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Diritti fondamentali della persona Famiglia Successioni Sentenze

Cassazione civile, sez. unite, 1 giugno 2010, n. 13332

Redazionedi Redazione1 Giugno 2010
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Svolgimento del processo

1 – Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione – su istanza depositata in data 28 luglio 2009 dal Presidente di Ai.Bi. Associazione amici dei bambini, ente autorizzato, ai sensi dell’art. 39-ter della legge 4 maggio 1983, n. 189 e succ. modif., a curare la procedura di adozioneinternazionale ha chiesto,a norma dell’art. 363 cod.proc.civ., l’enunciazione, da parte di questa Corte, nell’interesse della legge, del principio di diritto secondo il quale il decreto di idoneità all’adozione pronunciato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 30 della legge n. 184 del 1983 e succ. modif., non può essere emesso sulla base di una struttura argomentativa che contenga il riferimento alla etnia dei minori adottandi, né può contenere indicazioni relative a tale etnia.
La richiesta muove dall’esame di un decreto di idoneità all’adozione di un minore straniero emesso dal Tribunale per i minorenni di Catania, nella cui motivazione si fa, tra l’altro, riferimento alla dichiarazione degli istanti di non essere disponibili ad accogliere “bambini di pelle scura o diversa da quella tipica europea”, e nel cui dispositivo si tiene conto di tale dichiarazione, là dove si dichiarano i coniugi “idonei all’adozione sino a due minori di nazionalità straniera che presenti le caratteristiche risultanti dalla motivazione”.

2 – Il Procuratore Generale fa presente che il decreto, depositato il 12 giugno 2009, è stato vistato dal pubblico ministero il successivo 15 giugno e notificato il 23 luglio 2009 agli interessati, i quali non hanno proposto reclamo innanzi alla Corte d’appello a norma degli artt. 739 e 740 cod.proc.civ.: donde la ritenuta sussistenza del primo presupposto della richiesta di cui al citato art. 363 cod.proc.civ.

3 – Quanto alle ragioni di diritto poste a fondamento della stessa, rileva il Procuratore Generale che il provvedimento in questione ha recepito la scelta degli adottanti di non accogliere minori di una particolare etnia, attribuendo rilevanza a dati razziali, in contrasto con principi consolidati nel diritto interno ed internazionale.

Motivi della decisione

1.– Viene per la prima volta sottoposta all’esame della Corte – la quale, avuto riguardo alla particolare importanza della questione sollevata, è chiamata, a norma del secondo comma dell’art. 363 cod.proc.civ., a pronunciarsi a Sezioni unite – la richiesta, formulata dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ai sensi del citato art.363, primo comma, del codice di rito, nella formulazione vigente a seguito della novella di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di enunciazione di un principio di diritto nell’interesse della legge.

