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Sentenze Penale Procedura Penale

Cassazione penale, sez. I, 3 dicembre 2019, n. 9520

Redazionedi Redazione26 Febbraio 2023
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione penale, sez. I, 3 dicembre 2019, n. 9520

Fatto

1.Con sentenza in data 19 giugno 2017, emessa all’esito del giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano condannava P.G., previa esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 1, alla pena dell’ergastolo, in quanto ritenuto responsabile dei delitti, in concorso formale tra loro ai sensi dell’art. 81 c.p., di strage e di devastazione, commessi a (omissis), ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in sede civile, col riconoscimento di una provvisionale, tranne che per Ba.Si. e per I.G., oltre che alla rifusione delle spese processuali in loro favore.

1.1. Proposto appello da parte dell’imputato, la Corte di Assise di appello di Milano con sentenza in data 17 ottobre 2018 riformava parzialmente la sentenza di primo grado e riduceva la pena ad anni trenta di reclusione per effetto della determinazione dell’aumento di pena per il delitto di devastazione in anni cinque di reclusione, confermandola nel resto.
1.2,Da entrambe le sentenze di merito emerge che gli addebiti riguardano gli accadimenti verificatisi la mattina del (omissis), allorchè nella (omissis) una violentissima esplosione aveva sventrato il terzo ed il quarto piano dell’edificio sito al (omissis) ed in conseguenza dello scoppio al terzo piano, all’interno dell’appartamento adiacente l’abitazione della famiglia P.- M., erano stati rinvenuti i corpi senza vita di m.R. e ma.Ch., uccisi nel sonno dal crollo delle macerie, e nel cortile del palazzo era stato trovato il cadavere di M.M., moglie di P.G., scagliata in quel luogo dall’esplosione dopo avere inalato gas metano prima del decesso, mentre il P. e le due figlie minori, A. e L., erano rimasti all’interno del loro appartamento, presentando gravi ustioni, (ed il contatore dell’alloggio aveva rivelato l’avvenuta erogazione a bocca libera di gas per diverse ore prima dell’esplosione, pari a complessivi 46 mc..). La deflagrazione aveva danneggiato l’intero edificio, evacuato unitamente a quelli limitrofi nel timore di crolli, nonché numerosi veicoli parcheggiati sulla strada, investiti dalla caduta di calcinacci. L’evento era ricollegato sul piano causale ad una fuga di gas metano, provocata all’interno dell’abitazione dal volontario scollegamento, - che il P. aveva ammesso di avere effettuato verso le ore 02.00 della notte con l’intenzione di uccidere l’intera famiglia per la rabbia e la frustrazione, indotte dal fallimento della relazione coniugale e dalla decisione della moglie di lasciarlo per iniziare la convivenza con altro uomo-, del tubo di alimentazione da quello dei fornelli del piano cottura della cucina, che aveva consentito la libera fuoriuscita del gas con verificazione dell’esplosione quando l’indomani la M. era entrata in cucina, verosimilmente perché allarmata dall’odore avvertito.
I giudici di merito, attribuita la condotta al P., con concorde determinazione escludevano la ricorrenza di vizi incidenti sulla sua imputabilità per l’assenza di patologie psichiatriche riconducibili ad abuso di farmaci, al sonnambulismo ed alle pretese amnesie, cause differenti di volta in volta riferite dall’imputato agli inquirenti nel corso delle indagini, ma non emerse dagli specifici accertamenti tecnici condotti, ed addebitabili piuttosto ad un atteggiamento simulatorio nell’ambito di una lucida strategia difensiva adottata in base al progredire delle investigazioni, e, disattendendo su tale unico punto il giudizio dei periti officiati nell’incidente probatorio, ritenevano che lo stato depressivo diagnosticato nel periodo antecedente al fatto non avesse mai assunto tale gravità ed intensità da essere definito quale depressione maggiore e da essere responsabile del gesto criminoso, che ad esso non era eziologicamente correlato.

1.3, Avverso la sentenza hanno proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Milano e l’imputato.

1.3.1. Il Procuratore Generale ha dedotto con unico motivo inosservanza o erronea applicazione di legge ed inosservanza di norme processuali in riferimento agli artt. 581,591 e 597 c.p.p.. La Corte di appello ha inspiegabilmente ridotto la pena inflitta all’imputato ad anni trenta di reclusione in luogo dell’ergastolo, in tal modo travalicando i limiti di quanto devolutole con l’appello dello stesso imputato, che non aveva contestato la congruità del trattamento sanzionatorio, Né si era lamentato dell’entità dell’aumento di pena per il reato unificato per continuazione. La diversa commisurazione della pena avrebbe potuto essere giustificata dal riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che però è stato negato.

