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Cassazione penale, sez. I, 27 ottobre 2009, n. 44660

Redazionedi Redazione27 Ottobre 2009
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Fatto
1. Il 10 luglio 2009, il Tribunale di Ancona, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., con provvedimento adottato de plano, dichiarava inammissibile la richiesta di riesame avanzata dal difensore di O.J. e O.L. avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti dei predetti emessa il 28 maggio 2009 dal giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, in quanto la richiesta stessa era stata proposta mediante dettatura al servizio telefonico di un telegramma, anziché con spedizione del telegramma stesso dagli uffici postali.
L’impugnazione era, pertanto, da ritenere inammissibile in mancanza di qualsiasi elemento atto a consentire la identificazione del proponente 2. Avverso il citato provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo di un unico atto di impugnazione e tramite il medesimo difensore di fiducia, O.J. e O.L. O., i quali, in via principale, chiedono che la questione, di particolare rilevanza, venga rimessa alle Sezioni Unite alla luce del contrasto giurisprudenziale esistente in ordine all’interpretazione dell’art. 583 c.p.p.. Nel merito deducono la violazione e l’erronea interpretazione dell’art. 583 c.p.p. che, come si ricava dalla lettura sistematica dei commi 1 e 3, contiene una chiara distinzione a seconda che l’impugnazione sia proposta dalla parte o dal difensore e impone la sottoscrizione (sottoposta ad autenticazione) solo per le parti private. Nel caso di specie il telegramma era stato dettato dall’utenza telefonica corrispondente allo studio del difensore, come risulta dal testo dell’atto recante l’indicazione del suo studio professionale e del nome e del cognome del legale, coincidente con la sottoscrizione presente in calce all’atto. La dimostrazione che non vi era stata alcuna formale contestazione circa la provenienza dell’istanza di riesame da parte del difensore che ne appariva il sottoscrittore era desumibile, inoltre, dalla circostanza che la cancelleria del Tribunale del riesame aveva trasmesso copia dell’ordinanza impugnata a mezzo fax al difensore medesimo con richiesta di restituzione di copia sottoscritta in segno di ricevuta, effettivamente evasa il 13 luglio 2009.
Ad avviso dei ricorrenti, inoltre, il precedente giurisprudenziale (Cass., Sez. 1^, 21 febbraio 1996 n. 1164), richiamato nel provvedimento impugnato, non è pertinente, in quanto si riferisce ad una diversa fattispecie, in cui l’atto di appello, proposto ex art. 310 c.p.p. era stato trasmesso a mezzo di lettera raccomandata, privo di sottoscrizione autografa del difensore.
L’orientamento di segno contrario alla tesi difensiva (Cass., Sez. 2^, 19 gennaio 2006 n. 3267), oltre ad essere contrastato da un diverso indirizzo esegetico (Cass., Sez. 5^, 7 ottobre 2008, n. 4323), non appare conforme al principio generale del favor impugnationis, recepito anche in altra decisione di legittimità (Cass., Sez. 3^, 17 ottobre 2007, n. 46875), che ha stabilito che l’impugnazione deve ritenersi validamente proposta, qualora sia possibile risalire aliunde al sottoscrittore come autore dell’atto.
Infine, la stessa giurisprudenza civile ritiene che il telegramma dettato a mezzo del telefono sia del tutto equiparabile, quanto a effetti e attribuibilità al ricorrente, al telegramma consegnato direttamente all’ufficio postale (Cass., sez. lav. 17 maggio 2005, n. 10291; Cass. Sez. lav. 5 giugno 2001, n. 7620).
Diritto
Il ricorso non è fondato.
1. L’esatto inquadramento della problematica sottoposta all’esame della Corte presuppone la ricostruzione del quadro di riferimento normativo, costituito dall’art. 581 c.p.p., comma 1, artt. 582 e 583 c.p.p. e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c).
