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Lavoro Previdenza Sentenze

Cassazione civile, sez. lavoro, 4 marzo 2011, n. 5237

Redazionedi Redazione4 Marzo 2011
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Svolgimento del processo

C.N., sostenendo di aver subito un demansionamento nel 1995, allorchè, a seguito di un riordino organizzativo, l’A.E.M. spa lo aveva retrocesso da “capo turno” ad “addetto alla sorveglianza”, ricorreva al Pretore di Milano chiedendo l’accertamento del lamentato demansionamento, la condanna della società alla riattribuzione delle precedenti mansioni e la condanna della medesima al risarcimento del danno in misura pari ad una mensilità lorda di retribuzione (L. 2.819.373) per ciascun mese di dequalificazione subita a partire dal 15/5/1995. Il Pretore, con sentenza 24 luglio 1999, n. 1834, rigettava la domanda. A seguito di impugnazione proposta dal C., la Corte d’Appello di Milano, con sentenza 11 maggio 2001, n. 298, condannava l’Azienda a riassegnare al C. le mansioni di Capoturno o altre equivalenti, e al risarcimento del danno, in misura pari al 10% della retribuzione globale di fatto mensile a partire dal 15.5.95. Adita dalla AEM, questa Corte, con sentenza 29 ottobre 2004, n. 20889, respinti i motivi di ricorso avverso l’accertamento del demansionamento, accoglieva quello relativo alla condanna risarcitoria, cassava in parte qua la sentenza della Corte d’Appello di Milano, e rimetteva il giudizio alla Corte di Genova. Con ricorso depositato il 13/672005 il C. riassumeva per conseguire il risarcimento dei danni derivante dall’acclarato demansionamento.
Deduceva che l’accertato demansionamento aveva procurato quattro tipi di danno:
1) danno alla vita di relazione;
2) compromissione della capacità di concorrere nei rapporti sociali ed economici;
3) danno da perdita di professionalità;
4) danno patrimoniale diretto per il dimezzarsi della possibilità di accedere ai turni di reperibilità.
Sosteneva che tutti i predetti pregiudizi erano dimostrabili in via presuntiva e liquidabili in via equitativa, in misura pari all’ammontare di una mensilità di retribuzione lorda per ogni mese di dequalificazione.
Costituitasi, la AEM eccepiva l’irritualità della riproposizione di domande risarcitorie già respinte nelle precedenti fasi del giudizio ed esorbitanti dal limite di cognizione del giudizio di rinvio, quale delineato dalla Corte di legittimità. In particolare deduceva che dinanzi alla Corte d’Appello non era stata riproposta l’originaria domanda di risarcimento del danno patrimoniale con riferimento alla presunta indennità di turno: del resto la predetta Corte aveva liquidato in via equitativa la somma dei 10% della retribuzione a titolo di risarcimento del solo danno all’immagine, per cui ogni diversa domanda proposta in sede di rinvio era inammissibile.
Nel merito, ricordato che la Corte di cassazione aveva cassato la pronuncia milanese per mancanza di argomentazione circa gli elementi di prova della sussistenza ditale danno all’immagine e circa i criteri adottati per la liquidazione, la AEM osservava che, in relazione a tutte le ragioni di danno lamentate dal C., non era sussistente la necessaria prova secondo i criteri dettati dal recente orientamento giurisprudenziale in ordine ai danni da demansionamento.
Con sentenza del 17 maggio – 11 luglio 2006, l’adita Corte d’appello di Genova, rilevato che il C. non aveva fornito la prova del pregiudizio da demansionamento, rigettava la domanda volta a conseguire il risarcimento del danno.
Per la cassazione di tale pronuncia, ricorre C.N. con due motivi.
Resiste la AEM con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria, ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, il C. denuncia violazione e/o falsa degli artt. 115 e 116 c.p.c., e artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., per avere la Corte d’Appello di Genova ritenuto che “nulla era stato dedotto e chiarito”, nel ricorso introduttivo, “in ordine alla natura e alle caratteristiche del presunto danno alla immagine professionale” e che dalla descrizione del demansionamento operata nello stesso ricorso introduttivo non sarebbe dato di “evincere, neppure in via presuntiva, quale possa essere stato il danno all’immagine professionale subita, considerata la estrema modestia della limitata supremazia esercitata in precedenzà” dallo stesso ricorrente (art. 360 c.p.c., n. 3).
Con il secondo motivo si denuncia omessa e/o insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, per non avere, in particolare, la Corte di Genova motivato, ovvero, in ogni caso, per avere insufficientemente motivato in ordine al perché dalla descrizione del demansionamento non era dato evincere, neppure in via presuntiva, quale potesse essere stato il danno alla propria”), immagine professionale ed in ordine al perché la “estrema modestia della limitata supremazia esercitata in precedenza” dovesse porsi quale circostanza di decisivo mancato accoglimento di presunzione di sussistenza del danno lamentato (art. 360 c.p.c., n. 5).
Il ricorso, pur valutato nella sua duplice articolazione, è infondato, avendo, il Giudice a qua, correttamente ed esaurientemente, esposte le ragioni poste a base della decisione, attraverso significativi e condivisibili passaggi argomentativi, senza incorrere in alcuna delle richiamate violazioni di legge.
Ha, innanzitutto, opportunamente chiarito che il proprio ambito di cognizione, quale giudice di rinvio – come delimitato dalle precedenti fasi giudiziali e dalla pronuncia della Corte di legittimità, che aveva parzialmente cassato la sentenza della Corte d’Appello di Milano -, era limitato alla voce di danno riconosciuta da quel Giudice come diminuzione dell’immagine professionale.
Pertanto, ogni altra domanda proposta dal C. era già stata respinta con decisione ormai coperta dal giudicato interno, con conseguente inammissibilità delle richieste risarcitorie a titolo di danno patrimoniale, di danno alla vita di relazione, se non nel limitato ambito lavorativo, quale riflesso del danno all’immagine professionale, della perdita della capacità di concorrere nei rapporti sociali ed economici (risolventesi in una componente di possibile danno patrimoniale o di immagine professionale).
Ha poi richiamato l’orientamento della Corte a Sezioni Unite (n. 6572 del 24/3/2006) secondo cui, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.
Coerentemente con tale principio, la Corte territoriale non solo ha rilevato che non poteva accogliersi la tesi sostenuta dal lavoratore incentrata sul danno in re ipsa, e che nulla era stato dedotto e chiarito, nel ricorso introduttivo, in ordine alla natura e alle caratteristiche del presunto danno all’immagine professionale, ma ha finanche ritenuto di poter trarre (benchè non necessario stante l’incidenza dell’onere della prova sul danneggiato) una presunzione di segno contrario dalla “estrema modestia della limitata supremazia esercitata in precedenza” (prima, cioè, del demansionamento) dal C..
Tale ultima osservazione si pone in linea con il recente indirizzo delle Sezioni Unite (sentenza n. 26972/2008) che, con specifico riferimento al danno non patrimoniale, hanno affermato, tra l’altro, che la gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione al risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.
Pertanto, il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.
11 filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile;
livello ritenuto, evidentemente, non superato dal Giudice di merito, sulla base della sua motivata valutazione delle circostanze di fatto.
Per quanto precede il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 25,00, oltre Euro 2.000,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2011.

Disclaimer: Contenuti a scopo informativo e divulgativo che non sostituiscono il parere legale di un avvocato. Per una consulenza legale personalizzata contatta lo studio dell’avv. Gianluca Lanciano: Clicca e compila il form · WhatsApp 340.1462661 · Chiama 340.1462661 · Scrivi info@miolegale.it
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