1.3.2, P.G., per il tramite del difensore, avv.to Alessandra Silvestri, ha dedotto:
a) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta imputabilità del ricorrente per contrasto con atti processuali di opposto tenore. La sentenza impugnata, aderendo al giudizio espresso in quella di primo grado, ha riconosciuto la piena imputabilità del P., sebbene i periti ed i consulenti della difesa avessero rilevato la presenza di “caratteristiche ossessive, istrioniche narcisistiche (...)”, causa di capacità di intendere e di volere grandemente scemata. -. In tal modo la Corte di appello è incorsa nel vizio motivazionale per avere disatteso il giudizio scientifico dei periti ed essersi basata su regole di comune esperienza, pur senza poter disporre di competenza tecnica. In realtà, la nozione di infermità mentale offerta dalla sentenza delle Sezioni Unite Raso si adatta al caso specifico, nel quale, per i periti, l’azione criminosa era riconducibile alla depressione ed al senso di ineluttabilità, avvertito dall’imputato quale rimedio per la situazione vissuta, come confermato dalle dichiarazioni confessorie dallo stesso rese. In sentenza, per sconfessare tale giudizio si è escluso il disturbo di “depressione maggiore” senza considerare che il ragionamento seguito dai periti, presente anche in molti passaggi delle consulenze di parte, aveva indicato l’azione delittuosa come frutto di più fattori combinati tra loro, ma riconducibili ad accertate disfunzioni della personalità, ossia a disturbo depressivo, a tratti narcisistico, a tratti paranoide, che aveva determinato al momento del fatto una regressione psicotica in dipendenza della situazione stressogena, che aveva agito su una personalità fragile, debole, regressiva per sua struttura. Alla indicazione peritale, per la quale la sofferenza del periziando ha inciso sulla criminogenesi e sulla imputabilità, diventando il suicidio la propria ideazione prevalente, la Corte di appello ha replicato in forza della protezione che egli si era creato, avvolgendosi nel materasso e dei toni scherzosi dei messaggi con i quali prima dei fatti aveva preannunciato l’intenzione di uccidersi, senza considerare le ripetute richieste di aiuto dallo stesso rivolte ai medici negli anni antecedenti.
L’esclusione dei sintomi indicativi della depressione maggiore è stata operata in contrasto con i referti medici e le conclusioni peritali; presso l’Ospedale (OMISSIS) era stato accertato lo stato di depressione maggiore anche all’atto delle dimissioni e comunque secondo il DSM 5 gli indicatori della depressione maggiore sono nove, mentre cinque sono quelli che devono necessariamente essere presenti per addivenire ad una diagnosi in tal senso. Secondo il perito Ma., il P., nonostante l’assenza del corteo completo della sintomatologia depressiva maggiore, presentava umore deflesso per tutta la giornata, perdita di peso, riduzione dell’efficienza lavorativa, insonnia, pensieri suicidiari, ma la Corte di appello ha focalizzato l’attenzione su ulteriori indici, cui i periti non avevano fatto riferimento, ritenendoli dirimenti in assenza di informazioni scientifiche.
- le considerazioni ricavate dalle informazioni fornite da parenti ed amici e dai medici che l’avevano avuto in cura sono frutto di una lettura parziale ed acritica delle risultanze processuali, che in realtà avrebbero dovuto condurre ad esiti difformi, in quanto:
1) l’umore depresso/deflesso per la maggior parte della giornata è dimostrato dalla diagnosi di depressione, stilata dalla Dott.ssa V., che aveva prescritto terapia farmacologica antidepressiva, ansiolitica ed ipnoinducente; dalle dichiarazioni della Dott.ssa P.; da quelle della Dott.ssa B.; dai referti dell’ospedale (OMISSIS); dall’annotazione della Dott.ssa J.; dai messaggi inoltrati all’amica L.V. ed all’amico C.; ciò nonostante, la Corte di merito ha rilevato la stabilità delle condizioni psichiche del P. dopo il fatto, basandosi sulla documentazione acquisita presso il carcere, ma senza considerare che nei suoi confronti era stato disposto il monitoraggio per timore di atti autolesionistici;
2) la marcata diminuzione di interesse o piacere per le attività quotidiane è attestata dalle dichiarazioni della teste F. e dai messaggi inviati a costei ed alla teste L.;
3) il calo ponderale è stato valutato con argomentazioni inconferenti ed illogiche che non hanno tenuto conto della sua progressione in concomitanza col peggioramento delle condizioni psichiche di soggetto da sempre ansioso per la crisi coniugale e per la difficile situazione familiare; del pari, non assume rilevanza l’assenza di dirompenti sintomi di carattere psichiatrico, come rilevato dai periti;
4) l’insonnia o ipersonnia per quasi tutto il giorno attestata dalle dichiarazioni della Dott.ssa B. e dai messaggi inviati alle amiche F. e L.;
5) la faticabilità o mancanza di energia, documentata da un messaggio inviato al C.;
6) l’autosvalutazione o i sensi di colpa, confessati agli amici anche per avere indotto la moglie ad abortire, sono stati svalutati a ragione di alcuni episodi nei quali l’imputato aveva mostrato perdurante dinamismo nel tentativo di celare il senso di straniamento vissuto;
7) i reiterati pensieri suicidiari sono emersi dalle relazioni dei medici che l’avevano avuto in cura e dai messaggi inviati agli amici che sono stati svalutati anch’essi per il tono scherzoso di alcuni testi, ma che i periti hanno ricondotto alla condizione depressiva maggiore e che trovano riscontro nella sua permanenza presso l’abitazione dopo la provocata fuoriuscita del gas, che la Corte di appello ha ritenuto insignificante per le forme di protezione attivate con l’essersi avvolto nel materasso senza considerare che tale misura non avrebbe potuto salvaguardarlo dall’esplosione, che gli ha cagionato gravi lesioni, mentre se avesse voluto avrebbe potuto mettersi in salvo, lasciando l’abitazione nella notte.
- Anche l’esclusione di un pregresso stato depressivo nell’imputato è contraddittoria rispetto agli allegati referti medici ed alle testimonianze dei sanitari che l’avevano avuto in cura.
- L’atteggiamento simulatorio e dissimulatorio tenuto dall’imputato è stato affermato in contrasto con le allegate testimonianze dei periti e dei verbali di interrogatorio dell’imputato, oggetto di travisamento della prova e, quanto alla valutazione dell’amnesia e del sonnambulismo, la sentenza è incorsa nel vizio di inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 597 c.p.p. per violazione del principio devolutivo per avere esteso la propria cognizione a tali temi, sebbene non riproposti dalla difesa nell’atto di appello.
- La valutazione della mutata posologia della terapia farmacologica è contraddittoria perché non considera che la Dott.ssa V. nel (OMISSIS) aveva prescritto il raddoppio della dose di un farmaco, impiegato per la deflessione del tono dell’umore e proprio per la cura dei depressi maggiori come il P., le cui condizioni si erano aggravate come provato dall’intensificarsi di messaggi ad amici e parenti dal contenuto disperato.
b) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale in riferimento all’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 422 c.p., ed illogicità della motivazione per l’utilizzo di criteri inferenziali capziosi e per contrasto con le dichiarazioni dell’imputato. La Corte di appello non ha offerto risposta alla censura difensiva circa la mancata dimostrazione della finalità di cagionare la morte di un numero indeterminato di persone. Si è ritenuto che l’imputato, per il suo livello culturale, non potesse non sapere che l’elevata concentrazione di gas avrebbe dato luogo ad un’esplosione devastante, ma il medesimo criterio inferenziale fallisce quando è riferito alla vittima M.M., anch’essa persona di cultura, che però aveva provocato lo scoppio; mentre non è illogico ritenere che il P. avesse pensato di far morire la sola propria famiglia per asfissia da inalazione del gas, cosa che avrebbe dovuto essere dedotta dalla grande quantità di gas uscito dalla tubazione, dal luogo in cui egli si era coricato in prossimità della cucina, dal precedente analogo episodio che non aveva dato luogo ad esplosioni, dalla patologia depressiva dalla quale era affetto e dall’intento suicidiario, nonché dalla ritenuta natura accidentale dello scoppio. Egli aveva inteso nuocere ad un numero limitato di persone, ossia alla sua famiglia e non ha mai dichiarato di avere inteso provocare un’esplosione da fuga di gas in nessuno dei verbali di spontanee dichiarazioni o di interrogatorio. Inoltre, deve ricordarsi che parte della dottrina ritiene che il dolo stragista non possa mai ricavarsi soltanto dalla mera potenzialità lesiva degli atti posti in essere, ma pretende la dimostrazione dell’intenzione di uccidere un numero indeterminato di persone.
c) Erronea applicazione della legge penale in riferimento al delitto di devastazione. Difettano gli elementi per poter configurare questa fattispecie. Secondo l’orientamento prevalente, il delitto postula l’operato di una pluralità di soggetti e la correttezza di tale soluzione è dimostrata dal fatto che l’art. 419 c.p., punisce anche la condotta di saccheggio quale fatto commesso da una pluralità di agenti, che si impossessano indiscriminatamente di una rilevante quantità di oggetti; ne discende la natura necessariamente plurisoggettiva anche del delitto di devastazione. Inoltre, dalla previsione di cui all’art. 285 c.p. discende che il delitto è previsto in alternativa a quello di strage e nelle applicazioni giurisprudenziali, nei casi di utilizzo da parte della criminalità organizzata di ordigni esplosivi, si è riconosciuto il solo delitto di strage in presenza di vittime. Il delitto di strage integra quello di devastazione, stante il rapporto di specialità esistente tra di essi, posto che il bene tutelato dal primo, l’incolumità pubblica, comprende anche l’ordine pubblico, protetto dall’incriminazione della devastazione, come riconosciuto dalla Suprema Corte con la sentenza del 1985, Legrotteria.
d) Omessa motivazione in riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e contraddittorietà della stessa in riferimento al comportamento processuale, tenuto dall’imputato in udienza. La Corte di appello ha riproposto le considerazioni del primo giudice quanto alla confessione, ritenuta tardiva perché resa dopo che gli elementi di prova erano già emersi a suo carico, ed all’assenza di pentimento senza considerare la lettera di scuse, manoscritta e letta in udienza, ed i sensi di colpa evidenziati anche nelle cartelle cliniche durante la degenza.

