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Sentenze Ordinamento Giudiziario Forense

Cassazione civile, sez. III, 9 novembre 2022, n. 33030

Redazionedi Redazione15 Novembre 2022Aggiornato il:15 Novembre 2022
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione civile, sez. III, 9 novembre 2022, n. 33030

Fatti di causa
1. B.G. convenne in giudizio gli avvocati A.A. e G.S. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, previo accertamento della loro responsabilità professionale.
Deduceva, a sostegno della domanda, che: a) nel gennaio 2004, dovendo proporre una causa di impugnazione del licenziamento disciplinare comminato da ASP - Chioggia s.p.a., aveva incaricato l’avv. A., il quale aveva predisposto il ricorso ex art. 414 c.p.c., omettendo, tuttavia, di eccepire la mancata preventiva contestazione dell’addebito, eccezione che avrebbe comportato la declaratoria di illegittimità del licenziamento per vizio di forma; b) in data 3 gennaio 2007, a seguito di rinuncia al mandato da parte dell’avv. A., aveva affidato l’incarico all’avv. G., il quale non aveva rilevato il difetto di forma del licenziamento e in data 1 aprile 2008 aveva rinunciato al mandato; c) con sentenza del 29 settembre 2009 il ricorso era stato rigettato e anche il successivo appello proposto, con il quale era stata dedotta la violazione del L. n. 300 del 1970 art. 7, era stato respinto per tardività dell’eccezione.
I convenuti costituendosi in giudizio chiesero il rigetto della domanda di parte attrice e l’avv. G. chiese l’autorizzazione alla chiamata in causa della Generali Italia s.p.a., nei cui confronti spiegò domanda di garanzia.
Il Tribunale di Venezia rigettò la domanda, osservando che il B. non si era attivato per far valere, con il ricorso per cassazione, la nullità del licenziamento, trattandosi di questione rientrante tra quelle cd. di protezione e, quindi, rilevabile d’ufficio; rilevò che, in ogni caso, il B. avrebbe potuto proporre una nuova azione facendo valere il difetto di forma del licenziamento.
2. Avverso la sentenza il B. interpose gravame dinanzi alla Corte d’appello di Venezia, che, all’esito della costituzione degli appellati, respinse l’impugnazione. Condividendo quanto affermato dal giudice di primo grado con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità tra l’errore professionale lamentato e la mancata declaratoria di nullità del licenziamento, osservò che, a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 26242/14, che aveva stabilito il principio per cui la rilevabilità d’ufficio delle nullità negoziali si estendeva anche a quelle cd. di protezione, anche la nullità per mancato rispetto delle prescrizioni di cui Al L. n. 300 del 1970 art. 7, era stata considerata come nullità di protezione, come tale rilevabile d’ufficio; di conseguenza, sebbene il B. non avesse ottenuto la declaratoria di nullità del licenziamento in sede di gravame, avrebbe comunque potuto sollecitare l’esercizio del potere d’ufficio di accertamento della nullità dinanzi alla Corte di Cassazione, sicché l’errore imputabile ai due avvocati, sicuramente sussistente, non aveva avuto efficienza causale rispetto al mancato accoglimento della domanda di declaratoria di nullità. Ritenne, quindi, ultroneo l’esame degli altri motivi formulati dall’appellante, perché aventi ad oggetto degli obiter dictum del giudice di primo grado.
3. Contro la suddetta decisione B.G. ha proposto ricorso per cassazione, con un unico articolato motivo.
L’avv. G.S. ha resistito con controricorso.
A.A. e Generali Italia s.p.a. non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
4. La trattazione è stata fissata in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1. cod. proc civ..
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Il ricorrente e il controricorrente hanno depositato memorie ex
art. 380-bis.1. c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Con l’unico motivo di impugnazione B.G. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,437, comma 2, e ART. 414 c.p.c., in combinato disposto con della L. n. 300 del 1970 art. 7, e art. 1176 c.p.c., comma 2, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Prendendo le mosse dalla circostanza pacifica che gli avvocati convenuti in giudizio non avevano formulato una eccezione assorbente che avrebbe condotto all’accoglimento del ricorso, il ricorrente censura la decisione gravata nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto che l’errore ascrivibile ai due avvocati non avrebbe avuto efficienza causale riguardo al rigetto della domanda. Evidenzia, sul punto, che la sentenza impugnata disattende le previsioni di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, che vieta l’ammissione di nuove domande ed eccezioni, l’art. 112 c.p.c., che preclude la pronuncia d’ufficio su eccezioni proponibili solo dalle parti, nonché l’art. 414 c.p.c. che, in materia di lavoro, impone la puntuale precisazione dell’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda, con conseguente decadenza in caso di tardività nella loro indicazione.
Applicando tali disposizioni normative, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, anche il ricorso per cassazione, laddove proposto, sarebbe stato rigettato, il che, ad avviso del ricorrente, impone di ritenere sussistente il nesso di causalità tra la condotta dei due avvocati ed il pregiudizio da lui subito.
