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Finanze Fisco Tributi Sentenze

Cassazione civile, sez. V tributaria, 30 luglio 2009, n. 17702

Redazionedi Redazione30 Luglio 2009
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’Ufficio del registro di Castellammare di Stabia, a seguito di presentazione della dichiarazione di successione a C. T., deceduto il (OMISSIS), notificava agli eredi avviso di accertamento con il quale, avendo proceduto a stima diretta comparativa mediante perizia UTE per i cespiti immobiliari, elevava il valore di fabbricati e terreni da L. 254.860.000 a L. 773.627.000, e tenendo presente il volume di affari medio prodotto, elevava il valore di avviamento della farmacia alla via (OMISSIS) da L. 100.000.000 a L. 420.000.000.
D.P.G., una dei tre eredi, impugnava l’avviso di accertamento, lamentandone carenza di motivazione, la mancata applicazione dei valori c.d. automatici, calcolati sulla base delle rendite catastali, e comunque l’infondatezza dei valori accertati.
L’ufficio finanziario deduceva l’inapplicabilità della valutazione automatica ai cespiti non accatastati o le cui consistenze fossero state variate o ampliate; rilevava che i valori rettificati per gli immobili erano stati determinati stilla base di dettagliata stima UTE, e che il valore di avviamento della farmacia era scaturito “tenendo presente il volume di affari medio prodotto nel triennio precedente” con l’applicazione di un coefficiente di redditività pari al 15% e conseguente capitalizzaziane.
Il ricorso era rigettato.
La Commissione tributaria regionale della Campania accoglieva invece l’appello della contribuente, che aveva riproposto i motivi formulati col ricorso introduttivo.
Il giudice di secondo grado, infatti, quanto alla rettifica del valore dei cespiti immobiliari, operata sulla base degli elementi forniti dall’UTE, riteneva che questo, “essendo ontologicamente legato all’ente impositore, costituendo legittima espressione dell’Amministrazione finanziaria ed essendo chiamato in causa per intervenire nel processo di formazione del nuovo imponibile fiscale posto a fondamento dell’atto di accertamento, non può essere considerato organo terzo”, e segnatamente appariva “non attendibile in assoluto quale unico ed imprescindibile riferimento, in quanto le stime possano essere condizionate da un legittimo obiettivo di ampliare le basi imponibili e di generare i presupposti di acquisizione di maggiore imposta, in ovvia contrapposizione al contribuente”. Nella specie, peraltro, la stima UTE sarebbe stata redatta solo a seguito di un parziale accesso, sulla scorta di non meglio note “altre risultanze” dell’ufficio ed in assenza di contraddittorio con le parti interessate. Né la sentenza di primo grado avrebbe dato riguardo a riferimenti del ricorrente, in contrapposizione alle risultanze della sima UTE, circa il pessimo stato di conservazione dei cespiti immobiliari, la loro vetustà, l’ubicazione in zona degradata ed eccentrica, nonché la loro scarsa consistenza, in cubatura e quadratura.
Posto poi che oggetto dell’accertamento erano stati gli immobili non censiti, o per i quali, comunque, gli uffici catastali non avevano concluso il procedimento di classamento e di attribuzione delle rendite catastali, o i cui “dati catastali non risultavano aggiornati con definitivo classamento delle unita immobiliari”, l’ufficio avrebbe dovuto sottrarli all’accertamento, ai sensi del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, comma 4 “operando in via analogica una ricostruzione estimativa che, a partire anche dai dati catastali in quel momento disponibili, riproducesse i valori di mercato vigenti per l’epoca, essendo più che chiara in dichiarazione la volontà degli eredi di avvalersi del criterio di valutazione automatica.”, “senza necessità di un’ulteriore istanza, che rappresenterebbe un aggravio del procedimento amministrativo, in contrasto con il principio di buon andamento e di economicità dell’azione anministrativa”.
In ordine al valore di avviamento della farmacia, venivano accolti i rilievi del contribuente secondo cui il giudice di prime cure non aveva tenuto conto della circostanza che l’attività del de cuius era esercitata in forma di impresa familiare costituita – come si evinceva dallo stesso verbale di constatazione della Guardia di finanza – dal dante causa per il 51%, e dagli eredi, laureati tutti in farmacia e cogestori dell’attività, per il residuo 49%. In considerazione della notevole partecipazione degli eredi all’avviamento dell’azienda, il Collegio, accogliendo parzialmente il motivo di appello, riduceva del 60% il valore di avviamento accertato dall’ufficio.
Nei confronti della decisione il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate propongono ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi.
La contribuente non ha prodotto controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze è inammissibile, poiché tale amministrazione, cui è succeduta l’agenzia delle entrate a far data dal 1 gennaio 2001, non fu parte nel giudizio d’appello, introdotto con atto d’impugnazione depositato il 25 gennaio 2003, proposto dall’ufficio di Castellammare di Stabia (OMISSIS) di detta Agenzia. Nessun provvedimento deve essere adottato riguardo alle spese inerenti a tale ricorso, poiché la resistente non ha svolto valide difese nel presente giudizio.