Il sistema processuale delinea chiaramente la distinzione tra i requisiti di forma dell’impugnazione (art. 581 c.p.p.), strumentali all’esercizio del potere-dovere di controllo del giudice superiore sull’atto di impugnazione, e le modalità di spedizione dell’atto di impugnazione (art. 583 c.p.p.).
Ispirata ad una logica di razionalizzazione e semplificazione, la disposizione di cui all’art. 581 c.p.p. ha accolto la regola della concentrazione dell’impugnazione in un unico atto scritto, che comprende i due elementi – distinti e autonomamente disciplinati dal codice di rito abrogato – della dichiarazione e dei motivi, quali elementi di un negozio processuale unitario, composto da una parte dichiarativa e da una parte argomentativa.
Dal combinato disposto dell’art. 581 c.p.p., comma 1, e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), si evince che la legge richiede per l’atto d’impugnazione – da chiunque proposto – la forma scritta, tradizionalmente raccordata alla categoria dei cosiddetti negozi processuali, trattandosi di una dichiarazione di volontà produttiva di rilevanti e immediati effetti processuali, che, in quanto tale, esige, già nel momento in cui viene estrinsecata, la sua riferibilità in modo certo, attraverso un’inequivoca assunzione di responsabilità – che solo la sottoscrizione può attribuire – ad uno dei soggetti legittimati (Cass., sez. 1^, 21 febbraio 1996, Pirrotta). La nozione stessa di forma scritta presuppone quindi, per definizione, la sottoscrizione dell’atto che diversamente, è da qualificare come semplice scritto anonimo, di per sè processualmente inutilizzabile. Può pertanto affermarsi che ogni documento scritto, per assumere rilevanza e produrre effetti giuridici, deve recare in calce la firma del suo autore (Cass. sez. 2^, 29 agosto 2000, n. 4321, rv. 217955).
Ne consegue che una dichiarazione priva dei requisiti prescritti (tra cui rientra, appunto, la sottoscrizione), non potendo tecnicamente essere qualificata impugnazione, non può produrre alcuno degli effetti propri di tale istituto processuale (Cass. 14 giugno 1994, Zuliani; Cass. 3 marzo 1998, Malinconico).
2. In coerenza con queste esigenze di certezza in ordine alla identità del soggetto che ha proposto l’impugnazione e all’autenticità della provenienza di un atto cui l’ordinamento ricollega effetti rilevanti ai fini della corretta instaurazione del rapporto processuale e dell’ammissibilità del procedimento di impugnazione, gli artt. 582 e 583 c.p.p. regolano, rispettivamente, le modalità di presentazione e di spedizione dei mezzi di impugnazione.
Secondo la generale disciplina dettata dagli artt. 582 e 583 c.p.p., e salve le particolari forme contemplate dall’art. 123 c.p.p. per chi si trovi in stato di detenzione, ogni atto di impugnazione deve essere presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato oppure deve essere spedito alla stessa cancelleria. Da un punto di vista tecnico-sistematico, il “presentare” un’impugnazione si distingue dallo “spedire” un’impugnazione, anche se si tratta di attività che si sostanziano entrambe, equivalendosi quanto agli effetti, nel primo momento processuale di introduzione del giudizio; momento fondamentale per identificare la tempestività dell’impugnazione stessa, a nulla rilevando il momento della successiva notificazione.
Dalla mancanza di tale presentazione o spedizione deriva, se sono decorsi i termini di impugnazione previsti dall’art. 585 c.p.p., l’inammissibilità dell’impugnazione ai sensi del successivo art. 591 c.p.p. che, tra le cause di inammissibilità, indica (lett. c) l’inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 582 e 583 c.p.p., nella cui previsione rientra anzitutto l’avvenuta presentazione o spedizione dell’atto di impugnazione e poi il fatto che esse debbano avvenire secondo le modalità e le forme indicate dalla legge (Cass. 20 marzo 1991, ric. Cristalli; Cass. 18 ottobre 1999, ric. Favero).