2 – L’istituto del “ricorso nell’interesse della legge” (codesta è la rubrica del testo originario dell’art. 363 cod.proc.civ.) riecheggia il concetto, risalente alla tradizione romanistica, di ius constitutionis e la dicotomia ios constitutionis-ius litigatoris, inteso, quest’ultimo, come diritto soggettivo di cui la parte che agisce in giudizio chiede il riconoscimento, in contrapposizione al primo, che si colloca in funzione dell’interesse pubblico alla esatta interpretazione della legge da parte del giudice, astraendo da quello individuale delle parti nella vicenda processuale.
Ed infatti, nella disciplina dell’istituto contenuta nel codice di procedura civile del 1865, all’art. 519, sostanzialmente riprodotto nell’art. 363 del codice di rito del 1940, era previsto che, qualora le parti non avessero proposto ricorso nei confronti della sentenza nei termini di legge, questa potesse essere denunziata dal pubblico ministero presso la Corte di Cassazione: in tal caso, a suggello della separazione tra l’interesse pubblico alla esatta interpretazione della legge in funzione di orientamento della giurisprudenza, e l’interesse del privato ad una pronuncia conforme al suo diritto, si escludeva che l’eventuale annullamento della sentenza potesse giovare alle parti.
Nonostante la scarsa utilizzazione dell’istituto, il legislatore del 2006, in attuazione della delega contenuta nella legge 14 maggio 2005, n. 80, ha inteso conservarlo, allo scopo di valorizzare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità, introducendo, peraltro, alcune signincative innovazioni che hanno determinato una parziale modifica della struttura dell’istituto. Anzitutto, nella rubrica dell’art. 363, il “ricorso nell’interesse della legge” si è trasformato in “principio di diritto nell’interesse della legge”, alla cui enunciazione il Procuratore Generale sollecita la Corte non già con un “ricorso”, ma con una “richiesta”. Ed ancora, i casi contemplati dalla norma come quelli nei quali può utilizzarsi tale strumento non sono più esclusivamente quelli di mancata proposizione del ricorso avverso la decisione del primo giudice o di rinunzia allo stesso, essendovi, ora, ricompresi anche quelli di non ricorribilità per cassazione e di non impugnabilità del provvedimento, con conseguente ampliamento dei confini del controllo nomofilattico della Corte. La nuova formulazione dell’art. 363 introduce, poi, la norma contenuta nel terzo comma, che facoltizza la Corte, quando il ricorso sia dichiarato inammissibile, a pronunciare il. principio di diritto ove essa ritenga che la questione sia di interesse generale: facoltà, codesta, ripetutamente utilizzata da questa Corte (cfr., ad es., Sez. un., sentt. n. 27187 del 2007, n. 28653 e n. 30254 del 2008, n. 15031 e n. 20935 del 2009, ord. n. 11657 del 2008). Infine, è venuto meno il riferimento alla cassazione della sentenza, prevista nella originaria formulazione dell’art. 363 cod.proc.civ., e sostituita dalla enunciazione, richiesta alla Corte di Cassazione, del principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi, fermo restando la indifferenza ad essa del provvedimento che vi ha dato luogo. 3. – Le illustrate innovazioni evidenziano una evoluzione legislativa dell’istituto orientata al potenziamento della pura funzione di corretta osservanza della legge ed uniforme applicazione del diritto: una funzione, dunque, che, prescindendo completamente dalla tutela dello ius litigatoris, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio di diritto richiesta alla Corte, finalizzata alla stabilizzazione della giurisprudenza.
Da ciò deriva il peculiare inquadramento dogmatico dell’istituto in esame, che ne esclude la natura giurisdizionale di azione di impugnazione volta all’annullamento della decisione di merito viziata, sulla quale, come espressamente chiarito dall’ultimo comma dell’art. 363 cod.proc.civ. nella vigente formulazione – la pronuncia della Corte non ha effetto, determinandone piuttosto la configurazione di procedimento autonomo, originato da una iniziativa diretta a consentire il controllo nomofilattico, anche con riferimento a provvedimenti di natura non decisoria, non ricorribili per cassazione, assecondando la peculiare vocazione del giudizio di legittimità, e, così, a perseguire il tendenziale obiettivo di assicurare una esatta ed uniforme interpretazione della legge.
In tale prospettiva, la illustrata astrazione dallo ius litigatoris – il quale rappresenta, nelle ipotesi di cui si tratta, solo il prius cronologico e logico della pronunci determina, sul piano procedimentale, a fortiori in presenza delle significative modifiche apportate al testo dell’art. 363 cod.proc.civ. con il dlgs. n. 40 del 2006, anche la esclusione della previsione della notifica del provvedimento del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione alle parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento innanzi alla Corte, non essendo configurabile in capo alle stesse un interesse giuridicamente rilevante ad intervenire in procedimento destinato a concludersi con una pronuncia che, per espresso dettato legislativo, non spiega efficacia rispetto ad esse.
Le esposte argomentazioni, fondate sul dato testuale della norma in esame e sulla sua ratio, resistono al rilievo, pure svolto da parte della dottrina, secondo il quale, con riguardo ai provvedimenti suscettibili di revoca (come quello che ha originato la presente procedura, revocabile, ai sensi del comma 4 dell’art. 30 della legge n. 184 del 1983, per cause sopravvenute che incidano in modo rilevante sul giudizio di idoneità all’adozione di minore straniero), si potrebbe astrattamente configurare un interesse delle parti ad interloquire, attraverso un contributo dialettico alla formazione del principio di diritto, proprio nella prospettiva di una eventuale revoca (peraltro reclamabile: art. 30, comma 5, legge n. 184 del 1983) del provvedimento del giudice di merito, fondata sul principio di diritto enunciato dalla Corte. Un siffatto interesse risulta, infatti, privo dei caratteri di concretezza ed attualità richiesti dall’art. 100 cod.proc.civ. Al riguardo, si richiama l’orientamento espresso da questa Corte già nella vigenza del testo originario dell’art. 363 cod.proc.civ., secondo il quale l’interesse astratto alla esatta interpretazione delle norme di legge legittima solo il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, ma non vale ad integrare il presupposto dell’interesse ad agire del ricorrente, che deve essere concreto, e che tale non è nel caso in cui dalla pronuncia della Corte non deriverebbe alcuna conseguenza in ordine alla controversia dedotta in giudizio (Cass., Sez. Lav., sent. n. 5858 del 2003).
Nei casi di cui si tratta, gli effetti della enunciazione del principio di diritto sul provvedimento di merito non sarebbero diretti, potendo astrattamente consistere in una sollecitazione al giudice competente a riesaminarlo