Con il primo motivo l’Agenzia ricorrente, premesso che per legge l’Ufficio finanziario può avvalersi dell’UTE per la stima di immobili, censura la sentenza impugnata per aver violato il principio, atteso che la stima resa dall’UTE può essere valutata come attendibile o meno, ma non sarebbe, come ritenuto con palese illogicità, “ontologicamente” inattendibile. Per di più, il motivo sull’inattendibilità dell’UTE sarebbe stato nuovo. Qualora poi il giudice tributario non sia convinto della stima, sarebbe tenuto a motivare in proposito, disponendo se nel caso CTU, e nulla lo esimerebbe dal valutare i beni, essendo giudice del rapporto. E ciò, pur avendo la sentenza di primo grado dato conto che la stima UTE aveva “preso nella dovuta considerazione tutti gli elementi… desumendo consistenza, ubicazione e stato d’uso degli immobili”.
Con il secondo motivo, denunciando “violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 52, coma 4, (T.U.I.R.) e D.L. n. 70 del 1988, art. 12”, osserva che per i beni non censiti, oggetto dell’accertamento per cui è causa, ai fini ella valutazione automatica occorre apposita istanza di classamento all’UTE, da trasmettersi all’ufficio impositore, mentre la parte tale adempimento non avrebbe allegato, cerna sarebbe stata tenuta a fare ai sensi del D.L. n. 70 del 1988, art. 12, sicché alla luce di tale norma il capo della sentenza relativo dovrebbe essere riformato, per non essere dimostrata l’applicabilità della valutazione automatica.
Il terzo motivo, col quale si denuncia “Violazione D.Lgs. 546 del 1992, art. 52 – art. 112 c.p.c. – D.P.R. n. 460 del 1996”, è così letteralmente formulato: “da una parte la CTR accoglie motivi nuovi circa la parziale intassabilità dell’avviamento. Dall’altra riconosce, ex D.P.R. 460 del 1996, un valore di 327 milioni che non può essere ridotto a pena di illogicità della motivazione. La CTR doveva applicare il D.P.R. 460 del 1996 vigente all’atto dell’accertamento, e non lo ha fatto”.
Il primo motivo è fondato.
Questa Corte ha affermato che negli accertamenti tributari: “il riferimento alla stima di un immobile operata dall’UTE costituisce elemento sufficiente ad integrare il requisito motivazionale per la validità di un avviso di accertamento. Tuttavia, in caso di impugnazione dell’avviso da parte del contribuente, il giudice è tenuto a verificare, esplicitando poi le ragioni del suo convincimento, se la predetta stima risulti o meno idonea a superare le contestazioni dell’interessato ed a fornire la prova dei più alti valori pretesi dall’Ufficio” (Cass. n. 13213 del 2001). Infatti, “poiché dinanzi al giudice tributario l’amministrazione finanziaria è sullo stesso piano del contribuente, la relazione di stima di un immobile, redatta dall’Ufficio tecnico erariale, prodotta dall’amministrazione finanziaria costituisce una semplice perizia di parte, alla quale, pertanto, può essere attribuito il valore di atto pubblico soltanto per quel che concerne la provenienza, ma non anche per quel che riguarda il contenuto. Nondimeno, nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte di convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della decisione a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente” (Cass. n. 8890 del 2007).
Nella specie, come si legge nella sentenza impugnata, il giudice di primo grado, dinanzi al quale la contribuente aveva lamentato la carenza di motivazione dell’avviso e l’infondatezza dei valori accertati, aveva considerato corretta e convincente la relazione di stima dell’UTE, utilizzata per la determinazione dei valori, in quanto essa “avrebbe preso nella giusta considerazione tutti gli elementi necessari ed opportuni, esaminando e descrivendo dettagliatamente e distintamente la consistenza, ubicazione, stato d’uso, destinazione ed ogni altra caratteristica degli immobili”.
Il giudice d’appello ritiene tale assunto infondato, in quanto al riguardo l’appellante “correttamente afferma che l’UTE in quanto tale, essendo ontologicamente legato all’ufficio impositore”, perché espressione dell’amministrazione finanziaria, perchè, chiamato ad intervenire nel processo di formazione del nuovo imponibile fiscale posto a fondamento dell’atto di accertamento, non può essere considerato organo terzo. Dunque, conclude, “tale organo benvero appare non attendibile in assoluto quale unico ed imprescindibile riferimento, in quanto le stime possono essere condizionate da un legittimo obiettivo di ampliare le basi imponibili e di generare i presupposti di acquisizione di maggiore imposta, in ovvia contrapposizione al contribuente”.
