Cassazione civile, sez. VI, 17 maggio 2018, n. 12080
CONSIDERATO IN FATTO
1 La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza 13.2.2017 ha respinto il gravame proposto da P.M.G., P.F. e T.O. contro la sentenza del Tribunale Lucca n. 1352/16 che aveva accolto la domanda di risoluzione di un comodato precario e di rilascio di un compendio immobiliare, contro di essi proposta da B.M. e F..
Per giungere a tale soluzione, e per quanto ancora interessa, la Corte d’Appello ha rilevato:
– che fino al 1990 gli immobili furono detenuti, se non da tutti e tre gli appellanti, solo da P.M.G. subentrata ex lege nel precedente rapporto di mezzadria con T.M. e che a far tempo da tale data la detenzione da parte della stessa e degli altri appellanti si era protratta a titolo di comodato tacito o per mera tolleranza dei proprietari;
– che tale ricostruzione trova conferma nelle prove orali assunte nel giudizio di primo grado (svolgimento, nel 2008, di una pratica in materia di consolidamento di usufrutto da parte di un geometra; risposta data dagli appellanti nel 2007-2008 ai gestori di una pizzeria circa la possibilità di depositare legna nel cascinale previo consenso delle proprietarie; dichiarazioni rese nel 2013 dall’aspirante acquirente del fondo in ordine alla disponibilità di P.F. al rilascio del fondo in caso di vendita da parte delle B.);
– che gli elementi indicati inducono a ritenere non solo non maturato il termine di usucapione, ma neppure mai intervenuta l’interversione del possesso.
2 Contro tale sentenza i P. e la T. ricorrono per
cassazione sulla base di quattro motivi.
Resistono con controricorso le B..
Il relatore ha proposto il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.
RITENUTO IN DIRITTO
1 Con il primo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione ed errata applicazione dell’art. 1141 c.c. per avere la Corte d’Appello violato la regola della presunzione del possesso da parte di colui che esercita un potere di fatto sulla cosa.
2 Con il secondo motivo si deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione ed errata applicazione degli artt. 2697 e 1141 c.c. rimproverandosi alla Corte di Appello di avere presunto la detenzione inquadrabile nel comodato tacito o nella tolleranza in patente violazione dell’onere della prova perché il possesso si presume a favore di chi eserciti il potere di fatto, spettando invece a chi contesti detta qualità di provare l’inizio dell’esercizio di tale potere come semplice detenzione. Rilevano quindi che la stessa Corte d’Appello, almeno con riferimento alla posizione di P.F. e T.O. aveva escluso ogni collegamento con pregresse situazioni tali da poter giustificare l’inizio del potere di fatto sui beni di causa come detenzione.
Queste due censure, da esaminarsi congiuntamente (perché collegate alla sussistenza o meno di un possesso utile all’usucapione) sono manifestamente infondate anche se si rende necessaria la correzione della motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., essendo comunque il dispositivo conforme al diritto.
Come ripetutamente affermato da questa Corte, il comodatario, quale detentore della cosa comodata, non può acquistare il possesso “ad usucapionem” senza prima avere mutato, mediante una “interversio possessionis”, la sua detenzione in possesso, per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore (v. Sez. 3, Sentenza n. 24222 del 17/11/2009 Rv. 610407; Sez. 2, Sentenza n. 5854 del 16/03/2006 Rv. 586509).
È stato precisato che la presunzione di possesso utile “ad usucapionem”, di cui all’art. 1141 cod. civ., non opera quando la relazione con il bene derivi non da un atto materiale di apprensione della “res”, ma da un atto o da un fatto del proprietario a beneficio del detentore, nella specie un contratto di comodato, poiché in tal caso l’attività del soggetto che dispone della cosa non corrisponde all’esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario. Ne consegue che la detenzione di un bene immobile a titolo di comodato precario può mutare in possesso solamente all’esito di un atto d’interversione idoneo a provare con il compimento di idonee attività materiali il possesso utile “ad usucapionem” in opposizione al proprietario concedente (Sez. 2, Sentenza n. 21690 del 14/10/2014 Rv. 632753; Sez. 2, Sentenza n. 5551 del 15/03/2005 Rv. 581134).