4. – Venendo all’esame della richiesta del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, deve, anzitutto, confermarsi, con riguardo ad essa, la sussistenza, dallo stesso affermata, dei presupposti di cui all’art. 363, primo comma, cod.proc.civ. (mancata proposizione del ricorso nei termini di legge, ovvero rinuncia allo stesso; non ricorribilità del provvedimento per cassazione e sua non impugnabilità con altri strumenti).
Infatti, il decreto del Tribunale per i minorenni in tema di accertamento della sussistenza dei requisiti di idoneità per l’adozione internazionale, a norma dell’art. 30 della legge n. 184 del 1983, non incide su diritti né su status dei richiedenti, né risolve un conflitto tra contrapposti interessi, essendo un provvedimento interlocutorio e privo di forza potenziale di giudicato che si limita a concludere un procedimento (di volontaria giurisdizione) volto alla tutela dell’unico interesse presso in considerazione dalla legge, vale a dire, quello del minore, ed è soltanto reclamabile alla sezione per i minorenni della Corte d’appello, contro il cui provvedimento non è ammesso ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.(v., tra le altre, Cass., sentt. n. 4470 del 1997, n. 5567 del 1996, n. 13157 del 1995, n. 6763 e n. 7662 del 1990).
Nella specie, il provvedimento del Tribunale per i minorenni di Catania che ha costituito occasione della richiesta ex art. 363 cod.proc.civ. non è stato oggetto di reclamo ai sensi degli artt. 739 e 740 cod.proc.civ.

5. – Nel merito, il Procuratore Generale, premesso che, a differenza di quanto accade con riguardo alla adozione nazionale, la idoneità alla adozione di minori stranieri va verificata in via astratta e teorica, avuto riguardo alla mancanza, al momento dell’accertamento, di un minore specificamente individuato in relazione al quale misurare la capacità degli adottanti di instaurare un valido rapporto educativo ed affettivo, ha osservato che le variegate posizioni che in passato avevano diviso la dottrina sulla natura e sul contenuto della dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale sono da ritenere composte, anche alla luce di alcuni interventi della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, nella interpretazione favorevole ad un intervento del giudice non già limitato ad una mera verifica circa la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge, ma diretto a formulare un apprezzamento complesso, che investa anche la possibilità degli aspiranti adottanti di tenere un certo tipo di comportamento, e che conduca all’adozione del decreto di idoneità solo con riguardo a persone realmente in grado di affrontare le difficoltà connesse all’adozione internazionale. In tale ottica soggiunge il Procuratore Generale – si collocano anche le indicazioni che, a norma del comma 2 dell’art. 30 della legge n. 184 del 1983, il decreto di idoneità deve contenere “per favorire il migliore incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare”.
Ciò posto, non è ammissibile, secondo l’Autorità richiedente, che il decreto di cui si tratta recepisca indicazioni relative alla etnia degli adottandi, in quanto un provvedimento che attribuisca rilevanza ai dati razziali si porrebbe in contrasto con principi consolidati nel diritto interno e nel diritto internazionale: donde la richiesta della enunciazione, da parte della Corte, di un principio di diritto, destinato ad orientare la giurisprudenza futura, che escluda la legittimità di una tale opzione.

