Cassazione civile, sez. VI, 18 agosto 2016, n. 17192
FATTO E DIRITTO
È stata depositata in cancelleria la seguente relazione, in applicazione dell’art. 380-bis c.p.c.:
“1. – Con la sentenza di cui in epigrafe, la Corte d’Appello di Milano ha accolto il reclamo proposto da V.S.F.C. avverso l’ordinanza del 29 ottobre 2012, con cui il Tribunale di Milano aveva rigettato la domanda di annullamento del provvedimento emesso dall’Ambasciata d’Italia in Bogotà il 22 marzo 2011, avente ad oggetto il diniego del visto per ricongiungimento familiare richiesto da S.F.Y., madre del reclamante, a seguito del nullaosta rilasciato a quest’ultimo dalla Prefettura di Milano il 22 ottobre 2010.
2. – Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, per due motivi. L’intimato non ha svolto attività
3. A sostegno dell’impugnazione, il Ministero ha dedotto:
a) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 156 e 702-quater c.p.c., in combinato disposto con il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 30 e del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 20 censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l’appello, nonostante lo stesso sia stato proposto con ricorso anziché con atto di citazione, e notificato oltre il trentesimo giorno dalla comunicazione dell’ordinanza appellata;
b) in subordine, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 4, comma 2, e art. 29, comma 1, lett. c) e d), censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della prova della mancanza di redditi propri da parte della S. e del mantenimento della stessa da parte del reclamante, ha ritenuto sufficiente la produzione di ricevute relative a versamenti di denaro effettuati in epoca successiva al diniego del visto, con conseguente ingerenza nella sfera discrezionale dell’Amministrazione.
4. – Il primo motivo è fondato.
Pur rilevando che l’appello, proposto con ricorso anziché con atto di citazione, era stato notificato all’Amministrazione l’11 febbraio 2013, e quindi oltre il trentesimo giorno dalla comunicazione della decisione di primo grado, effettuata il 29 ottobre 2012, la sentenza impugnata ha ritenuto infatti ammissibile l’impugnazione, dando atto del tempestivo deposito del ricorso, avvenuto il 28 novembre 2012, ed aggiungendo che a seguito del mutamento del rito, disposto ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4 l’appellante aveva nuovamente provveduto alla notificazione dell’atto al Ministero, il quale aveva potuto quindi fruire di un congruo termine per lo svolgimento delle proprie difese.
La rituale instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’appellato non avrebbe tuttavia potuto essere considerata sufficiente ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione, per la quale risultava altresì necessaria l’osservanza del termine previsto dall’art. 702-quater c.p.c., da valutarsi in riferimento non già alla data di deposito, ma a quella di notificazione del ricorso. In mancanza di una disposizione di legge che richiami espressamente la disciplina dettata per il procedimento di primo grado, l’appello avverso l’ordinanza emessa ai sensi dello art. 702-ter c.p.c., comma 5 non può essere infatti trattato con il rito sommario di cognizione, dovendosi invece osservare la disciplina ordinaria prevista dagli artt. 339 c.p.c. e ss., con la conseguenza che l’impugnazione dev’essere proposta con atto di citazione. Qualora pertanto, come nella specie, l’appello sia stato erroneamente proposto con ricorso, trova applicazione il principio secondo cui, instaurandosi il rapporto processuale con la vocatio in jus della controparte, e quindi con la conoscenza dell’atto introduttivo da parte del destinatario, la tempestività dell’impugnazione dev’essere riscontrata avendo riguardo non già alla data di deposito del ricorso, ma a quella in cui lo stesso risulta notificato alla controparte unitamente al decreto di fissazione dell’udienza. Tale principio, costantemente affermato da questa Corte per tutte le ipotesi in cui la forma prescelta per l’atto d’impugnazione non corrisponda a quella prescritta dalla legge, è stato ribadito anche in riferimento all’impugnazione dell’ordinanza emessa all’esito del procedimento sommario di cognizione (cfr. Cass., Sez. Un., 10 febbraio 2014, n. 2907), ed ha ricevuto ulteriore conferma in materia di immigrazione, con specifico riguardo ai giudizi aventi ad oggetto il diniego del permesso di soggiorno per motivi familiari (cfr. Cass., Sez. 6, 26 giugno 2014, n. 14502) ed il riconoscimento della protezione internazionale (cfr. Cass., Sez. 6, 15 dicembre 2014, n. 26326; 10 luglio 2014, n. 15784), per i quali il D.Lgs. n. 150 del 2011 dichiara applicabile il predetto rito. Esso, pertanto, avrebbe dovuto trovare applicazione anche nel giudizio in esame, che, in quanto avente ad oggetto l’impugnazione di un provvedimento di diniego del visto per ricongiungimento familiare, risulta anch’esso assoggettato in primo grado alla disciplina processuale dettata dagli artt. 702-bis c.p.c. e ss., ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 20. Nessun rilievo può assumere, a tal fine, la conversione del rito disposta dalla Corte distrettuale ai sensi dell’art. 4 del medesimo decreto, non potendo trovare applicazione, nella specie, la regola stabilita dal comma 5 di tale articolo, che fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda prodottisi in base alle norme del rito seguito prima del mutamento: come si evince dal secondo comma, che impone l’adozione di tale provvedimento non oltre la prima udienza di comparizione delle parti, la norma in esame si riferisce al solo caso in cui il giudizio sia stato erroneamente instaurato in primo grado secondo un rito difforme da quello previsto dalla legge, e non può quindi essere estesa all’ipotesi in cui l’errore sia caduto sulle modalità di proposizione dell’appello. essendosi correttamente svolta la prima fuse nelle forme prescritte.
5. – L’accoglimento della predetta censura, imponendo la cassazione della sentenza impugnata, con la conseguente dichiarazione d’inammissibilità dell’appello, comporta l’assorbimento del secondo motivo d’impugnazione.”.
Il collegio, esaminato il ricorso, la relazione e gli scritti difensivi in atti, ha condiviso gli argomenti svolti nella relazione e la soluzione da essa proposta.
Il ricorso va pertanto accolto, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello.
Le spese del giudizio d’appello e di quello di legittimità seguono la soccombenza, e si liquidano d’ufficio come dal dispositivo.
Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile l’appello; condanna V.S.F.C. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano per il giudizio d’appello in Euro 1.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito, e per il giudizio di legittimità in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 13 giugno 2016.
Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2016