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Cassazione penale, sez. I, 20 maggio 2013, n. 21362

Redazionedi Redazione20 Maggio 2013
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con sentenza resa il 7 luglio 2011 la Corte di appello di Napoli confermava quella pronunciata il 24 maggio 2010 dal Tribunale di Avellino e con essa la condanna alla pena di mesi due di arresto ed Euro 3500,00 di ammenda a carico di D.P.M., imputata del reato di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 22, comma 12, contestatogli per avere l’imputata, quale titolare di esercizio commerciale esercente l’attività di preparazione e concia di pelli di cuoio, occupato alle proprie dipendenze S.S., cittadino (omissis) sprovvisto di permesso di soggiorno; fatti accertati in (omissis).
A sostegno delle decisione osservava il giudice territoriale, confutando le relative tesi difensive, che il cittadino (omissis) fu notato mentre era intento ad utilizzare una inchiodatrice, che per la validità di un rapporto di lavoro subordinato non è necessaria una formale assunzione Né un contratto scritto, che il cittadino (omissis) intento al lavoro insieme ad altri era sprovvisto di permesso di soggiorno, che il reato contestato, in quanto contravvenzionale, rendeva inconsistente il rilievo difensivo in ordine alla mancanza di dolo quanto alla conoscenza dello stato di irregolarità dell’assunto.
2. Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione l’imputata, assistita dal difensore di fiducia, sviluppando due motivi di impugnazione.
2.1 Denuncia con il primo di essi la difesa ricorrente, violazione della norma incriminatrice e di quelle in materia di lavoro ed assunzione di cittadini extracomunitari, sul rilievo che non risulta provato, nel processo, che l’imputato abbia assunto il dipendente con contratto di lavoro subordinato; gli accertamenti eseguiti infatti dagli ispettori di lavoro hanno escluso che il cittadino (omissis) trovato alle prese con una inchiodatrice presso la ditta dell’imputata “fosse munito di un regolare contratto” ovvero che fosse stato assunto temporaneamente alla ditta dell’imputato.
2.2 Col secondo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione in relazione alla ricorrenza nella fattispecie dell’elemento psicologico del reato.
Osserva sul punto la difesa ricorrente che il reato è attualmente punito a titolo di dolo e come delitto, mentre al momento della contestazione la condotta era invece punita a titolo di colpa e come contravvenzione. Su tale presupposto parte ricorrente chiede di applicare al caso in esame la disciplina più rigorosa dappoiché comunque più favorevole, in concreto, in ordine alla prova dell’elemento psicologico del reato. In tale ipotesi infatti non risulta provato che l’imputata, al momento dell’accertamento dei fatti, conoscesse la situazione del cittadino (omissis) e che, in particolare, lo stesso fosse sfornito di permesso di soggiorno.
3. Il ricorso è fondato nei limiti che si passa ad esporre.
3.1 Giova prendere le mosse dal testo normativo il quale, come è noto, per quanto di interesse nel presente giudizio, al comma 10 vigente all’epoca dei fatti (ma l’attuale comma 12, novellato dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, nulla ha su tale punto specifico modificato nella descrizione della condotta) dispone: “Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito…. “.
La difesa istante in relazione alla figura di reato come innanzi tipizzata pone la questione giuridica della identificazione di un regolare contratto di lavoro subordinato negandone la ricorrenza nella fattispecie dappoiché non riscontrata una regolare assunzione.
La tesi difensiva non ha pregio.
Il contratto di lavoro prende forma giuridica con l’incontro della volontà del datore di lavoro di assumere alle proprie dipendenze il lavoratore erogando il relativo compenso, con quella di quest’ultimo di prestare la propria opera retribuita e la regolarità dell’assunzione ai fini amministrativi, previdenziali ed assicurativi non ne inficia la regolarità sul piano civilistico.
Ciò premesso, nel caso in esame non può dubitarsi sulle circostanze di fatto che gli accertamenti ispettivi abbiano provato i requisiti oggettivi del reato e cioè che il cittadino (omissis) di cui alla contestazione fu trovato, insieme ad altri operai, intento al lavoro presso l’azienda dell’imputata e ciò dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, il rapporto medesimo.