1.4. Con successiva memoria la difesa dell’imputato ha controdedotto al ricorso proposto dal Procuratore Generale, rilevando che con i motivi di appello si era contestato il giudizio di responsabilità, ma anche la commisurazione della pena con una doglianza specifica, sicché la determinazione della Corte di appello era stata assunta nel rispetto del principio devolutivo.

Diritto

Entrambi i ricorsi sono privi di fondamento e vanno dunque respinti.

1.Per ragioni di ordine logico, prima ancora che giuridico, s’impone l’esame prioritario del ricorso proposto nell’interesse di P.G., che incentra le doglianze articolate col primo motivo di ricorso sul giudizio di piena imputabilità espresso dalle due conformi sentenze di merito, senza censurare il giudizio di attribuzione soggettiva delle condotte criminose addebitategli.
1.1.La Corte di appello ha escluso di poter aderire alla prospettazione difensiva della totale o parziale compromissione della capacità d’intendere e volere dell’imputato sulla scorta delle considerazioni esposte dai periti e dai consulenti tecnici delle parti, i cui accertamenti ha richiamato nei passaggi salienti e più significativi, per confermare il giudizio già espresso all’esito del processo di primo grado, secondo il quale il disturbo depressivo, dal quale era affetto l’imputato al momento dei fatti, non presentava tale gravità ed intensità da avere inciso negativamente sulla sua capacità di esercitare le usuali funzioni cognitive e di autodeterminarsi liberamente. Ha quindi passato in rassegna tutte le giustificazioni fornite dal P. al fine di accreditare la sua tesi di fondo, pur proposta con diverse varianti, della pretesa estraneità ai fatti perché commessi in stato di alterazione, cosa che, smentita dagli accertamenti condotti dai periti e dai consulenti di parte, occupatisi del caso, ha finito per accreditare la riconoscibilità di un atteggiamento simulatorio, assunto con gli investigatori ed anche con i periti, della padronanza del proprio agire e della capacità di adeguare la strategia difensiva al progredire delle acquisizioni probatorie nel corso delle indagini con il palese intento di stornare da sè i sospetti nella fase iniziale e poi di guadagnarsi l’impunità. La Corte di merito ha quindi considerato la diversa modulazione delle giustificazioni fornite dall’imputato in stretta correlazione con le informazioni fornite dalle investigazioni, che avevano consentito via via di smascherare come non veritiere le sue precedenti versioni dell’accaduto: egli aveva progressivamente descritto l’esplosione dapprima come avvenuta nell’appartamento dei vicini, quindi come frutto di evento accidentale, poi della propria condotta di manomissione del tubo del gas nell’alloggio familiare, compiuta sotto l’effetto di una dose maggiore di quella usuale dei farmaci assunti, responsabili di uno stato di totale amnesia temporanea, ed, infine, a causa del sonnambulismo da cui era affetto sin da bambino.
La pretesa inconsapevolezza del compimento dell’azione che aveva innescato il meccanismo causale, responsabile della deflagrazione, aveva però ricevuto netta smentita a seguito degli accertamenti dei periti incaricati dal primo giudice e financo degli studi epidemiologici indicati dai consulenti tecnici di parte; inoltre, i periti avevano raccolto dall’imputato ulteriori ricostruzioni degli eventi, corredate da dettagli descrittivi incompatibili con la perdita di memoria, contraddetta anche dalle prime informazioni fornite ai soccorritori circa la presenza all’interno dell’appartamento di moglie e figlie. In sentenza si è poi segnalato anche il tentativo fallito del P. di addebitare le incongruenze descrittive di alcuni significativi particolari dell’azione commessa alle pressioni esercitate sulla sua persona dagli investigatori durante il lungo periodo di trattenimento in Questura, mentre era emerso con certezza che egli aveva mentito al riguardo, così come aveva ingannato persino i propri consulenti, inducendo in errore il Dott. Z., al quale durante la degenza ospedaliera si era mostrato soporoso e non cosciente a seguito della volontaria ingestione di farmaci, sottratti all’infermeria dell’ospedale per alterare le proprie condizioni, ripristinatesi nella normalità, una volta esaurito l’effetto prodotto dalle sostanze. Del pari è stata esclusa qualsiasi evidenza dell’asserito sonnambulismo, al quale è ascrivibile il compimento di gesti violenti, ma in assenza di motivi per il crimine, che, al contrario, il P. aveva.
La disamina di tali aspetti non è oggetto di censure difensive, se non in riferimento al ravvisato atteggiamento simulatorio dell’imputato, che sarà oggetto di successiva considerazione.
1.2 La Corte di merito ha affrontato criticamente per disattenderla anche l’unica deduzione difensiva in tema di imputabilità, riproposta con l’appello, ossia la realizzazione della condotta delittuosa per effetto della patologia psichiatrica della depressione maggiore, individuata dai periti per la prima volta nel corso dell’esame reso nell’incidente probatorio, rispetto alla più sfumata diagnosi espressa nella relazione scritta, quale fattore che aveva scemato grandemente la capacità d’intendere e di volere, in quanto l’idea di eliminare se stesso ed i familiari mediante un’azione suicidiaria-omicidiaria sarebbe divenuta sempre più invasiva nella mente dell’imputato sino ad essere l’unica soluzione possibile con esclusione di qualsiasi alternativa praticabile.
Ad avviso dei giudici di merito, il P. avrebbe, invece, presentato semplici tratti di depressione, definita minore a probabile natura reattiva, non responsabile sul piano eziologico dell’azione criminosa per l’assenza, affermata anche dagli stessi periti, del completo corteo sintomatologico, caratterizzante in modo specifico la depressione maggiore, in particolare dell’inibizione ideo-motoria, della perdita di progettualità e dell’inaridimento affettivo, mentre gli altri indicatori evidenziati dai periti erano comuni a tutti i disturbi depressivi. La Corte di appello ha quindi corroborato il proprio giudizio con la considerazione di ulteriori circostanze fattuali, probatoriamente acclarate nel corso delle indagini, dalle quali ha desunto la sostanziale stabilità delle condizioni psichiche del P. dopo i fatti di reato, non peggiorate nonostante la consapevolezza della morte della moglie e delle lesioni riportate dalle figlie, rimaste orfane e prive anche del padre detenuto, stabilità incompatibile con la depressione maggiore.
1.2.1.In particolare, nella sentenza in verifica, per disattendere le osservazioni difensive ed il giudizio peritale è stato evidenziato che:
- la documentazione acquisita dal carcere non indica un peggioramento dello stato mentale dell’imputato, tale da avere richiesto un intervento farmacologico ulteriore rispetto a quello già somministrato prima dei fatti, Né da avere rivelato uno stato psicotico, o sintomi depressivi, Né intenti suicidiari, non attuati nonostante la disponibilità di pastiglie di psicofarmaci, accumulate ed occultate nella sua cella per settimane; anche le conversazioni intercettate durante la degenza ospedaliera, quindi in epoca prossima ai fatti di reato, mostrano una condizione di equilibrio, di coerenza e di consapevolezza della necessità di informare le figlie del decesso della madre; del pari, nonostante la prescrizione di visita psichiatrica disposta presso l’ospedale (OMISSIS) a seguito del riscontro dello stato depresso del paziente, i successivi accertamenti avevano rivelato che egli aveva volutamente ingerito dei sonniferi in dose eccessiva per procurarsi una condizione soporosa e di scarsa reattività, che tali sintomi erano scomparsi al cessare degli effetti dei farmaci e che al successivo controllo egli era risultato sveglio, orientato ed in grado di parlare correttamente in assenza di disturbi acuti;
- la diagnosi inizialmente formulata presso l’ospedale (OMISSIS) in termini di depressione maggiore era frutto delle dichiarazioni raccolte dall’imputato all’atto del ricovero, ma non era stata confermata dalle successive indagini specialistiche, che avevano concluso per l’assenza “di acuzie psicopatologiche in atto”;
- il calo ponderale segnalato dalla difesa era stato accertato a seguito di apposita visita psichiatrica, richiesta dai sanitari del carcere, ma era stato addebitato al rifiuto volontario del cibo da parte dell’imputato e quanto riferito dallo stesso P. nel (OMISSIS) allo psichiatra, cui si era rivolto per i disturbi del sonno e per lo stato ansioso, sulla perdita di 10 kg. di peso e sul conseguente rischio di morire non era stato riferito da nessuno dei testi a discarico, Né era stato riscontrato da altri elementi di prova.