2. A sostegno delle censure il ricorrente invoca l’applicazione della giurisprudenza di legittimità in ambito giuslavoristico - precedente ma anche successiva alla pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 26242 del 2014, richiamata nella decisione della Corte d’appello - che nega il diritto della parte di aggiungere ulteriori ragioni di invalidità nel corso del processo ed al giudice di procedere al rilievo officioso di ragioni di nullità del licenziamento diverse da quelle eccepite.
2.1. Sul controverso tema della rilevabilità officiosa delle nullità non dedotte dalla parte nell’ambito del giudizio di licenziamento le posizioni assunte da questa Corte non sono univoche: per un verso, infatti, Cass., sez. L, 28/08/2015, n. 17286 e altre successive conformi (tra le tante, Cass., sez. L, 31/05/2017, n. 13804) sostengono che la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione - sia quello generale di cui all’art. 7 dello statuto dei lavoratori, sia quello specifico previsto per gli autoferrotranvieri dal R.D. n. 148 del 1931 art. 53, all. A - rientra tra quelle cd. di protezione, poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore, sicché è rilevabile d’ufficio.
Per altro verso, Cass., sez. L, 24 marzo 2017, n. 7687 e altre successive conformi, sulla scia di un diverso posizionamento giuridico rispetto all’arresto di Cass., sez. U, 12 dicembre 2014, n. 26242, affermano che “la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte, trovando tale conclusione riscontro nella previsione della L. n. 300 del 1970 art. 18, comma 7, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, e del del D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 4, nella parte in cui fanno riferimento all’applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio, quindi affetto da nullità, “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”“ (in senso conforme, Cass., sez. L, 11/10/2017, n. 23869; Cass., sez. L, 2/10/2018, n. 31987; Cass., sez. L, 5/04/2019, n. 9675; Cass., sez. L, 11/07/2019, n. 18705; Cass., sez. L, 27/04/2021, n. 11106).
2.2. In particolare, secondo l’orientamento da ultimo richiamato, l’impugnativa di licenziamento resta delimitata dalle ragioni di nullità dell’atto quali introdotte nel proporre il giudizio, per cui non è consentito alla parte aggiungere ulteriori ragioni di invalidità nel corso del processo, se non per fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né è consentito al giudice di procedere al rilievo officioso di ragioni di nullità del licenziamento diverse da quella eccepite (Cass., sez. L, 11/07/2019, n. 18705, in motivazione).
Come è stato osservato dalla citata Cass. 7687/2017, l’azione di invalidità finalizzata alla declaratoria di invalidità del licenziamento è costruita, dal diritto vigente, come tale da doversi attuare in un dato termine e dalla “molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo”. Tale conclusione si radica nella scelta, da parte del legislatore, di una ben precisa tecnica processuale c.d. impugnatoria, diffusa in ambito di atti unilaterali (licenziamento; sanzioni amministrative ai sensi della L. n. 689 del 1981; impugnative tributarie; impugnative atti amministrativi) e caratterizzata dal fatto che l’azione giudiziale è da attuare in un dato termine, pena l’irreversibile consolidarsi degli effetti dell’atto rispetto al rapporto sostanziale su cui esso insiste. Tale tecnica, rispetto al caso del licenziamento, si è affinata in una delle sue forme più evolute, in quanto l’atto che manifesta il diritto potestativo di recesso è ormai costantemente destinatario ex ante, di regole procedurali, quanto meno sotto il profilo della motivazione (sempre necessaria, L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012) ma anche, talora, procedimentali (licenziamento disciplinare; licenziamento per g.m.o. nei casi di cui alla L. n. 604 del 1966 art. 7, come modificato dalla L. n. 92 del 2012). Tali regole sono destinate a definire un quadro giuridico di esercizio del potere che delinea il perimetro, dal lato datoriale, dei fatti rilevanti e consente al destinatario la reazione giudiziale nei termini stabiliti dalla legge: tanto è vero che l’azione ancor oggi non è in senso stretto impugnatoria ed è dunque svincolata dai termini decadenziali, allorquando manchi la forma minima e ricorra il licenziamento orale (Cass., sez. L, 11/01/2019, n. 523; Cass., sez. 6 - L, 12/10/2018, n. 25561). In tale contesto, l’impostazione legale non consente, come rilevato sempre da Cass. 7687/2017, di fare riferimento al concetto di diritti c.d. autodeterminati, in quanto, a fronte di azioni impugnatorie, è solo la legge, qualora intenda derogare all’assetto processuale di delimitazione della cognizione sull’atto quale sopra delineato, a stabilirlo espressamente. Il che esclude altresì la possibilità di estendere alla materia i principi affermati da Cass., sez. U, 12/12/2014, n. 26242, rispetto alle impugnative negoziali ed alle c.d. nullità di protezione, “posto che la applicabilità agli atti unilaterali della normativa che regola la materia contrattuale in tanto è possibile ex art. 1324 c.c. in quanto la disciplina, che a tal fine non può essere disgiunta dalla sua interpretazione, sia compatibile con la natura dell’atto che viene in rilievo e non sia derogata da diverse disposizioni di legge” (così, ancora Cass. 7687/2017), come invece è nel caso del licenziamento e sulla base del diverso sistema processuale per esso delineato dal legislatore e sopra sinteticamente descritto.