Ebbene, nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato, con apprezzamento in fatto qui non sindacabile, che P.M.G. era subentrata ex lege al pregresso rapporto di mezzadria intercorso tra le proprietarie e T.M. e tale situazione si era protratta fino al 1990, sicché il suo rapporto con i beni era di mera detenzione (v. pag. 4).
Quanto alla posizione degli altri due convenuti-appellanti, P.F. e T.O., rispettivamente fratello e figlia di P.M.G. e – fatto assolutamente rilevante con essa conviventi (come precisano le controricorrenti a pag. 11 in assenza di specifiche contestazioni in sede di memoria), trova applicazione l’altro principio, pure ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il comodato costituisce detenzione, non quindi possesso “ad usucapionem”, in favore tanto del comodatario, quanto dei familiari con lo stesso conviventi, con la conseguenza che il comodatario che si opponga alla richiesta di risoluzione del comodato sostenendo di avere usucapito il bene, deve provare l’intervenuta interversione del possesso e non solo il mero potere di fatto sull’immobile (v. Sez. 3, Sentenza n. 11374 del 11/05/2010 Rv. 613210; Sez. 2, Sentenza n. 7923 del 26/06/1992 Rv. 477919; v. altresì, più di recente, Sez. 6 – 2, Sentenza n. 13742 del 2014; Sez. 2, Sentenza n. 16126 del 2012 entrambe non massimate ma proprio in tema di comodato di una casa e di un podere).
Di conseguenza, la successione da parte di P.M.G. nel rapporto di mezzadria (detenzione, quindi, e non possesso) poi trasformatosi in comodato tacito, riguardava, per il rapporto di convivenza, che li legava alla prima, anche gli altri due appellanti. In tal senso va corretta la motivazione della sentenza, rimediandosi così alla imprecisione segnalata col secondo motivo in relazione alla posizione di P.F. e T.O..
3 Con il terzo motivo si deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione dell’art. 112 c.p.c. rimproverandosi alla Corte di Appello di avere omesso di esaminare il motivo di appello con cui si contestava formalmente la sussistenza di un comodato oggetto della domanda di risoluzione.
Il motivo è inammissibile.
Come affermato dalle sezioni unite, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 4 con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013 Rv. 627268).
Alla luce del citato principio di diritto – che oggi va senz’altro ribadito dal Collegio – era necessario censurare la sentenza quanto meno sotto il profilo della nullità derivante dalla omissione di pronuncia, anche senza una espressa menzione della fattispecie di cui all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 4 con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., ma a tanto i ricorrenti non hanno provveduto, avendo richiamato nel motivo solo il vizio di violazione di legge.
1.4 Con il quarto motivo i ricorrenti deducono infine ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione ed errata applicazione degli artt. 1165 e 2944 rimproverando alla Corte di Appello di avere erroneamente ravvisato un riconoscimento del diritto idoneo ad interrompere il termine utile per il verificarsi dell’usucapione, non essendo sufficiente un mero atto che evidenzi la consapevolezza da parte del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio.
Il motivo è manifestamente infondato perché si fonda su una questione (riconoscimento del diritto idoneo ad interrompere il termine utile per il verificarsi dell’usucapione) che la Corte d’Appello non ha assolutamente affrontato. L’affermazione contenuta nel primo rigo a pag. 5 (“Tutti questi elementi inducono a ritenere non solo non maturato il termine di usucapione….”), assolutamente superflua nel contesto della fondamentale ratio decidendi, è stata infatti utilizzata dai ricorrenti per ricavare l’erronea affermazione di un principio di diritto su un argomento che non rientrava nel percorso argomentativo fondato invece – come si è visto – sull’esistenza di una mera detenzione e sulla assenza di atti di interversione del possesso. Del resto, come si legge proprio nella sentenza, il contenuto delle prove orali è stato richiamato per confermare “quanto sopra sostenuto” e cioè la sussistenza nel caso di specie di una detenzione non accompagnata dall’interversione del possesso.
Il ricorso va pertanto respinto con addebito di spese ai soccombenti.
Considerato che trattasi di ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1 – quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.300,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2018