1.2.2. La Corte di merito ha esteso la propria disamina anche alle condizioni psichiatriche del P. prima dei fatti, come emerse dalle valutazioni dei sanitari che l’avevano avuto in cura. Ha quindi rimarcato che, sia nella diagnosi, che nella terapia farmacologica prescritta dalla psichiatra Dott.ssa V. dal (OMISSIS), non era evincibile l’avvenuto accertamento dei sintomi tipici della depressione maggiore ed il medesimo trattamento anche sul piano posologico era rimasto invariato dopo i fatti con l’ingresso in carcere del P..
1.2.3, È stata oggetto di puntuale disamina anche la deduzione basata sui pensieri suicidiari dell’imputato, espressi ad alcuni amici nei mesi antecedenti il compimento dei fatti criminosi, che i periti hanno interpretato quali dati di conferma della sua grave condizione depressiva. Nella sentenza impugnata si è osservato che nell’imputato, pur a fronte della condizione di ansia e preoccupazione e dell’innegabile tono deflesso dell’umore, emerso a seguito dell’accertamento della patologia autistica da cui era affetta la figlia A. e della decisione della moglie di separarsi ed iniziare la convivenza con altro uomo, non era presente una seria volontà di uccidersi, in quanto i messaggi inviati all’amica L. per esternare tale intento, dal tenore talvolta ironico, non erano stati considerati seri, ma un modo per attirare l’attenzione su di sè, tanto da avere egli scherzato al riguardo e da non avere mai nemmeno tentato di togliersi la vita, pur avendone avuto l’occasione quando l’(OMISSIS) era rimasto solo a casa dopo un serio litigio con la moglie, trasferitasi dai genitori con le figlie, quando la prospettiva di un loro allontanamento aveva assunto dimensione di concretezza e di immediata percettibilità.
Inoltre, è stato escluso che anche la condotta che aveva innescato l’esplosione fosse riconducibile ad un proposito suicidiario, dal momento che egli, coricatosi nel soggiorno nelle vicinanze del locale cucina ove aveva lasciato fuoriuscire il gas, aveva adottato l’accorgimento di avvolgersi all’interno di un materasso per proteggersi dallo scoppio: l’accertamento di tale circostanza è stato desunto dalle deposizioni di due vigili del fuoco, intervenuti dopo la deflagrazione a prestare i primi soccorsi, i quali l’avevano rinvenuto “avvolto nel materasso”, ma anche dalla testimonianza della figlia L., la quale circa quaranta minuti prima dell’esplosione aveva notato il padre avvolto nelle coperte come in un bozzolo, sebbene in quel mese di giugno le temperature quasi estive non lo avessero richiesto.
Ad ulteriore riscontro si legge nella sentenza impugnata che le verifiche tecniche, condotte dal personale del Gabinetto di polizia scientifica, hanno attestato che le ustioni riportate dal P. per la loro circoscrizione erano compatibili con la presenza di una protezione che gli aveva salvato la vita ed aveva impedito che buona parte del corpo fosse attinta, riparo la cui attivazione è stata ascritta ad un gesto preventivo volontario.
Altrettanto inverosimile è stato ritenuto un proposito suicidiario da attuare mediante avvelenamento da gas, perché il mezzo prescelto, nonostante l’elevato potere esplodente, era inidoneo per la sua scarsa tossicità.
La considerazione congiunta di tali profili fattuali ha indotto ad accogliere le valutazioni dei consulenti delle parti civili, per le quali egli aveva inteso eliminare l’intera famiglia in preda a sentimenti di rabbia ed aggressività contro la moglie, dettati da gelosia ed intenti vendicativi, per avere costei voluto abbandonarlo per iniziare con le figlie ed il nuovo compagno una nuova vita.
1.2.4. La Corte di appello ha ritenuto di escludere che il P. avesse presentato sentimenti di autosvalutazione e ridotta capacità di svolgere le sue ordinarie attività e di concentrarsi. Ha osservato che, secondo quanto emerso dalle testimonianze escusse, nel periodo immediatamente precedente i fatti egli non aveva subito una riduzione sensibile del suo impegno lavorativo, Né aveva modificato la sua vita sociale e di relazione per avere, al contrario, protratto le usuali occupazioni, mantenuto l’accudimento domestico e i legami amicali, progettato nuove iniziative e coltivato i suoi interessi anche sul piano sociale e politico, ossia aveva tenuto comportamenti incompatibili con la depressione maggiore, rispetto ai quali i periti, che pure hanno considerato tali aspetti della vicenda umana del P., non sono stati in grado di fornire spiegazione per avvalorare la coerenza di siffatti atteggiamenti con il loro giudizio di seminfermità, conseguente a patologia non emersa nemmeno dai risultati delle batterie di test somministratigli.
Sulla scorta di quanto accertato anche dai periti e dai consulenti delle parti civili, avvalsisi dei risultati dei test psicodinamici e della documentazione sanitaria acquisita, si è concluso che egli, pur mostrando tratti narcisistici con caratteristiche grandiose, ovvero una “struttura di personalità ossessivo-narcisistica”, non presentava, Né una depressione psicotica per l’assenza dei sintomi tipici, Né un disturbo di personalità con caratteristiche di tale portata da incidere negativamente in senso psicopatologico sul suo funzionamento e quindi da avere compromesso la sua capacità di intendere e volere. Al contrario, egli aveva agito in preda alla rabbia ed al rancore nei confronti della moglie per gelosia e per desiderio di vendetta, sentimenti che già in precedenza lo avevano indotto ad assumere atteggiamenti aggressivi e violenti contro la stessa ed a compiere gesti vandalici in danno dell’uomo cui ella si era legata, ma nella piena consapevolezza del gesto compiuto, del suo disvalore e delle conseguenze.
1.3. La difesa denuncia con disamina altrettanto ampia plurimi vizi motivazionali riscontrati nella sentenza di appello, che però non si rinvengono.
1.3.1, Non trova rispondenza, nell’analitico percorso argomentativo esposto in sentenza, la censura che addebita alla Corte di appello il superamento dei dati anamnestici e diagnostici presenti nelle cartelle cliniche, nella perizia e nelle consulenze tecniche di parte sulla scorta, non già di criteri dotati di pari dignità scientifica, ma di regole di comune esperienza. In primo luogo il giudizio di piena capacità, espresso in entrambe le sentenze di merito, si è basato sia sulle stesse indicazioni fornite dai periti, sia su quanto illustrato dai consulenti tecnici delle parti civili, motivatamente ritenuti attendibili, che ha correlato e confrontato con le altre emergenze probatorie disponibili. Quelli che la difesa bolla come “argomenti atecnici, inidonei a reggere il confronto con altri ben più meditati” (pag. 9 ricorso), in realtà costituiscono i risultati dell’attività istruttoria legittimamente acquisiti e valutati con un approccio che non presta adesione fideistica al giudizio peritale, ma lo sottopone doverosamente ad una lettura critica e lo considera nel contesto degli altri dati conoscitivi.
1.3.2. L’esclusione della depressione maggiore non presta il fianco alle critiche difensive, se si considera che proprio la citazione testuale dell’esame del perito Ma., contenuta nel ricorso (pag. 13), conferma la corretta considerazione, operata dalla Corte di appello, dei criteri utilizzabili per la diagnosi della predetta patologia, indicati nell’umore deflesso per tutta la giornata, nella perdita di peso, nella riduzione dell’efficienza lavorativa, nell’insonnia, nei pensieri suicidiari”, e l’altrettanto corretto recepimento delle indicazioni peritali circa l’assenza del “corteo completo della sintomatologia depressiva maggiore”. Tanto prova che la Corte di appello alle pagine 14-26 si è attenuta strettamente agli indicatori considerati dai periti senza focalizzare la propria disamina su criteri diversi, di propria arbitraria “invenzione”, al più accorpando in una valutazione unitaria più criteri, come nel caso dei sentimenti di autosvalutazione e ridotta capacità di pensare o concentrarsi, rientranti ai punti 7) e 8) dell’elencazione riportata in ricorso e nella riduzione di efficienza lavorativa indicata dai periti.
Nessun errore scientifico è dunque dato rinvenire nella valutazione condottane, al più un convincimento sfavorevole e sgradito, ma non per questo inattendibile o arbitrario.
1.3.3. La sentenza non ha negato che prima di commettere l’azione criminosa il P. avesse avvertito deflessione dell’umore ed avesse assunto farmaci per contenere l’ansia e superare l’insonnia, circostanze ampiamente dimostrate dalla compiuta istruttoria e rilevate anche durante la permanenza presso il carcere di (OMISSIS), ma ha apprezzato in modo difforme dai periti e dalle richieste difensive il grado di intensità e pervasività di tali disturbi in termini che non presentano vizi logici manifesti, Né si discostano dai dati probatori, non rinvenendosi nessun profilo di travisamento nemmeno in riferimento al monitoraggio disposto nei suoi confronti durante la carcerazione.