Al riguardo giova rammentare che la norma incriminatrice punisce, prescindendo pertanto dalla fase specifica e precipua dell’assunzione, “chi occupa alle proprie dipendenze”, condotta questa la quale, come reso palese dal significato letterale delle parole utilizzate, fa riferimento all’occupazione lavorativa, condotta che può realizzarsi con l’assunzione, ma non soltanto con essa. Ai sensi di legge risponde infatti del reato in esame non soltanto chi assume il lavoratore straniero che si trovi nelle condizioni indicate dalla fattispecie incriminatrice, bensì anche chi, pur non avendo provveduto direttamente ad essa (assunzione), se ne avvalga tenendo alle sue dipendenze, eppertanto occupando più o meno stabilmente, il cittadino extracomunitario (Cass., Sez. 1, 18/05/2011, n. 25615).
E tanto ha inteso questa Corte affermare con numerose sue pronunce (Cass., Sez. 1, 22.6.2005 n. 34229 e da Cass., Sez. 1, 8.7.2008 n. 29494) le quali appaiono concordi nell’affermare il principio di diritto che la norma penale in esame punisce sia chi procede all’assunzione della manodopera in situazione di illegalità quanto alle condizioni di permanenza nel nostro Paese, sia chi tale manodopera comunque occupi alle sue dipendenze giovandosi dell’assunzione amministrativamente irregolare, dovendosi attribuire rilievo all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa assai più che al momento della costituzione del rapporto (Cass., Sez. 1, 25/02/2010, n. 11048; id. 3.4.2012 n. 19201).
3.2 Quanto invece all’elemento psicologico del reato, osserva il Collegio che al riguardo la Corte territoriale, preso atto dei fatti di causa pacificamente accertati nei sensi innanzi sintetizzati, ha esplicitamente valorizzato la natura contravvenzionale del reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma, 5, oggetto di contestazione, punito all’epoca dei fatti anche a titolo di colpa, non elisa dalla buona fede del datore di lavoro (cfr. tra le tante Cass., Sez. 1, n. 8661 del 08/02/2005, Pace).
I giudici del merito non hanno pertanto correttamente considerato che il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125 – volendo reprimere più gravemente il reato e sostituendo la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno e dell’ammenda di Euro 5.000 per ogni lavoratore impiegato, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di Euro 5.000, sempre per ogni lavoratore impiegato – ha trasformato la contravvenzione in delitto, di guisa che allo stato, ai sensi dell’art. 42 c.p., comma 2, il fatto è ora punito solamente se commesso con dolo, non essendo nulla di diverso espressamente preveduto dalla norma incriminatrice. L’intervento normativo del 2008, pertanto, ha reso penalmente irrilevante la responsabilità colposa, risolvendosi, per tale ipotesi, in una abolizione parziale della fattispecie previgente (cfr. Cass., sez. 1, 30.11.2010, n. 9882, rv. 249867) Tanto premesso, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, anche le condotte pregresse di impiego di stranieri privi del permesso di soggiorno valevole a fini lavorativi, possono dunque essere tuttora punite solamente se dolose, fermo, a mente medesimo art. 2, comma 4, che ad esse resta applicabile il trattamento sanzionatorio previgente, più favorevole (e quindi la pena dell’arresto e dell’ammenda) (Cass. 9882/2010 cit.). Di qui il principio di diritto che l’errore, ancorchè colposo, del datore di lavoro sul possesso di regolare permesso di soggiorno da parte dello straniero impiegato, cadendo su elemento normativo integrante la fattispecie, comporta l’esclusione della responsabilità penale.
3.3 Nel caso portato alla delibazione di questa Corte di legittimità, considerato l’errore di diritto come innanzi collegato alla valutazione dell’elemento psicologico del reato da parte dei giudici territoriali, il reato deve essere dichiarato estinto per prescrizione, giacché consumata la condotta contestata il 19 aprile 2007 e maturati i relativi termini prescrizionali, ai sensi dell’art. 157 c.p. e art. 160 c.p., u.c., il 18 aprile 2012.
(Torna su ) P.Q.M.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 19 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2013

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