6.1. – La richiesta merita accoglimento.
6.2.- L’adozione internazionale è disciplinata nel nostro ordinamento dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 come modificata dalla legge 31 dicembre 1998, n. 476, recante Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a l’Afa il 29 maggio 1993. Modifiche alla 1. 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di minori stranieri” (e succ. modif.). L’art. 3 della legge n. 476 del 1998 ha sostituito l’intero capo I del titolo III della citata legge n. 184 del 1983 (artt. da 29 a 39), introducendo i novellati articoli da 29 a 39-quater (quest’ultimo poi abrogato dall’art. 86 del D.Lgs. n. 151 del 2001), ed ha così modificato radicalmente la disciplina dell’istituto, in particolare, sostituendo al procedimento di delibazione del provvedimento straniero dettato dall’art. 32 della Legge 184 del 1983 una complessa procedura che si snoda in più fasi, analiticamente regolate.
6.3. – L’art. 29, nella formulazione risultante dalle modifiche di cui alla legge n. 476 del 1998, dispone che l’adozione di minori stranieri ha luogo conformemente ai principi e secondo le direttive della Convenzione di L’Aja, ispirata ad alcuni canoni fondamentali, primo tra i quali quello – che si conforma alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, sottoscritta il 20 novembre 1989, e ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176 (v., in particolare, artt. 3 e 21) – attinente alla realizzazione della cooperazione tra Stati affinchè le procedure per l’adozione internazionale siano attuate nell’interesse superiore del minore e nel rispetto dei diritti fondamentali che gli sono riconosciuti nel diritto internazionale (Preambolo e artt.l e 16).
Il principio si colloca in linea di continuità con la progressiva evoluzione verso l’inquadramento della adozione come istituto di protezione del minore in stato di abbandono, inteso a garantire, come affermato nel Preambolo alla Convenzione di L’Aja, uno sviluppo armonioso della sua personalità in una famiglia sostitutiva di quella biologica. L’interesse superiore del minore è poi considerato anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 24, par. 2) – cui il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, ha riconosciuto il valore giuridico dei trattati – come preminente.
Esso è espressamente recepito dalla legge n. 184 del 1983, in particolare nei novellati artt. 32, comma 1, che attribuisce alla Commissione per le adozioni internazionali di cui all’art. 38 della stessa legge la funzione di valutare la rispondenza dell’adozione al superiore interesse del minore, e 35, comma 4, che, con riguardo aí casi in cui l’adozione debba perfezionarsi dopo l’arrivo del fanciullo in Italia, subordina il riconoscimento da parte del tribunale per i minorenni del provvedimento dell’autorità straniera come affidamento preadottivo alla non contrarietà dello stesso ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori, valutati in relazione al superiore interesse di costoro.
Dunque, tale interesse costituisce il criterio guida cui deve uniformarsi ogni percorso decisionale relativo ai minori, sia esso di competenza delle istituzioni pubbliche e private di assistenza sociale o dei giudici, delle autorità amministrative o degli organi legislativi.
Ne consegue, sul piano logico e su quello giuridico, la sovraordinazione di tale interesse rispetto a tutti quelli astrattamente confliggenti con esso, ivi compresi quelli fondati sui desideri degli adottanti, recessivi rispetto al primo. Il bisogno di genitorialità dal quale nasce l’iniziativa del rapporto adottivo deve coniugarsi con l’accettazione della identità, e della diversità, del minore, nell’ottica del perseguimento dei diritti fondamentali di questo.
Ed è a tale finalità che si ispira il riconoscimento, operato dalla normativa che disciplina la materia, della necessità di una attenta valutazione, da parte del Tribunale per i minorenni, della idoneità dei richiedenti ad offrire la famiglia di accoglienza adatta al minore: valutazione che si articola attraverso procedure differenziate nell’adozione nazionale ed in quella internazionale. Mentre, infatti, nella prima il collegamento tra adottanti e adottando è tale da consentire in modo immediato tale apprezzamento, nell’adozione di minori stranieri si prevede una scansione procedimentale per effetto della quale il giudizio di idoneità dei coniugi viene emesso sulla base della dichiarazione di disponibilità degli interessati, e della richiesta degli stessi di accertamento di detta idoneità, ed a seguito di una relazione dei Servizi socio-sanitari contenente i dati raccolti sulla situazione personale e familiare della coppia, e precede il provvedimento di adozione pronunciato nello Stato estero di provenienza del minore, che costituisce, a sua volta, il presupposto perché il tribunale per minorenni, dichiarandone l’efficacia, disponga l’adozione in Italia.

