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Cassazione penale, sez. I, 28 aprile 2015, n. 20896

Avv. Gianluca Lancianodi Avv. Gianluca Lanciano18 Maggio 2018Aggiornato il:18 Maggio 2018
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione penale, sez. I, 28 aprile 2015, n. 20896

Fatto

1. Con sentenza emessa il 19/04/2010 il Tribunale di Avellino condannava A.E.A.R. e A.G., in concorso tra loro, per il reato di cui alla L. 2 ottobre 1967, n. 895, artt. 2 e 7 che si assumeva i commesso a (omissis).
I fatti in contestazione traevano origine dall’accertamento eseguito presso l’abitazione degli imputati, nel cui salotto, all’interno di una rastrelliera, veniva rinvenuto un fucile Remington calibro 12, recante matricola (omissis), registrato a nome di P.O..
Nel processo che ne scaturiva gli imputati, riconosciute loro le circostanze – attenuanti generiche, venivano condannati alla pena di mesi cinque e giorni dieci di reclusione e 200,00 Euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
2. Avverso tale sentenza gli imputati proponevano appello davanti alla Corte di appello di Napoli, censurando il provvedimento impugnato sotto i seguenti profili processuali: carenza dell’elemento psicologico del reato, conseguente al fatto che gli appellanti avevano ereditato l’immobile dal genitore e non avevano consapevolezza della detenzione illecita del fucile; incongruità dosimetrica del trattamento sanzionatorio, che non teneva conto del modesto disvalore delle condotte contestate.
Queste ragioni imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.
3. Con sentenza emessa il 23/04/2014 la Corte di appello di Napoli confermava la sentenza impugnata, ritenendo congrua la qualificazione giuridica dei fatti delittuosi contestati agli imputati sotto il duplice profilo oggettivo e soggettivo; si riteneva, inoltre, la pena inflitta adeguata al disvalore del fatto, tenuto anche conto della concessione delle generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena, che conseguivano a un giudizio prognostico favorevole agli imputati.
4. Avverso tale sentenza A.E.A.R. e A.G. ricorrevano per cassazione, a mezzo dell’avv. Luigi Petrillo, deducendo l’omessa motivazione in ordine alla doglianza relativa all’insussistenza di un obbligo di denuncia dell’arma, esplicitata al punto I dell’atto di appello.
Si deduceva, in particolare, che la corte territoriale non aveva fornito alcuna risposta in ordine all’assenza in capo agli imputati dell’obbligo di rinnovare la denuncia del fucile in contestazione già presentata da P.O., congiunto degli imputati e ancora vivente all’epoca dei fatti. Ne conseguiva che i ricorrenti non erano incorsi in alcuna violazione del precetto penale, al contrario di quanto ritenuto nel provvedimento impugnato, risultando esentati da ogni obbligo di denuncia, già adempiuto dal loro congiunto.
Tali ragioni imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.
Diritto