1.3.4 Del tutto inconferenti con l’indagine sull’imputabilità sono le obiezioni difensive, che riguardano la diminuzione di interesse per le occupazioni ordinarie, che si appuntano sulle difficoltà economiche legate all’andamento dell’attività lavorativa, ma che non descrivono lo stato d’animo dell’imputato e non smentiscono nemmeno sul piano logico quanto esposto in sentenza, che, basandosi sulle testimonianze dei collaboratori e degli amici del P., ha evidenziato la prosecuzione del suo impegno con risultati di rendimento invariati, la conservata capacità progettuale sul piano professionale, personale ed amicale, la candidatura alle elezioni amministrative del (OMISSIS), la costante presenza nella gestione domestica e nelle cure parentali, ossia un insieme considerevole di iniziative su molteplici fronti che in modo perfettamente logico e consequenziale è stata apprezzata come incompatibile con la depressione maggiore e che nemmeno i periti hanno saputo spiegare come coerente con la loro diagnosi.

1.3.5 In merito al dato del calo ponderale, le osservazioni riportate in sentenza sulla sua verificazione, ma in termini meno drammatici e certamente non esiziali rispetto a quanto riferito dallo stesso imputato, non alieno al ricorso all’iperbole, e sulla riconducibilità al rifiuto del cibo in costanza di detenzione, non presentano gli aspetti di manifesta illogicità dedotti in ricorso. Inoltre, il fenomeno, -definito transitorio nella sentenza di primo grado che ha evidenziato come, dopo l’iniziale decremento di peso, dovuto ad una sorta di sciopero della fame, attuato all’inizio della carcerazione, in seguito recuperato-, non è stato ignorato, ma collocato in un contesto in cui non erano state riscontrate dai sanitari del carcere “acuzie psichiatriche in atto” per essere stimato in sè non significativo della grave forma depressiva dedotta.

1.3.6 Del pari, i giudici di appello non hanno negato che il P. soffrisse di insonnia o che assumesse farmaci per curare il disturbo del sonno, Né che avvertisse un senso di affaticamento, ma hanno escluso che questi aspetti della sua condizione avessero assunto tale gravità da avere inciso sulle sue abitudini ed occupazioni ed avessero compromesso il quadro complessivo.