Le forme e le modalità dell’impugnazione disciplinate dalla legge perseguono un duplice e inscindibile scopo, quello di delineare in modo obiettivo, certo e predeterminato tempi e modi di presentazione o spedizione dell’atto e, inoltre, quello di fornire indicazioni certe sulla provenienza dello stesso.
È, quindi, per questa pluralità di ratio sottostanti alla disciplina che le modalità enunciate dagli artt. 582 e 583 c.p.p. sono da considerare tassative e non ammettono equipollenti (Sez. 5^, 27 marzo 2003, ric. Cito; Sez. 1^, 7 novembre 2001, n. 45711, ric. Maiocchi, rv. 220370; Sez. 4^, 10 febbraio 2000, ric. Liquidato; Sez. 6^, 9 marzo 1998, n. 883, ric. Todaro, rv. 210818).
3. Il rinvio dell’art. 591 c.p.p., lett. c) alle formalità previste dall’ari. 583 c.p.p. è interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso dell’ inderogabilità della spedizione dell’atto di impugnazione a mezzo di raccomandata o telegramma. Si tratta di modalità tipizzate di comunicazione (raccomandata o telegramma) che hanno carattere tassativo, non ammettono equipollenti e la cui forma non può che essere quella descritta dall’art. 581 c.p.p. (Cass. 14 luglio 1993, ric. Melis, rv. 195056; Cass. 24 ottobre 1996, ric. Patacca, cit.; Cass. 16 novembre 199, ric. Carbone, rv. 215020; Sez. 6^, 22 ottobre 2001, n. 42473, roc. Derwishi, rv. 220215).
Una conclusione del genere è avvalorata, con riferimento alla qualificazione dell’impugnazione come atto scritto che presuppone per definizione la relativa sottoscrizione, dall’interpretazione letterale e logico-sistematica del primo e del terzo comma dell’art. 583 c.p.p.. Infatti, la circostanza che il terzo comma della citata disposizione di legge preveda il requisito dell’autenticazione della sottoscrizione dell’impugnazione, ove questa sia proposta da parti private, rafforza, anche sul piano testuale, la conclusione che, in tutti i casi, l’impugnazione debba essere, comunque, sottoscritta, a prescindere da quale sia lo “strumento comunicativo” dell’atto di impugnazione.
Non può, quindi, essere condiviso l’assunto difensivo secondo il quale l’art. 583 c.p.p., comma 3 contiene una chiara distinzione a seconda che l’impugnazione sia proposta dalla parte o dal difensore e impone la sottoscrizione (autenticata) solo per le parti private.
4. Un conferma a tale impostazione esegetica può essere tratta dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte in tema di opposizione a decreto penale di condanna che, nel riaffermare che, trattandosi di un’impugnazione, ad essa sono applicabili le relative norme generali, ha stabilito che, in presenza di un’opposizione proposta a mezzo di telegramma, la sottoscrizione deve essere autenticata ai sensi dell’art. 583 c.p.p., comma 3, con onere dell’opponente di fare riportare per intero nel testo telegrafico la formula dell’autenticazione fatta sull’originale (Cass., sez. 3^, 28 maggio 1999, n. 2029, rv. 214346; Cass, sez. 5^, 8 febbraio 1995, Durastante, rv. 200671). Tali decisioni si pongono in una linea di rigorosa continuità con il quadro normativo delineato dall’abrogato codice di rito. Invero, anche il D.P.R. n. 666 del 1955, art. 5 (recante norme di attuazione del codice del 1930) prevedeva che per la dichiarazione di impugnazione a mezzo raccomandata o telegramma era necessaria l’attestazione dell’autenticità della firma da parte di taluno dei soggetti ivi indicati. Sulla base di tale disposizione la giurisprudenza allora formatasi desumeva che, nel caso di dichiarazione trasmessa a mezzo telegramma, la parte dovesse far riportare sul testo del telegramma la formula dell’autenticazione, con la conseguenza che, in mancanza, la impugnazione doveva ritenersi inammissibile, non rilevando il fatto che potesse logicamente presumersi l’invio del telegramma da parte di chi ne appariva come il firmatario (Cass., sez. 5^, 2 aprile 1992, Agate).