Il giudice d’appello incorre quindi nel vizio denunciato per aver illogicamente considerato l’UTE, articolazione tecnica dell’amministrazione, in quanto ontologicamente legato all’ente impositore, “istituzionalmente” inattendibile, in luogo di farsi carico di verificare, essendovi tenuto, se la stima fosse o meno idonea a superare le contestazioni dell’interessato, riportate invece in forma generica, ed a fornire la prova dei più alti valori pretesi dall’Ufficio; e di esplicitare poi le ragioni del proprio convincimento, limitate invece all’affermazione che la pronuncia “di primo grado non mostra di aver dato riguardo ad una serie di elementi formulati dal ricorrente, in contrapposizione alle risultanze della stima UIE… invece tali rilievi… sano fondati nel merita..”.
Il secondo motivo è del pari fondato.
é infatti erronea l’affermazione del giudice di merito – che ha riformato sul punto la sentenza di primo grado – secondo cui l’ufficio avrebbe dovuto sottrarre all’accertamento gli immobili, non censiti, “operando in via analogica una ricostruzione estimativa a partire anche dai dati catastali in quel momento disponibili”, “essendo più che chiara in dichiarazione la volontà degli eredi di avvalersi del criterio di valutazione automatica”, “senza necessità di un’ulteriore istanza, che rappresenterebbe un aggravio del procedimento amministrativo, in contrasto con il principio di buon andamento e di economicità dell’azione amministrativa”.
Per l’imposta sulle successioni, le disposizioni del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, art. 26, comma 5 che regolano la c.d. valutazione automatica – secondo cui non sono sottoposti a rettifica il valore degli immobili, iscritti in catasto con attribuzione di rendita, dichiarato in misura non inferiore, per i terreni, a settantacinque volte il reddito dominicale risultante in catasto, e, per i fabbricati, a cento volte il reddito risultante in catasto, aggiornati con i coefficienti stabiliti per le imposte sul reddito -, applicabili ratione temporis, essendosi aperta la successione in esame il 19 luglio 1990, e quindi in epoca anteriore al 1 gennaio 1991, data di entrata in vigore del t.u. dell’imposta sulle successioni e donazioni approvato col D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, si applicano, secondo quanto stabilito dal D.L. 14 marzo 1988, n. 70, art. 12 come convertito dalla L. 13 maggio 1988, n. 154, anche ai trasferimenti di fabbricati non ancora iscritti in catasto edilizio urbano con attribuzione di rendita, dichiarati ai sensi dell’art. 56 del regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano, approvato con D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142.
Ciò a condizione, non verificatasi nella specie, come si è visto, che il contribuente che voglia giovarsene dichiari espressamente nella dichiarazione di successione di volersi avvalere dei relativi criteri, alleghi alla demanda di voltura specifica istanza per l’attribuzione di rendita catastale, e produca la ricevuta della presentazione di tale istanza al competente ufficio del registro entro sessanta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione di successione.
Questo comporta, da un lato, che la richiesta del beneficio debba essere esplicita, non essendo perciò idonea alcuna istanza implicita, e, dall’altro, che non sia ammessa una manifestazione di volontà in epoca successiva o in sede contenziosa, cui, in ogni caso, osterebbe la cadenza degli ulteriori adempimenti previsti dalla norma, per l’ultimo dei quali è fissato un termine di sessanta giorni, espressamente definito perentorio, all’art. 34, comma 6, nella successiva disciplina dell’imposta dettata dal citato D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (cfr. Cass. n. 14305 e n. 6078 del 2003, n. 5980 del 2001; nel vigore del t.u. dell’imposta di successione del 1990, cfr. n. 16412 del 2008).
Quanto al terzo motivo, che si è trascritto supra, esso è inammissibile, perché privo del requisito dell’autosufficienza.
Stella narrativa del ricorso per Cassazione sono riportati i seguenti passi aventi relazione al motivo in esame, così formulati: a pag. 3, “nel ricorso alla CTP di Napoli (respinte: sent. 779/12/04) le parti lamentavano che applicando i criteri di cui al D.P.R. n. 460 del 1996 l’avviamento “non può essere superiore a L. 327 milioni” – ricorso, pag. 5; a pag. 4, (in appello) le parti “sull’avviamento deducevano per la prima volta la sua intassabilità (impresa familiare) e in subordine (terzultima pagina) ribadivano, ex art. D.P.R. n. 460 del 1996, il valore di 327 milioni”.
Nondimeno, anche avendo riguardo a tali passi, il ricorso, per la carente esposizione dello svolgimento del processo e del motivo stesso non consente, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, sicché va dichiarato inammissibile (cfr. Cass. n. 15263 del 2007, n. 15808 del 2008).
Il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze va dunque dichiarato inammissibile.
Quanto al ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate, devono essere accolti il primo e il secondo motivo, mentre deve essere dichiarata l’inammissibilità del terzo; la sentenza deve essere cassata con rinvio, in relazione ai motivi accolti, alla Commissione tributaria regionale della Campania, la quale procederà ad un nuovo esame della controversia, uniformandosi ai principi sopra enunciati, oltre a disporre in ordine alle spese anche del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze.
Accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso dell’Agenzia delle entrate, e dichiara inammissibile il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania.

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