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Cassazione penale, sez. I, 4 dicembre 2013, n. 51059

Redazionedi Redazione9 Settembre 2018Aggiornato il:9 Settembre 2018
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Fatto

Con sentenza in data 7.11.2012 la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del GIP del Tribunale di Milano in data 25.1.2012 appellata da H.H.H. con la quale il predetto era stato condannato, a seguito di giudizio abbreviato, con le attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle contestate aggravanti, alla pena di anni 7 di reclusione per il delitto di tentato omicidio commesso la mattina del (OMISSIS) in danno della figlia E. (all’epoca del fatto ancora minorenne, mancandole circa tre mesi per il raggiungimento della maggiore età), aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi, dall’aver agito contro un discendente e con abuso di autorità e di relazioni domestiche. Il fatto è stato ricostruito nel modo seguente dai giudici di merito.
Dal novembre del 2010 erano divenuti tesi i rapporti della parte lesa con il padre, avendo lo stesso rinvenuto una foto della figlia che la ritraeva in atteggiamenti intimi con il suo ragazzo, O. A., il quale viveva ad Arezzo e veniva a trovare la sua ragazza a Milano. L’imputato, anche poiché la figlia aveva trovato un sostegno nella madre, si era estraniato dalla vita familiare e nel mese di agosto si era allontanato dalla sua abitazione per passare un periodo di vacanza da solo.
La figlia E. aveva continuato a frequentare il suo ragazzo e il (OMISSIS), il giorno prima del fatto, questi era venuta a trovarla a casa mentre lei era da sola. La sera, inaspettatamente l’imputato era tornato a casa; la figlia, che gli aveva aperto la porta avvolta in un asciugamano poiché era appena uscita dalla doccia, aveva fatto nascondere il suo ragazzo nel balcone, ma il padre l’aveva scoperto e si era limitato a metterlo alla porta.
Quella sera aveva avuto una discussione con la figlia e la stessa aveva ammesso di non essere più vergine; poi, quando la moglie era tornata a casa, l’imputato se l’era presa anche con lei perché aveva tollerato la relazione della figlia con il suddetto ragazzo.
La mattina successiva, dopo che verso le 7,15-7,30 la moglie era uscita di casa per recarsi al lavoro, l’imputato era entrato nella camera della figlia, la quale era ancora a letto ma sveglia, e le aveva messo in testa un sacchetto di plastica stringendo i manici all’altezza del collo per soffocarla, dicendo frasi come “sei il disonore… non dovevi fare questo”; la ragazza era riuscita però a lacerare il sacchetto ed a divincolarsi; il padre aveva allora cercato di strangolarla cingendole un braccio intorno alla gola; la figlia, mordendogli il braccio, era riuscita a liberarsi e scappare;
l’imputato l’aveva raggiunta e l’aveva riportata in camera, facendola sedere sul letto; i due avevano discusso e il padre, piangendo, le aveva chiesto perché si era comportata in quel modo, in violazione dei precetti della religione musulmana; la ragazza l’aveva pregato di punirla ma non di ucciderla; il padre le aveva risposto che “le botte” non servivano, che doveva pagare per quello che aveva fatto e che non gli importava di finire in galera. Mentre il padre era andato in bagno, la ragazza era scappata in pigiama e si era rifugiata a casa della zia.
L’imputato era stato arrestato il successivo 12 settembre;
interrogato, aveva negato di aver avuto l’intenzione di uccidere la figlia ed aveva asserito di averla rimproverata solo per il fatto di aver portato in casa il suo ragazzo.
La Corte di merito riteneva del tutto attendibili le dichiarazioni rese dalla parte lesa, confermate peraltro da tutte le emergenze processuali.
Non contrastavano con le suddette dichiarazioni la lieve entità delle lesioni riscontrate dal medico del pronto soccorso. Le modalità del fatto, secondo una valutazione ex ante, erano idonee a realizzare l’intento di uccidere la figlia, intento non raggiunto per la forte reazione della stessa che era riuscita a liberarsi del sacchetto di plastica con il quale il padre la voleva soffocare;
quindi, non era ravvisabile l’ipotesi della desistenza volontaria sostenuta dalla difesa dell’imputato.
Secondo la Corte di merito, non era necessaria, ai fini dell’accertamento dei fatti, la rinnovazione del dibattimento per disporre una perizia medico legale sulla persona della parte offesa;
neppure sono state ritenute condivisibili le affermazioni contenute nella consulenza medica prodotta dalla difesa.
La Corte territoriale ha ritenuto che sussistessero anche tutte le aggravanti contestate: in particolare, la premeditazione, poiché l’imputato non aveva agito subito dopo il litigio con la figlia, ma la mattina dopo, avendo rimuginato tutta la notte su come punire la ragazza e aver atteso che la moglie uscisse di casa; i futili motivi, poiché aveva agito per salvare l’onore della famiglia tradito dalla figlia che aveva instaurato una relazione sentimentale con un giovane di fede religiosa diversa.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi.
