Cassazione civile, sez. lavoro, 17 ottobre 2023, n. 28786
Rilevato che:
Con sentenza del giorno 17.7.2017 n. 561, la Corte d’appello di Torino rigettava l’appello proposto dall’Inps avverso la sentenza del tribunale di Alessandria che aveva accolto l’opposizione della società Ge.Sco. srl, avverso l’avviso di addebito con il quale l’Istituto previdenziale chiedeva a quest’ultima società il pagamento dell’importo di Euro 277.413,41, a titolo di contributi evasi, relativi al periodo da febbraio 2001 a giugno 2008, oltre sanzioni ed interessi. La pretesa dell’Inps, già avanzata con il verbale di accertamento notificato il 10.6.10, era stata prospettata ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, con riferimento al ruolo di committente che quest’ultima società aveva assunto nell’ambito del contratto di appalto concluso con la cooperativa Aqua, che era stata appaltatrice di contratti stipulati con la predetta Ge.Sco. srl per la gestione di alcune strutture assistenziali.
Il tribunale dichiarava l’Istituto previdenziale decaduto dalla facoltà di azionare nei confronti della società opponente i crediti contributivi oggetto di controversia, per il decorso del termine biennale tra la cessazione dell’appalto e la notifica dell’avviso di addebito (non costituendo la precedente notifica del verbale di accertamento in data 10.6.10, atto idoneo ad impedire la decadenza in questione).
La Corte di appello da parte sua e per quanto ancora d’interesse, confermava la sentenza di primo grado (richiamando, per esteso, altro precedente della medesima Corte d’appello).
Avverso la sentenza della Corte di appello, l’Inps ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, illustrati da memoria, mentre la società Ge.sco. srl resiste con controricorso.
Il collegio riserva ordinanza, nel termine di sessanta giorni dall’adozione della decisione in camera di consiglio.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso, l’Inps deduce il vizio di violazione di legge, in particolare, del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, così come modificato, prima dal D.Lgs. n. 251 del 2004, art. 6, commi 1 e 2 e, poi, dalla L. n. 296 del 2006, art. 1 comma 911, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché erroneamente, la Corte d’appello aveva dichiarato decaduto l’Inps, per decorso del termine biennale di cui alla rubrica, dal diritto di iscrivere a ruolo contributi e sanzioni, nei confronti della committente (la società Ge.sco. srl), coobbligata solidale con la società appaltatrice (cooperativa Aqua) nel pagamento dei contributi previdenziali riferiti i lavoratori impegnati nell’appalto ed alle dipendenze della medesima società appaltatrice, valendo detto termine biennale di decadenza, ad avviso dell’Istituto, solo per la legittimazione dei lavoratori a richiedere sia le retribuzioni che i contributi previdenziali nei confronti della società committente, ma non per gli enti previdenziali che possono esercitare il diritto alla riscossione del credito contributivo fino al maturare della prescrizione, secondo la regola generale, non essendo gli enti stessi soggetti ad alcun termine di decadenza.
Con il secondo motivo di ricorso, l’Inps deduce il vizio di violazione di legge, in particolare, del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2 così come modificato, prima dal D.Lgs. n. 251 del 2004, art. 6, commi 1 e 2 e poi, dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 911 degli artt. 2964,2966 e 2967 cc., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte d’appello aveva erroneamente ritenuto che fosse intervenuta decadenza nei confronti dell’Inps, nonostante in data 10.6.10, entro due anni dalla conclusione del rapporto scaturente dal contratto di appalto, l’Istituto avesse provveduto a notificare il verbale ispettivo alla committente e, quindi, avesse compiuto un atto impeditivo della decadenza.
Il motivo primo di ricorso è fondato, con assorbimento del secondo.
Infatti, i precedenti di questa Corte, a cui si intende dare continuità (Cass. n. 18004 del 2019; n. 22110 del 2019; n. 26459 del 2019; v. più recentemente, Cass. n. 28694 del 2020; Cass. n. 470 del 2021; Cass. n. 14700 del 2021; Cass. n. 30602 del 2021; Cass. n. 37985 del 2021; Cass. n. 18562 del 2022), hanno affermato, in analogia all’orientamento formatosi nel vigore della L. n. 1369 del 1960, il principio secondo cui “il termine di due anni previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non è applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione”. Nei citati precedenti si è considerato che l’obbligazione contributiva non si confonde con l’obbligo retributivo, posto che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha da tempo consolidato il principio secondo il quale il rapporto di lavoro e quello previdenziale, per quanto tra loro connessi, rimangono del tutto diversi (v., ex multis, Cass. n. 5353 del 2004; Cass. nn. 15979, 6673 del 2003).
L’obbligazione contributiva, derivante dalla legge e che fa capo all’INPS, è distinta ed autonoma rispetto a quella retributiva (Cass. 8662 del 2019), essa (Cass. n. 13650 del 2019) ha natura indisponibile e va commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (cd. “minimale contributivo”). Dunque, può affermarsi che la finalità di finanziamento della gestione assicurativa previdenziale pone una relazione immanente e necessaria tra la “retribuzione” dovuta secondo i parametri della legge previdenziale e la pretesa impositiva dell’ente preposto alla realizzazione della tutela previdenziale.
Proprio dalla peculiarità dell’oggetto dell’obbligazione contributiva, che coincide con il concetto di “minimale contributivo” strutturato dalla legge in modo imperativo, discende la considerazione di rilevo sistematico che fa ritenere non coerente con tale assetto l’interpretazione che comporterebbe la possibilità, addirittura prevista implicitamente dalla legge come effetto fisiologico, che alla corresponsione di una retribuzione - a seguito dell’azione tempestivamente proposta dal lavoratore - non possa seguire il soddisfacimento anche dell’obbligo contributivo solo perché l’ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell’appalto. Si spezzerebbe, in altri termini e senza alcuna plausibile ragione logica e giuridica apprezzabile, il nesso stretto tra retribuzione dovuta (in ipotesi addirittura effettivamente erogata) e adempimento dell’obbligo contributivo, con ciò procurandosi un vulnus nella protezione assicurativa del lavoratore che, invece, l’art. 29 cit. ha voluto potenziare.
In accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, la sentenza va cassata e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Torino, affinché, alla luce dei principi sopra esposti, riesamini il merito della controversia.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Accoglie il primo motivo di ricorso e assorbe il secondo.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 aprile 2023.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2023