di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 3, – rilevante ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui all’art. 33, del citato D.Lgs. – spetta alle sole persone fisiche allorchè concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, dovendosi invece considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (Cass., Sez. 6 – 3, n. 5705 del 12/03/2014; Sez. 6 – 1, n. 21763 del 23/09/2013).
Orbene, considerate le ampie nozioni di “consumatore”, di “bene di consumo” e di “venditore” adottate dal codice del consumo, non può dubitarsi che la persona fisica che acquista un animale da compagnia (o d’affezione), per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, vada qualificato a tutti gli effetti “consumatore”; e che vada qualificato “venditore”, ai sensi del codice del consumo, chi nell’esercizio del commercio o di altra attività imprenditoriale venda un animale da compagnia; quest’ultimo, peraltro, quale “cosa mobile” in senso giuridico, costituisce “bene di consumo”.
In altri termini, considerato che la disciplina del codice del consumo è prevalente – laddove è applicabile – su quella del codice civile e considerato che, alla stregua di quanto sopra osservato, la compravendita di animali da compagnia non è, di per sè, esclusa dalla disciplina del codice del consumo, non v’è ragione per negare all’acquirente di un animale da compagnia la maggior tutela riconosciuta da tale ultimo codice quando risultino sussistenti i presupposti per la sua applicabilità.
E la maggior tutela, nel caso oggetto della presente controversia (con riferimento alla quaestio iuris al centro della materia del contendere), si coglie con riferimento al disposto dell’art. 132 del codice del consumo, che, derogando alla disciplina dell’art. 1495 c.c., stabilisce che il consumatore decade dalla garanzia per i vizi della cosa venduta, “se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto”.
A tutela del consumatore – ove un consumatore vi sia – deve applicarsi, dunque, non il breve termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio previsto dall’art. 1495 c.c., ma il più lungo termine di due mesi dalla scoperta previsto dall’art. 132 del codice del consumo.
Avendo la sentenza impugnata escluso l’applicabilità dell’art. 132 del codice del consumo, senza verificare neppure la possibilità di qualificare l’attore quale “consumatore”, essa va cassata con rinvio.
Il giudice di rinvio, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., dovrà conformarsi ai seguenti principi di diritto:
– “La compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del consumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto”;
– “Nella compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 del codice del consumo, al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto”.

3. – Il secondo motivo, col quale si deduce (ex art. 360 c.p.c., n. 3) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1495 c.c., in relazione all’accertamento del momento in cui l’attore ha acquisito conoscenza del vizio redibitorio, rimane assorbito.

4. – In definitiva, va accolto il primo motivo di ricorso; va dichiarato assorbito il secondo; la sentenza impugnata va cassata con rinvio al Tribunale di Ravenna in persona di altro magistrato, il quale si conformerà ai principi di diritto sopra enunciati.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Ravenna in persona di altro magistrato.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 20 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2018.

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