Con il primo motivo ha dedotto la mancata assunzione di una prova decisiva, in quanto sarebbe stato indispensabile accertare se le lesioni subite dalla parte lesa fossero idonee a cagionare l’evento morte e la compatibilità delle risultanze medico legali con le denunce della parte lesa.
Con il secondo motivo ha denunciato l’erronea applicazione degli artt. 56, 575 e 576 c.p., in quanto i giudici di merito non avevano considerato che per configurare il tentativo di omicidio non basta solo avere riguardo all’intenzione dell’agente, dovendosi considerare anche e soprattutto gli elementi oggettivi, quali la natura del mezzo usato, la parte del corpo della vittima presa di mira e la gravità delle lesioni inferte.
Nel caso in esame le lesioni riscontrate sulla persona offesa erano state giudicate guaribili in soli due giorni.
Con il terzo motivo ha criticato la motivazione della sentenza nella parte in cui non aveva riconosciuto la desistenza dell’imputato, avendo la stessa parte offesa dichiarato che ad un certo punto il padre aveva cessato volontariamente la propria azione.
Con il quarto motivo ha contestato la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, in quanto il tempo trascorso a pensare come punire la figlia non era indicativo di una risoluzione ferma, e non poteva bastare ad integrare l’aggravante il questione il fatto di aver aspettato per agire che la moglie uscisse di casa.
Con il quinto motivo ha dedotto la violazione di legge per aver la sentenza impugnata ritenuta integrata l’aggravante dei motivi futili.
L’imputato vive da decenni in Italia, ha collaborato con enti cattolici, non è affatto un integralista ed aveva dato alla figlia un’educazione di tipo occidentale, come attestato dalle testimonianze in atti.
Comunque non può essere considerato futile un motivo fondato sull’onore della famiglia e sulla violazione del precetto religioso di non congiungersi carnalmente con persona di fede diversa.
Con il sesto motivo di ricorso ha denunciato l’illogicità della sentenza nel non aver considerato la mancata congruenza sia tra le risultanze mediche e il racconto della parte lesa, sia tra la prima e la seconda versione fornita dalla parte lesa.
Con memoria depositata prima dell’udienza davanti a questa Corte, il difensore dell’imputato ha approfondito i suddetti motivi di ricorso, riportando alcune parti degli atti del processo al fine di dare un sostegno alle censure mosse alla sentenza impugnata e ai motivi di ricorso.
Diritto
Prendendo in esame i contenuti della memoria prodotta dalla difesa dell’imputato, è opportuno innanzi tutto chiarire che nel giudizio di legittimità non sono ammesse censure in fatto, basate su frasi o brani estratti dagli atti processuali.
Il giudizio demandato a questa Corte non ha come oggetto il contenuto degli atti processuali, e quindi non è possibile prendere in considerazione solo le parti degli atti indicate dalla difesa o dall’accusa, dal momento che resta precluso nel giudizio di legittimità un esame complessivo degli atti e delle risultanze probatorie.
Neppure spetta a questa Corte l’interpretazione delle prove ovvero stabilire quale sia l’interpretazione delle stesse più convincente (tra quella data dai giudici di merito e quella proposta dal ricorrente), essendo l’accertamento in sede di legittimità finalizzato, oltre che al controllo della corretta applicazione delle norme processuali e sostanziali, alla verifica della compatibilità dei passaggi logici della motivazione con una plausibile opinabilità di apprezzamento.
È ammessa la denuncia del travisamento della prova, che si ha quando il giudice basa il suo convincimento, relativo ad un punto essenziale della decisione, su un dato completamente diverso da quello che risulta dalla mera lettura della prova (e non dalla sua interpretazione), e in caso di denuncia di travisamento della prova, la stessa deve essere sottoposta a questa Corte nella sua interezza.
Nei motivi di ricorso e nella suddetta memoria, però, non è stata dedotto, nelle forme dovute, alcun travisamento del significato delle prove raccolte, ma solo una diversa interpretazione delle stesse, rispetto a quella data dai giudici di merito.
La diversa lettura delle risultanze da parte del ricorrente, rispetto a quella data dalla Corte di merito, non può – come si è detto – essere presa in considerazione in sede di legittimità, essendo costante giurisprudenza di questa Corte che il sindacato di legittimità, per il disposto dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è circoscritto nei limiti della assoluta “mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato”. Tale controllo di legittimità è diretto ad accertare che a base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze processuali e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici, restando escluse da tale controllo non soltanto le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova e la scelta di quelli determinanti, ma anche le incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate o con altri passaggi argomentativi utilizzati dai giudici. La verifica di legittimità riguarda cioè la sussistenza dei requisiti minimi di esistenza e di logicità della motivazione, essendo inibito dall’art. 606, comma 1, lett. e) cit. il controllo sul contenuto della decisione. Ne consegue che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti addotta dai ricorrenti Né su altre spiegazioni fornite dalla difesa (o dall’accusa), per quanto plausibili e logicamente sostenibili (V. Sez. 6 sentenza n. 1662 del 4.12.1995, Rv. 204123).