Anche di recente la Sezione Lavoro di questa Corte (Cass., sez. L, 22/04/2021, n. 11106) ha precisato che il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di un atto giuridico va coordinato con il principio della domanda, fissato negli artt. 99 e 112 c.p.c., ed ha ritenuto precluso l’esame di una questione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato in esecuzione dell’accordo transattivo, perché in alcun modo formulata nel ricorso introduttivo e, quindi, tardivamente introdotta nel corso del giudizio.
Pronunciandosi in tema di contratto di collaborazione autonoma, ha poi ribadito che la nullità per difetto di forma scritta non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità, occorrendo la tempestiva proposizione della questione nel giudizio di merito, a nulla rilevando che essa sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, atteso che il corrispondente potere del giudice incontra, da un lato, il limite della necessità di un accertamento di fatto e, dall’altro, dev’essere coordinato con il principio della domanda, fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c. (Cass., sez. L, 20/12/2021, n. 40896).
3. Tanto premesso, non può il Collegio esimersi dal rilevare, da un canto, che il giudice, ai fini della decisione, non può prescindere dal materiale processuale già esistente ed acquisito al giudizio dal quale emergano fatti che siano idonei ad integrare il profilo a rilievo officioso, considerato che la rilevabilità d’ufficio postula la possibilità che il giudice (o la parte, sollecitando la corrispondente questione) attribuisca rilevanza giuridica, ai fini della sua qualificazione negativa, ad una circostanza che, pur acquisita al processo (attraverso affermazioni pregresse di parte, produzioni o qualunque incombente istruttorio legalmente svolto), non sia stata giuridicamente valorizzata dalle parti (espressamente o comunque in modo inequivoco) entro i termini preclusivi che caratterizzano le attività destinate a individuare i fatti costitutivi o le eccezioni rispetto all’oggetto del contendere; dall’altro, che l’esistenza in atti di tale materiale processuale è necessario e sufficiente a consentire la rilevazione officiosa della nullità dell’atto, pur se diversa da quella dedotta e allegata dalla parte, in ossequio ai principi dettati dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze nn. 26242 e 26243 del 2014, rispetto ai quali il poco sopra orientamento della sezione lavoro si pone in aperto, consapevole e non condivisibile contrasto, con l’ulteriore precisazione, pur compiuta dalle Sezioni unite, che il principio del contraddittorio appare efficacemente tutelato dal disposto dell’art. 101 c.p.c., comma 2, mentre l’art. 112 c.p.c., impropriamente richiamato, fa espresso riferimento al divieto di pronunce d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalla parte (i.e., sulle cd. eccezioni in senso stretto).
Infatti, il potere-dovere officioso di rilevare la portata giuridica di un certo fatto, pur se non valorizzato dalle parti, nel che consiste il proprium della “rilevazione” d’ufficio - anche rispetto alla proposizione di un’eccezione ad opera della parte - non va invece sovrapposto all’introduzione nel processo di una circostanza che già non gli appartenesse e che fosse ad esso estraneo. E ciò in applicazione del consolidato principio per cui il rilievo officioso delle eccezioni può aversi se ed in quanto il contenuto fattuale di esse già emerga dagli atti (v. sulla scia di Cass., sez. U, 10531/2013 cit.; Cass., sez. 2, 22/10/2015, n. 21524; Cass., sez. 2, 30/09/2016, n. 19567; Cass., sez. L, 5/08/2021, n. 22371; Cass., sez. L, 23/11/2021, n. 36353).
4. Venendo al caso di specie, dall’esame della lettera di licenziamento, riprodotta dalle parti in ricorso e in controricorso, emerge chiaramente che la contestazione del fatto è stata contestuale al licenziamento, sicché è evidente che risultava, dai documenti di causa, che non fosse stato rispettato l’iter di cui all’art. 7 della lege n. 300 del 1970. Trattandosi di un fatto già acquisito al processo, ben era possibile - ed anzi doveroso - il rilievo officioso, da parte del giudice di appello, dell’esistenza di una causa di nullità diversa da quella allegata, cosicché del tutto correttamente il giudice di primo grado e successivamente la Corte d’appello hanno ritenuto che, non solo in grado di appello, ma anche con il ricorso per cassazione (essendo qualsivoglia nullità negoziale rilevabile in ogni stato e grado del processo) potesse essere dedotta la nullità per difetto di forma, benché nell’atto di impugnazione del licenziamento predisposto dagli avvocati A. e G. tale eccezione non fosse stata formulata.
Ciò impone di escludere che l’errore professionale ascrivibile ai professionisti abbia spiegato efficienza causale rispetto al mancato accoglimento della domanda di declaratoria di nullità del licenziamento, posto che il ricorrente non ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che aveva rilevato la tardività dell’eccezione di nullità, per difetto di forma, sollevata in quella sede.
Alla stregua delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata
non si pone in contrasto con le disposizioni normative evocate.
5. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, in ragione della peculiarità
delle questioni trattate, devono essere integralmente compensate tra
le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2022.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2022

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