6.4. – Nella articolata procedura descritta, la dichiarazione di idoneità degli aspiranti all’adozione (art. 30 legge n. 184 del 1983, come sostituito dall’art. 3 della legge n. 476 del 1998) costituisce solo una valutazione preliminare e generica, non correlata ad un minore già individuato, il cui interesse dovrà essere in primo luogo valutato dall’autorità straniera che provvede in ordine all’adozione, tenendo conto delle caratteristiche della famiglia di accoglienza, e giudicando se questa sia idonea a soddisfare in concreto le specifiche esigenze del fanciullo. Dette caratteristiche devono, pertanto, essere rese note affinché possano essere tenute presenti ai fini della emissione del provvedimento di adozione o di affidamento preadottivo.
Questa – come chiarito anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 10 del 1998) la ratio della previsione del ricordato comma 2 dell’art. 30, secondo la quale il decreto di idoneità contiene anche indicazioni “per favorire il migliore incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare”: si tratta di quegli elementi utili a completare il quadro delle caratteristiche della coppia che offre accoglienza.
È la stessa Convenzione di L’Ala a prescrivere, per la garanzia del migliore interesse del minore, che siano precisati i requisiti di capacità ed idoneità degli aspiranti genitori, oltre alle caratteristiche dei bambini dei quali si ritiene che essi potrebbero prendersi cura: anche se, nel sistema della legge, sono poi l’autorità straniera e l’ente autorizzato a curare la procedura di adozione a determinare l’incontro tra la coppia ed il minore. La richiamata prescrizione è, all’evidenza, volta alla individuazione del migliore “abbinamento” possibile, nel superiore interesse del minore, tra questo e la coppia di richiedenti.