La ricostruzione del fatto da parte dei giudici di merito è stata eseguita apprezzando congruamente le risultanze probatorie e nel rispetto dei fondamentali canoni della logica, non ravvisandosi nei diversi passaggi della motivazione della sentenza impugnata alcuna contraddizione o manifesta illogicità, e quindi le critiche in diritto contenute nei motivi di ricorso devono essere rapportate al fatto così come ricostruito dai giudici di merito. Il ricorrente sostiene che nel giudizio di merito non sarebbe stata assunta una prova decisiva, non sottoponendo a perizia la parte lesa, al fine di accertare l’idoneità delle lesioni a cagionare l’evento morte e la compatibilità delle risultanze medico legali con la denuncia della parte lesa. Si deve premettere che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (V. Sez. 4 sentenza n. 4981 del 5.12.2003, Rv. 229665).
Nel caso in esame, al fine di stabilire l’idoneità e la direzionalità degli atti compiuti dall’imputato, non deve aversi riguardo all’entità delle lesioni riportate dalla parte lesa, ma al mezzo usato dall’imputato, mezzo che – sulla base di una massima di comune esperienza – è indicativo del proposito di provocare la morte della parte lesa.
Dalla ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito risulta che l’imputato ha infilato la testa della figlia in un sacchetto di plastica e che ha cercato di impedirle di respirare e di soffocarla stringendo i manici del sacchetto intorno al collo.
Non vi è dubbio che una simile azione è idonea a provocare la morte per asfissia, e a nulla rileva, ai fini della qualificazione giuridica del fatto, che la parte lesa, essendosi opposta con forza all’azione del padre (lacerando subito il sacchetto e mordendo il genitore al braccio con il quale lo stesso voleva continuare l’azione di soffocamento) sia riuscita a interrompere l’aggressione, riportando solo lievissime lesioni.
Peraltro l’intenzione di uccidere era stata apertamente manifestata dall’imputato, avendo risposto alla figlia che lo scongiurava di non ucciderla: “no, le botte non servono a niente, non bastano, devi pagare… devi stare serena per quello che sto per fare, devi pagare..” (pag.2 della sentenza impugnata).
Infondato è anche il motivo con il quale il ricorrente ha sostenuto che l’imputato avrebbe desistito volontariamente dal portare a compimento il suo intento di uccidere sua figlia. Dalla dinamica del fatto, come risulta dalla sentenza impugnata, l’imputato non è riuscito a realizzate il suo proposito (nonostante avesse scelto un mezzo idoneo) per l’energica e pronta reazione della figlia; nei momenti successivi (nei quali la figlia lo stava pregando di punirla ma non di ucciderla) la ragazza era riuscita a fuggire di casa, profittando del breve momento in cui il padre si era recato in bagno.
L’imputato, quindi, non ha portato a compimento il suo proposito non perché avesse rinunciato volontariamente ad uccidere sua figlia, ma perché la stessa era riuscita a fuggire.
Devono, invece, essere accolti i motivi di ricorso riguardanti la premeditazione ed i motivi futili. È del tutto pacifica in giurisprudenza la nozione della circostanza aggravante della premeditazione, che è integrata da due elementi: uno, ideologico o psicologico, consistente nel perdurare, nell’animo del soggetto, di una risoluzione criminosa ferma e irrevocabile; l’altro, cronologico, rappresentato dal trascorrere di un intervallo di tempo apprezzabile fra l’insorgenza e l’attuazione di tale proposito.
Nel caso in esame non è ravvisabile, alla stregua della motivazione della sentenza impugnata, l’elemento ideologico, perché aver per tutta la notte rimuginato su come punire la ragazza non è indicativo di una risoluzione criminosa ferma e irrevocabile presa dall’imputato un certo tempo prima dell’attuazione del proposito.
Del resto, la ragione dell’aggravamento di pena è proprio nel fatto di aver mantenuto fermo il proposito di uccidere per un tempo apprezzabile che, quanto meno, deve estendersi per un tempo tale da consentire un ripensamento.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la circostanza aggravante dei motivi futili sussiste quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (V. Sez. 1 sentenza n.39261 del 13.10.2010, Rv. 248832).
È anche del tutto pacifico in giurisprudenza che la circostanza aggravante in questione ha natura soggettiva, dovendosi individuare la ragione giustificatrice della condotta nel fatto che la futilità del motivo a delinquere è indice univoco di un istinto criminale più spiccato e della più grave pericolosità del soggetto.
Nel caso in esame l’imputato ha agito – secondo la sentenza impugnata – perché si è sentito disonorato dalla figlia, la quale non solo aveva avuto rapporti sessuali senza essere sposata e da minore, ma aveva avuto tali rapporti con un giovane di fede religiosa diversa, violando quindi anche i precetti dell’Islam.
Per quanto i motivi che hanno mosso l’imputato non siano assolutamente condivisibili nella moderna società occidentale, gli stessi non possono essere definiti futili, non potendosi definire né lieve né banale la spinta che ha mosso l’imputato ad agire.
Pertanto sul punto la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio nel quale, conseguentemente alla decisione, dovrà essere riconsiderato anche il trattamento sanzionatorio.
Nel resto il ricorso deve essere respinto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle aggravanti della premeditazione e dei motivi futili e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2013

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