1. Il ricorso è infondato.
Deve, innanzitutto, rilevarsi che l’assunto difensivo secondo cui la corte territoriale aveva omesso di rendere motivazione sul motivo di cui al punto I dell’atto di appello depositato dall’avv. Luigi Petrillo risulta smentito dalle emergenze processuali.
Si esaminava, in particolare, la doglianza difensiva di cui al punto dei motivi di appello, a pagina 3 della sentenza impugnata, laddove, in ordine alla sussistenza in capo ai ricorrenti dell’obbligo di denuncia del fucile Remington in contestazione, si rilevava, con argomenti processuali ineccepibili, che non si poteva “nutrire alcun dubbio sul fatto che i due fratelli, eredi del comune genitore avessero la disponibilità del fucile posto che gli stessi avevano anche la disponibilità dell’immobile, la cui perquisizione il giorno (omissis) portò agli esiti per i quali è processo …”.
Peraltro, su tale profilo processuale, al contrario di quanto dedotto dalla difesa dei ricorrenti, si era soffermato congruamente anche il giudice di primo grado a pagina 4 della sua sentenza, rilevando che l’obbligo di denuncia dei fratelli A., non soltanto conseguiva al fatto di avere ereditato il fucile dal genitore deceduto, ma discendeva ulteriormente dalla circostanza, parimenti incontroversa, che entrambi i ricorrenti risiedevano presso l’abitazione dove l’arma veniva rinvenuta.
In questi termini processuali, non possiamo non rilevare che la decisione impugnata, risultando pienamente confermativa del provvedimento di primo grado, è certamente legittima alla luce della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: “È legittima la motivazione della sentenza di secondo grado che, disattendendo le censure dell’appellante, si uniformi, sia per la ratio decidendi, sia per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo giudice, soprattutto se la consistenza probatoria di essi è così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione. Nell’ipotesi in cui siano dedotte questioni già esaminate e risolte, oppure questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione può motivare per relationem e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati” (cfr. Sez. 5, n. 3751 del 15/02/2000, dep. 23/03/2000, Re Carlo, Rv. 215722).
2. Preso atto dell’inesistenza della carenza motivazionale dedotta dalla difesa dei ricorrenti, occorre passare a considerare l’ulteriore doglianza difensiva, riguardante l’assenza di obblighi di denuncia in capo ai ricorrenti, conseguente al fatto che la detenzione del fucile era stata originariamente denunciata da un loro congiunto, P.O., che era il titolare dell’arma e che, al momento del controllo, era ancora in vita.
Deve, in proposito, rilevarsi l’incongruità del riferimento al R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 38 così come modificato dal D.Lgs. 26 ottobre 2010, n. 204, art. 3, comma 1, nei termini prospettati in sede di ricorso dalla difesa degli imputati, atteso che, nel caso di specie, non si verificava un trasferimento del fucile Remington da P.O. ai ricorrenti, ma l’acquisizione della sua disponibilità da parte dei fratelli A. in conseguenza del decesso del loro genitore, A.C., avvenuto nel (omissis), al quale, a sua volta, il P. aveva consegnato l’arma.
Se così è, nel caso in esame, A.E.A.R. e A.G. risultavano investiti dell’obbligo di denunciare la detenzione dell’arma per averla detenuta all’interno della loro abitazione, a prescindere dalle modalità con cui jure successionis ne avevano acquisito la disponibilità materiale, essendo tale obbligo giuridico connesso al possesso dell’arma e non già alla sua titolarità formale (Sez. 1, n. 7906 del 12/06/2012, dep. 18/02/2013, Omacini, Rv. 255193).
Invero, la norma di cui al R.D. n. 773 del 1931, art. 38 mira ad assicurare la possibilità di controllare tutte le armi esistenti nel territorio italiano da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, attraverso la conoscenza di coloro che le posseggono, anche a prescindere dei luoghi dove le stesse sono detenute. Ne consegue che, ai fini dell’integrazione del reato di detenzione illegale di armi, non hanno rilievo né il titolo, né le modalità attraverso cui si perviene al possesso di un’arma, essendo necessario che il detentore ne faccia comunque denuncia alla competente autorità (cfr. Sez. 1, n. 680 del 30/11/1995, dep. 22/01/1996, Colocucci, Rv. 162575).
Ne discende che, ai presenti fini, non ha alcuna rilevanza la questione delle modalità con cui i ricorrenti avevano acquisito il possesso del fucile, rilevando esclusivamente il fatto che l’arma era detenuta nell’immobile che i fratelli A. avevano ereditato dal padre – all’interno di una rastrelliera collocata nel salotto della stessa abitazione – presso cui entrambi risultavano residenti al momento del fatto; circostanza, quest’ultima, non controversa, così come riferito a pagina 4 della sentenza di primo grado.
Infine, nessuna rilevanza scriminante della condotta delittuosa contestata ai ricorrenti può essere attribuita al fatto che anche sul padre, A.C., quale originario detentore del fucile, gravasse lo stesso obbligo di denuncia, atteso che, come si è detto, tale obbligo consegue alla condizione di attualità della detenzione, rispetto alla quale nessun rilievo può attribuirsi a tale profilo soggettivo.
3. Per queste ragioni, il ricorso proposto da A.E.A. R. e A.G. deve essere rigettato, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2015

Disclaimer: Contenuti a scopo informativo e divulgativo che non sostituiscono il parere legale di un avvocato. Per una consulenza legale personalizzata contatta lo studio dell’avv. Gianluca Lanciano: Clicca e compila il form · WhatsApp 340.1462661 · Chiama 340.1462661 · Scrivi info@miolegale.it
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