1.3.7 Né è censurabile nel presente giudizio di legittimità la considerazione dei propositi suicidiari, esternati dal P., ma mai seriamente attuati, Né seriamente presi in considerazione dai destinatari dei suoi messaggi. Al riguardo deve escludersi che la Corte di appello abbia travisato il tenore testuale di tali comunicazioni, che ha apprezzato in senso conforme alle espressioni utilizzate dall’imputato ed alle reazioni che i destinatari avevano descritto nell’ambito delle loro testimonianze. Quanto lamentato in ricorso, ossia l’interpretazione dei testi senza tener conto “delle problematiche genetiche dell’imputato” (pag. 24, nota 11 del ricorso) si colloca al di fuori del perimetro deducibile del vizio di travisamento della prova, perché attiene alla considerazione critica dell’informazione e non al contenuto in sè della stessa.
È opportuno ricordare che il vizio di travisamento della prova, che si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo, oppure si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, non è riscontrabile nel caso in cui gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e della responsabilità dell’imputato. È, invece, necessario che gli “atti del processo” su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Perché il vizio sia valutabile in sede di legittimità è però onere del ricorrente, non solo illustrare le ragioni per cui il dato travisato inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione, ma soprattutto individuare in modo inequivoco e rappresentare in modo specifico gli atti processuali che intende far valere. A tal riguardo, questa Corte di legittimità ha più volte affermato che il ricorrente che intenda dedurre in sede di legittimità il travisamento di una prova ha l’onere di suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti che intende far valere, non essendo sufficiente per l’effettivo apprezzamento del vizio dedotto la citazione di alcuni brani dei medesimi (sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale e altri, rv. 256723; sez. 5, n. 11910 del 22/01/2010, Casucci, rv. 246552; sez. 6, n. 29263 del 08/07/2010, Cavanna e altro, rv. 248192; sez. 1, n. 6112 del 22/01/2009, Bouyahia, rv. 243225; sez. 1 n. 16706 del 18/03/2008, Falcone, rv. 240123; sez. 1, n. 47499 del 29/11/2007, Chialli, rv. 238333).
Il ricorso non rispetta i superiori requisiti nemmeno allorchè denuncia la riconducibilità alla volontà suicidiaria dell’azione che aveva dato luogo all’esplosione, rispetto alla quale la negazione operata dai giudici di merito, che vi hanno rinvenuto soprattutto il desiderio di eliminare la sua famiglia con un gesto definitivo, si è avvalsa di dati probatori precisi, certi e non controvertibili, comprensivi anche della deposizione della figlia L. e degli accertamenti condotti dal consulente dell’accusa e dalla polizia scientifica sull’esistenza di un riparo, che aveva salvaguardato la vita dell’imputato, pur non impedendone il ferimento, riparo ritenuto non fortunosamente prodotto dall’onda d’urto, ma dalla preordinata presenza di coperte e materasso secondo un giudizio di fatto, che, privo di aspetti di arbitrarietà e di travisamento, si mantiene nei limiti di una ragionevole plausibilità e, come tale, non è sindacabile da parte di questo giudice di legittimità.
Piuttosto è il ricorso a non confrontarsi con il percorso motivazionale in tutti i suoi passaggi argomentativi, non confutando quanto rilevato dai giudici di merito sulla mancata attuazione dei propositi di suicidio prima degli eventi del (OMISSIS), pur in presenza di occasioni favorevoli, e nemmeno in seguito, dopo che le conseguenze della condotta criminosa, la stessa sopravvivenza del responsabile e la privazione della libertà personale avrebbero dovuto acuire i sentimenti di autosvalutazione, senso di colpa e frustrazione, che si ritengono sintomatici di una depressione così grave da averlo privato parzialmente della capacità di cognizione e di autodeterminazione.

1.3.8. Non è rinvenibile, nelle argomentazioni della sentenza in verifica, nemmeno il dedotto errore nell’apprezzamento del giudizio peritale: la Corte di appello non ha negato il vizio incidente sull’imputabilità a ragione della sola esclusione della depressione nella forma psicotica; al contrario, non riconosciuta tale patologia nemmeno dai sanitari che avevano avuto in cura il P. prima dei fatti e dagli stessi periti, ha apprezzato in via autonoma l’intensità della depressione già diagnosticata alla luce dei giudizi dei consulenti di parte civile, motivatamente ritenuti più attendibili ed aderenti ai dati processuali. In altri termini, non è in base alla negazione della depressione psicotica che si è affermata la piena imputabilità del ricorrente, ma da una considerazione più ampia e completa di tutto il compendio probatorio.

1.3.9. Non sussiste nessun vizio motivazionale anche in riferimento alla valutazione dei referti medici in atti e delle testimonianze di medici e periti. Ancora una volta la difesa pare ignorare che la Corte di merito non ha mai negato il disagio ed i disturbi che avevano afflitto il P. prima dell’episodio del (OMISSIS), ha sottoposto al proprio vaglio critico tutte le emergenze istruttorie e in perfetta coerenza con le, diagnosi di depressione reattiva, formulata già prima dei fatti, nonché con tutte le circostanze sopra evidenziate, ha escluso una incidenza negativa sull’imputabilità secondo un giudizio attinente alla ricostruzione della vicenda in punto di fatto, che è ampiamente motivato ed immune da vizi logici.

1.3.10, È manifestamente infondata la deduzione per la quale la valutazione da parte dei giudici di appello della amnesia e del sonnambulismo, riferiti dall’imputato, sarebbe avvenuta in violazione dell’art. 597 c.p.p. e del principio devolutivo.
L’impugnazione sul punto dapprima prospetta una differente considerazione del tenore delle dichiarazioni rese dal ricorrente per sollecitarne un giudizio più favorevole, che è del tutto precluso al giudice di legittimità, posto che l’apprezzamento effettuatone dalla Corte di appello non travisa il dato testuale, ma lo valuta criticamente, mantenendosi nei limiti della consentita discrezionalità di giudizio sugli aspetti fattuali del caso.
Deve poi negarsi che la Corte distrettuale abbia violato il principio devolutivo a ragione della mancata deduzione con l’atto di appello delle patologie indicate dal P. e già escluse dal primo giudice.
Invero, l’effetto preclusivo previsto dall’art. 597 c.p.p., comma 1, è riferibile ai soli punti della decisione riguardanti le statuizioni sostanziali, non alle argomentazioni esplicative (sez. 6, n. 1422 del 03/10/2017, dep. 2018, P.M. e altri in proc. Gambino e altri, rv. 271974; in motivazione sez. 2, n. 57795 del 15/11/2018, Massaccesi ed altro, rv. 274733). È essenziale avere ben presente la nozione di punti e capi della decisione, cui è circoscritta la cognizione del giudice di appello in relazione all’estensione oggettiva del mezzo d’impugnazione esperito, come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità. Per costante affermazione, si ritiene che “il concetto di “punto della decisione”, cui fa espresso riferimento l’art. 597 c.p.p., comma 1, ha invece una portata più ristretta, riguardando “tutte le statuizioni - ma non le relative argomentazioni svolte a sostegno suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo”. I punti della decisione vengono a coincidere con le parti della sentenza relative alle “statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato” e nell’ambito di ogni capo i singoli punti della decisione segnano un “passaggio obbligato” per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato (l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e nel caso di condanna - l’accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena e l’eventuale sospensione condizionale, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio)”. (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Alello e altro, rv. 268965; Sez. U., n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, Michaeler, rv. 235699). Ne discende che il punto della decisione sul quale opera la preclusione ex art. 597 c.p.p., comma 1, perché non investito dell’impugnazione, riguarda le sole statuizioni sostanziali ed esso non restringe il potere di apprezzamento della prova e della sua necessità, secondo il principio del libero convincimento del giudice.
Va aggiunto che, per essere limitata ai punti della sentenza non contestati, la preclusione derivante dall’effetto parzialmente devolutivo dell’appello non compromette la facoltà per il giudice chiamato a decidere, di considerare, nell’ambito dei motivi proposti, argomentazioni non prospettate dal proponente e questioni di diritto non svolte o erroneamente dedotte: al contrario, “il giudice di appello ben può - senza esorbitare dalla sfera devolutiva, dell’impugnazione - accogliere il gravame in base ad argomentazioni proprie o diverse da quelle dell’appellante” (Sez. U, n. 1 del 27/09/1995, dep. 1996, Timpanaro, rv. 203096).