6.5. – Non trova, invece, spazio, in tale contesto, il recepimento di
limiti alla disponibilità all’adozione da parte degli istanti in ragione delle particolari caratteristiche somatiche, o della provenienza etnica dell’adottando. Ciò in quanto la evidenziata esigenza di rispetto dei diritti fondamentali del minore impedisce che possa legittimarsi con un provvedimento della pubblica autorità una tale selezione. Il relativo divieto trova fondamento in una serie di disposizioni, costituzionali, internazionali ed interne, che formano un sistema compiuto di protezione di tali diritti.
Esso risulta anzitutto dal dettato dell’art. 2 della Costituzione, che contiene La previsione ed il riconoscimento generale ed unitario dei diritti inviolabili dell’uomo, e dell’art. 3, che afferma il valore della pari dignità sociale e della uguaglianza di tutti davanti alla legge: principio testualmente riferito ai soli cittadini, ma che, come riconosciuto dalla Corte costituzionale, trova applicazione anche con riguardo agli stranieri, ove si tratti di assicurare la tutela dei diritti fondamentali ed inviolabili della persona (v., tra le altre, sentt. n. 50 del 1979, n. 177 del 1974, n. 120 del 1967; ordd. n. 464 del 2005, n. 490 del 1988), tra i quali si colloca quello a non essere discriminati in ragione della diversa etnia.
Il predetto divieto si desume altresì dagli artt. 10 e 117 della Costituzione, che fanno riferimento, tra l’altro, agli obblighi assunti dallo Stato italiano con la stipulazione di Convenzioni internazionali. Nell’ambito delle fonti internazionali, il divieto di cui si tratta si trova, infatti, affermato in numerosi atti: a) la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che, all’art. 14, dispone che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione stessa deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare fondata sulla razza o il colore; b) la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 21 dicembre 1965, ratificata dall’Italia con legge 13 ottobre 1975, n. 654, che, all’art. 2, par. 1, contiene la condanna della discriminazione razziale da parte degli Stati contraenti, e l’impegno dei medesimi a non porre in essere atti o pratiche di discriminazione a danno di individui, gruppi di individui ed istituzioni, ed a fare in modo che tutte le pubbliche attività e le pubbliche istituzioni (ivi comprese, dunque, le autorità giurisdizionali ed amministrative deputate alla tutela dei minori) si uniformino a tale obbligo; c) la già citata Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, che, all’art. 2, impegna gli Stati contraenti ad adottare tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione; d) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, che, all’art. 21, vieta ogni forma di discriminazione, fondata, in particolare, per ciò che rileva nella presente sede, sulla razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale; e) il Trattato sull’Unione Europea nella versione consolidata dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il l dicembre 2009, che, all’art. 6, proclama i valori sui quali si fonda l’Unione, e ricomprende i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo fra i principi generali del diritto dell’Unione.
Diverse sono, altresì, le disposizioni di legge nazionali che fanno riferimento al divieto di discriminazione, quali l’art. 43 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; gli artt. 1 e 2 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, di attuazione della Direttiva CE 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, il secondo dei quali contiene la definizione di discriminazione, distinta in diretta, che si verifica allorché, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sarebbe trattata un’altra in analoga situazione, ed indiretta, quando una disposizione, un criterio, una prassi o un comportamento apparentemente neutri possono porre le persone appartenenti ad una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altri; e, con specifico riferimento ai minori, la legge n. 184 del 1983, che, all’art. 1, comma 5, riconosce il diritto del minore, senza distinzione di sesso, di lingua, di etnia, di religione, a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia.
Come è evidente dalla ricognizione normativa che precede, il principio di non discriminazione costituisce uno dei principi fondamentali dell’ordinamento, da cui, a norma degli artt. 1 e 35 della citata legge n. 184 del 1983, la intera procedura relativa alla adozione internazionale non può discostarsi.
Il divieto di qualsiasi torma di discriminazione, e di ogni disparità di trattamento tra minori italiani e stranieri in materia di adozione, ribadito da una serie di pronunce della Corte costituzionale (sentt. n. 199 del 1986, n. 349 del 1998, n. 371 del 2003, n. 347 del 2005), dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v. caso Singh c/o Regno Unito, riguardante il rifiuto di ingresso di un minore di nazionalità indiana nel Regno Unito a causa dell’esclusione dallo Stato indiano dalle “designateci countries”, cioè dagli Stati le cui pronunce di adozione potevano essere riconosciute in Gran Bretagna, concluso con la estinzione del giudizio per il sopravvenuto ingresso del minore; caso Wagner e J.M.W.I. c/o Lussemburgo, in cui la Corte ha riconosciuto la esistenza di una discriminazione a danno di una minore, regolarmente adottata in Perù da una donna single nei cui confronti non era stata riconosciuta la pronuncia estera in sede di exequatur in Lussemburgo).

6.6.- L’atteggiamento discriminatorio che è riconoscibile nel rifiuto da parte della coppia richiedente della accoglienza di un minore di una certa etnia non può, ovviamente, acquisire alcun rilievo ove rimanga racchiuso nella sfera volitiva interna dei richiedenti: l’ordinamento giuridico non dispone di alcuno strumento di reazione ad una non esplicitata riserva in ordine alla disponibilità, e, in tali ipotesi, la suprema istanza interiore potrà, sola, riconoscere la non commendevolezza della scelta. La quale, del resto, viene in concreto effettuata dagli stessi aspiranti – indipendentemente da alcuna manifestazione di rifiuto – nel momento in cui essi, rivolgendosi, come sono tenuti a fare, ad uno degli enti autorizzati dalla Commissione per le adozioni internazionali a curare la procedura di adozione (art. 39-ter della legge n. 184 del 1983), individuano il Paese di provenienza del minore orientandosi verso uno piuttosto che un altro degli Stati nei quali l’ente opera.
Ma, ove la eventuale selezione del minore da accogliere venga manifestata attraverso una espressa opzione innanzi agli organi pubblici, con ciò chiedendosi di elevare a limite alla procedura di adozione la appartenenza del minore ad una determinata etnia, al giudice è inibito di avallare una scelta che si pone in stridente ed insanabile contrasto con i sopra richiamati principi fondamentali nazionali e sovranazionali.