5. In questo articolato contesto normativo e giurisprudenziale, contrariamente all’assunto del ricorrente, deve essere riaffermato il principio che anche per il difensore la sottoscrizione dell’atto con cui, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., si deve proporre l’impugnazione, è un requisito formale indeclinabile dell’atto stesso e che, pertanto, la comunicazione telegrafica attivata con il semplice mezzo telefonico non trasforma in atto scritto, nel senso in precedenza chiarito, la originaria comunicazione orale, con la conseguenza che essa non soddisfa i requisiti di forma prescritti, a pena di inammissibilità, dall’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), per la proposizione e la spedizione dell’atto d’impugnazione.
Deve, perciò, ritenersi inammissibile l’impugnazione (nel caso di specie richiesta di riesame) proposta con telegramma il cui testo sia dettato per telefono, trattandosi di una modalità che non garantisce certezza in ordine all’autenticità della provenienza e all’identità dell’impugnante (Cass., sez. 5^, 27 marzo 2003, in Guida dir. 2003, n. 27, 102; Cass. sez. 2^, 28 aprile 2004, n. 25967, rv. 229709;
Cass. sez. 4^, 2 luglio 2004, in Guida dir, 2005, n. 1, 79; Cass. sez. 6^, 19 gennaio 2006, n. 3267, rv. 233372; Cass. sez. 1^, 16 febbraio 2007, n. 12486, rv. 236365).
Per tutte le ragioni sinora illustrate il Collegio non ritiene di condividere il diverso e minoritario indirizzo interpretativo (Cass., sez. 5^, 7 ottobre 2008, n. 4323, rv. 242941; Cass., sez. 3^, 17 ottobre 2007, n. 46875, rv. 238450) fondato pressochè esclusivamente sull’esame delle fattispecie concrete che, prescindendo dall’analisi del rapporto intercorrente tra l’art. 581 c.p.p., comma 1, artt. 582 e 583 c.p.p., art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), ha affermato che l’impugnazione deve ritenersi validamente proposta “ove sia possibile risalire aliunde al sottoscrittore come autore dell’atto”.
Accedendo a questa impostazione, infatti, in relazione ad ogni impugnazione potrebbe instaurarsi un sub-procedimento volto ad accertare la sicura riferibilità dell’atto ad uno dei soggetti legittimati in evidente dispregio del principio costituzionale di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e delle regole generali fissate dal codice di rito in tema di forma e natura degli atti contenenti una dichiarazione di volontà immediatamente produttiva di effetti processuali, nonché di certezza nella costituzione dei rapporti processuale e nella instaurazione delle procedure previste dalla legge.
Attesa la peculiarità delle fattispecie cui si riferiscono i due precedenti di segno contrario, cui si contrappongono plurime pronunce fondate su principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, non sussistono i presupposti per la rimessione della questione alle Sezioni Unite, così come richiesto dal ricorrente.
6. Sulla base di quanto sin qui esposto appaiono inconferenti, in quanto attinenti ad un diverso ed autonomo settore dell’ordinamento, i richiami ad alcune decisioni di legittimità in materia di diritto del lavoro, e, inoltre, privi di concreto rilievo i richiami ad alcune circostanze di fatto (modalità di trasmissione via fax al legale dell’indagato di copia dell’ordinanza impugnata da parte della competente cancelleria e di restituzione della ricevuta) che, ad avviso della difesa, erano indicative, nel caso in esame, della riferibilità certa dell’atto.
7. Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2009

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