1.3.11, Infine, non si ritiene di poter aderire alle contestazioni difensive nemmeno in merito alla valutazione della posologia dei farmaci prescritti al P. nella primavera del 2016. In sentenza alle pagine 19-20 si legge che nei referti delle visite del (OMISSIS) era annotata la prescrizione di un unico farmaco antidepressivo, la sertralina, ed il raddoppio del dosaggio, che però all’esito della seconda visita si era accompagnato alla sospensione dello Xanax, posologia questa rimasta poi invariata anche dopo il ricovero ospedaliero ed il trasferimento in carcere, nonostante l’intervento di ulteriori fattori stressogeni e la consapevolezza dei tragici eventi provocati. Il trattamento farmacologico della depressione è stato valutato come nettamente inferiore e pari alla metà di quello prescritto per i soggetti affetti da grave depressione, secondo i giudizi espressi dai consulenti tecnici delle parti civili e non desunti dal senso comune o da massime di esperienza di dubbia validità.
Ebbene, il ricorso non pone all’attenzione di questa Corte dati fattuali diversi da quelli considerati dai giudici di merito, ma assume la mancata verificazione di un miglioramento della condizione psicologica del ricorrente, che in realtà nessuno ha mai affermato, essendo stato piuttosto riscontrato, quale circostanza di rilievo, un mancato peggioramento progressivo in concomitanza e successivamente ai fatti del (OMISSIS), che la diagnosi peritale avrebbe, invece, postulato e che è stato ritenuto smentito anche dalla circostanza della fissazione dell’ulteriore visita dalla psichiatra V., non a distanza di un mese, ma appena prima dell’estate.
L’assunto contrario, affermato nell’impugnazione, non si avvale di elementi ulteriori e non sconfessa quanto dedotto dal diario clinico ospedaliero e carcerario.

1.4. Deve, infine, rilevarsi che, secondo costante insegnamento di questa Corte, lo stabilire se l’imputato al momento del fatto fosse totalmente privo di capacità d’intendere e volere, oppure se tale capacità fosse solo grandemente scemata costituisce questione di fatto, rimessa al giudice di merito, che vi procede eventualmente con l’ausilio di un esperto psichiatra ed il relativo giudizio, se congruamente motivato e conforme a criteri scientifici di esame clinico e di valutazione, si sottrae al sindacato conducibile in sede di legittimità (sez. 1, n. 11897 del 18/05/2018, dep. 2019, P, rv. 276170; sez. 1, n. 58465 del 10/10/2018, T, rv. 276151; sez. 1, n. 32373 del 17/01/2014, Secchiano, rv. 261410; sez. 1, n. 42996 del 21/10/2008, Marina, rv. 241828). Non compete alla Corte di cassazione, infatti, stabilire se la diagnosi ed il giudizio medico-legale recepiti in sentenza siano i più attendibili o se debbano loro preferirsi difformi considerazioni dei periti o dei consulenti delle parti, essendo oggetto dello scrutinio del giudice di legittimità, che non è detentore di conoscenze scientifiche privilegiate, soltanto la logicità e la coerenza della giustificazione fornita e la correttezza metodologica seguita rispetto al sapere scientifico che fornisce le informazioni di base per la ricostruzione dell’accaduto. Dal canto suo il giudice di merito può aderire ad una tesi scientifica piuttosto che ad altra, a condizione che offra congrua spiegazione della preferenza accordata e delle ragioni di svalutazione di quella difforme senza che al contempo sia tenuto ad esaminare ogni singolo passaggio, ogni affermazione della consulenza o della perizia disattesa, potendo in via discrezionale condurre la selezione e la valutazione dei dati probatori con l’obbligo di fornire logica esposizione degli argomenti che hanno determinato il suo convincimento: il vizio di motivazione sarà ravvisabile soltanto quando risulti che le considerazioni non accolte siano tali da dimostrare in modo evidente ed immediato l’erroneità del giudizio recepito (sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Cadore, rv. 269908; sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, B, rv. 266787; sez. 6, n. 5748 del 9/01/2014, Homm, rv. 258630).
Per quanto già esposto, la sentenza impugnata ha condotto la disamina dei temi sollevati con l’appello nel rispetto dei superiori principi e non merita dunque censura.

2. Il secondo motivo del ricorso dell’imputato non ha fondamento.

2.1 Assume la difesa che in sentenza non sarebbe stata data risposta alla doglianza che in merito al delitto di strage segnalava la mancata dimostrazione della finalità di cagionare la morte di un numero indeterminato di persone, riproponendo la tesi della prefigurazione da parte dell’imputato della morte per asfissia dei soli familiari con lui presenti all’interno della loro abitazione e non dell’esplosione che sarebbe derivata dalla concentrazione di gas e dal suo innesco accidentale, rispetto alla quale era carente il necessario supporto probatorio.

2.2 Ebbene, non può censurarsi perché immotivato ed illegittimo il giudizio fattuale, espresso in sentenza e basato sulla notoria capacità deflagrante del gas quando è concentrato in ambienti chiusi in grandi quantità, come era accaduto all’interno dell’appartamento del P., il quale, tramite l’operazione di manomissione del tubo di alimentazione del piano cottura della cucina, compiuta in piena notte nell’inconsapevolezza dei familiari e dei vicini, resi ignari dal riposo notturno e quindi senza la possibile azione di contrasto o di neutralizzazione del meccanismo causale innescato, aveva consentito che il gas fuoriuscisse in misura pari a 46 mc.. La conoscenza dell’inidoneità a cagionare la morte del gas, se soltanto inalato, in contrasto con l’elevatissima pericolosità della sua concentrazione, non soltanto è stata correttamente ritenuta un dato di comune conoscenza, ma si è riferita in modo specifico alla persona del ricorrente per averne fatto esperienza soltanto pochi giorni prima, allorchè il (OMISSIS) aveva già tentato di eliminare le sue congiunte con lo stesso mezzo, che si era però rivelato inefficiente, nonostante due ore di erogazione, sino a che la figlia L. aveva dato l’allarme per l’odore percepito, senza però avere avvertito nessun malore. Per smentire la coerenza logica di tali considerazioni non è sufficiente sostenere che M.M., pur essendo persona colta ed istruita al pari del marito, non avesse avuto consapevolezza del pericolo costituito dal gas, tanto da aver innescato l’esplosione, poiché non è stato possibile ricostruire esattamente i suoi movimenti ed i gesti compiuti, mentre è certo che, a differenza dell’imputato, non poteva essere stata consapevole della causa volontaria della fuga di gas, della protrazione della sua diffusione negli ambienti di casa e della sua concentrazione. Non sussiste dunque la dedotta manifesta illogicità della motivazione: la sentenza ha usato criteri inferenziali diversificati in dipendenza della non sovrapponibile sfera di conoscenza dell’imputato e della vittima e ha valorizzato l’infruttuosità del precedente tentativo attuato dal primo soltanto tre giorni prima, che gli aveva chiarito in via esperienziale come la mera inalazione del gas non avrebbe potuto sortire effetti letali.
Inoltre, il mero richiamo delle dichiarazioni dell’imputato, che aveva addebitato lo scoppio ad evento accidentale, non può additarsi a prova della mancata previsione degli effetti devastanti della sua condotta, stante la palese falsità di tale giustificazione, tale ritenuta dai giudici di merito con ampia illustrazione delle ragioni esplicative.