6.7. – Ma vi è di più: una tale condotta dei richiedenti va apprezzata dal giudice del merito nel quadro della valutazione della idoneità all’adozione, evidentemente compromessa da una disponibilità condizionata al possesso da parte del minore da accogliere di determinate caratteristiche genetiche. Al riguardo, non può non sottolinearsi come una opzione siffatta evidenzi carenze nella capacità di accoglienza ed inadeguatezza rispetto alle peculiarità del percorso di integrazione del minore straniero: percorso che, proprio perché si tratta di soggetto proveniente da comunità diverse per lingua, cultura, tradizioni, etnia, presenta particolari difficoltà connesse al radicale mutamento del contesto socio-culturale che gli è proprio. Non senza considerare che la disponibilità all’accoglienza richiede, oltre alla consapevolezza di tali difficoltà, peculiari doti di sensibilitàda parte di chi decide di assumere la relativa responsabilità, avuto anche riguardo al particolare degrado, almeno nelle ipotesi di più frequente verificazione, del contesto di provenienza del minore ed al suo vissuto già profondamente tormentato di abbandono e di disagio.
Ne consegue che il giudice, oltre ad escludere la legittimità delle limitazioni poste dai richiedenti alla disponibilità all’adozione in funzione della etnia del minore, dovrà porsi il problema della compatibilità della relativa indicazione con la configurabilità di una generale idoneità all’adozione.

6.8. – Non sembra ultroneo al riguardo il rilievo concernente la esigenza di un percorso di formazione dei nuclei familiari che intraprendono una procedura di adozione internazionale, nel quale un ruolo fondamentale dovrebbe spettare ai servizi sociali ed agli enti di cui all’art. 39-ter della legge n. 184 – percorso, del resto, previsto dall’art. 29-bis, comma 4, lettera b), della stessa legge – che, guidando la coppia verso una più profonda consapevolezza del carattere solidaristico, e non egoistico, della scelta dell’adozione, possa prevenire opzioni di impronta discriminatoria, fornendo un sostegno psicologico che favorisca il superamento delle difficoltà cui gli aspiranti all’adozione vanno incontro vuoi per la impreparazione alla accoglienza di un bimbo che non sia a propria immagine, vuoi per il timore di fenomeni di xenofobia che espongano a rischio l’integrazione del minore nell’ambiente sociale e creino in lui problemi di disadattamento.
Ché, ove, poi, per ragioni oggettive, l’inserimento del fanciullo nel contesto socio-culturale della famiglia di accoglienza si rivelasse contrario al suo best interest, non si darebbe neanche luogo alla adozione, che detto interesse postula.
7. – Conclusivamente, deve essere affermato, nell’interesse della legge, affinché possa orientare la giurisprudenza, il seguente principio di diritto : “Il decreto di idoneità all’adozione pronunciato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 30 della legge n. 184 del 1983 e succ. modif. non può essere emesso sulla base di riferimenti alla etnia dei minori adottandi, né può contenere indicazioni relative a tale etnia. Ove tali discriminazioni siano espresse dalla coppia di richiedenti, esse vanno apprezzate dal giudice di merito nel quadro della valutazione della idoneità degli stessi alla adozione internazionale”.

P.Q.M.

La Corte enuncia nell’interesse della legge, a norma dell’art. 363, primo comma, cod.proc.civ., il seguente principio di diritto: “Il decreto di idoneità all’adozione pronunciato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 30 della legge n. 184 del 1983 e succ. modif. non può essere emesso sulla base di riferimenti alla etnia dei minori adottandi, né può contenere indicazioni relative a tale etnia. Ove tali discriminazioni siano espresse dalla coppia di richiedenti, esse vanno apprezzate dal giudice di merito nel quadro della valutazione della idoneità degli stessi alla adozione internazionale”.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 27 aprile 2010.

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