2.3. Il ricorso ripropone anche la tesi difensiva, per la quale il P. avrebbe agito al solo fine di uccidere i suoi familiari e non di determinare la morte di un numero indefinito di persone con la conseguente insussistenza dell’elemento soggettivo preteso dalla norma di legge. Si è già correttamente replicato in sentenza che il dolo specifico richiesto dall’art. 422 c.p. per integrare il delitto di strage consiste nella coscienza e volontà di porre in essere atti che, al fine di uccidere anche una sola specifica persona, espongano a pericolo la vita di un numero indeterminato di soggetti. In altri termini, diversamente da quanto argomentato dalla difesa, il fine cui è diretta l’azione non è provocare la morte di una collettività di vittime, ma di colpire uno o più bersagli individuati nella consapevolezza che, per le modalità esecutive e gli strumenti prescelti, può derivare il decesso indiscriminato di molti, evenienza che non deve essere necessariamente coperta, dal dolo (sez. 1, n. 43681 del 13/05/2015, P.G. e altri in proc. Tornicchio e altri, rv. 264747; sez. 1, n. 25846 del 30/11/2015, dep. 2016, Tranchina e altro, rv. 267297; sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, rv. 235666; sez. 2, n. 1695 del 13/01/1994, Rizzi, rv. 196506; sez. 1, n. 11394 dell’11/02/1991, Abel, rv. 188640; sez. 1, n. 3334 del 07/12/1987, dep. 1988, Manunta, rv. 177867). Al fine di ritenere integrata la fattispecie di strage, si è ritenuto che non è dirimente l’avvenuto impiego di mezzi dotati di intrinseca capacità distruttiva, quali bombe o esplosivi, ma piuttosto le concrete modalità del fatto, sicché anche l’uso di strumenti di minore idoneità offensiva può dimostrare, oltre alla volontà di uccidere un soggetto, la consapevolezza della contestuale esposizione a pericolo della vita ed integrità fisica di più individui. Del resto, la natura giuridica del delitto di strage, collocato tra i reati contro l’incolumità pubblica e la sua configurazione quale fattispecie di pericolo danno conto del fatto che l’elemento tipizzante del fine di uccidere fonda la punibilità degli atti posti in essere, dotati dell’idoneità ad esporre a pericolo l’incolumità collettiva senza che l’offesa effettiva si debba verificare, posto che l’eventuale evento letale anche nei confronti di una sola persona realizza l’ipotesi aggravata e comporta l’applicazione della pena dell’ergastolo in luogo di quella non inferiore a quindici anni, prevista per il reato base di “pericolo di strage” di cui al secondo periodo dell’art. 422 c.p., comma 2.
Pertanto, a fronte dell’uccisione di più soggetti, al fine di distinguere il delitto di strage da quello di omicidio volontario plurimo, è necessario condurre un’indagine globale sul fatto, che investa in modo specifico i mezzi usati, le modalità esecutive del reato e le circostanze di contesto che lo caratterizzano (sez. 2, n. 1695 del 13/01/1994, P.M. in proc. Rizzi ed altri, rv. 196506; sez. 6, n. 3333 del 20/11/1998, dep. 1999, Cavallo e altri, rv. 213579).
Per tali ragioni si è ritenuto di assegnare rilievo, quale elemento dimostrativo del dolo specifico, alla straordinaria potenzialità offensiva del mezzo usato, di per sè indicativa dell’evidente intenzione di cagionare la morte e di attentare in via indiscriminata alla vita di una molteplicità di soggetti passivi (sez. 1, n. 13988 del 14/07/1989, Hamdan, rv. 182307; sez. 1, n. 706 del 23/03/1988, dep. 1989, Pantaleo, rv. 180231).
I medesimi principi sono riferibili anche alla presente vicenda. È, infatti, giuridicamente corretta la riconduzione del caso in esame alla fattispecie di strage, posto che, al fine di eliminare la propria famiglia, il P. aveva fatto ricorso al gas, ossia a mezzo dal notevole potenziale esplodente e dagli effetti incontrollabili, lasciato fuoriuscire liberamente in ambienti di limitate dimensioni ed inseriti in un contesto abitativo di tipo condominiale, che era stato occupato da una collettività di residenti, presenti in orario notturno nei rispettivi alloggi.
La verifica dell’elemento doloso con esito positivo è stata condotta in perfetta aderenza al contesto esecutivo della condotta ed alla univoca direzione letifera della volontà del soggetto agente, rivelatrice anche della chiara consapevolezza delle insidiose ed elevatissime capacità lesive dello strumento prescelto e dell’inevitabile coinvolgimento di un numero consistente di altri soggetti, trovatisi in prossimità dello scoppio ed in condizioni di non potersi salvare e di non poter fuggire. Non può, pertanto, che respingersi la diversa prospettazione, esposta in ricorso perché fondata su errata interpretazione della norma incriminatrice e sull’omessa considerazione dei dati fattuali, valorizzati nella sentenza impugnata.

3. Col terzo motivo la difesa dell’imputato sostiene l’insussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di devastazione, di cui si deduce la natura necessariamente plurisoggettiva, per non avere il ricorrente agito unitamente ad una pluralità di altri soggetti e per non essere ravvisabile il concorso tra la devastazione e la strage.

3.1. Il primo assunto difensivo è stato già respinto dai giudici di merito, che hanno correttamente osservato come sul piano letterale l’art. 419 c.p. individua quale autore del reato “chiunque”, ossia un soggetto privo di specifiche qualità o qualifiche, che può essere identificato in un individuo singolo, o in una pluralità che agisce contestualmente. Il Collegio condivide tale ricostruzione, posto che la norma incriminatrice con la locuzione generica “chiunque” non delinea quale elemento costitutivo della fattispecie la necessaria molteplicità dei soggetti agenti, sicché la fattispecie può riconoscersi anche a fronte di un’azione distruttiva a realizzazione monosoggettiva (sez. 1, n. 42130 del 13/07/2012, Arculeo e altri, rv. 253801, in motivazione; sez. 6, n. 37367 del 6/05/2014, Seppia, rv. 261934, in motivazione).
3.2. A sostegno dell’opposta soluzione, proposta dalla difesa, non è sufficiente richiamare l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice: l’ordine pubblico, inteso quale ordinato assetto e regolare andamento della convivenza civile, da cui deriva nella collettività la percezione della tranquillità e della sicurezza, è pregiudicato da qualsiasi azione che, a prescindere dalle modalità esecutive prescelte, realizza la rovina, la distruzione o anche il danneggiamento di dimensioni vaste, indiscriminate e diffuse,di una notevole quantità di beni mobili o immobili, che trascende la lesione arrecata agli interessi patrimoniali di uno o più soggetti ed alla proprietà privata per assumere una dimensione più ampia e collettiva (sez. 1, n. 11912 del 18/01/2019, Oppedisano, rv. 275322; sez. 6, n. 37367 del 06/05/2014, Seppia, rv. 261932; sez. 1, n. 3759 del 7/11/2013, dep. 2014, Chiacchieretta ed altri, rv. 258600; sez. 1, n. 16554 dell’1/04/2010, Colombo, non massimata; sez. 1, n. 22633 del 01/04/2010, Della Malva, rv. 247418; sez. 1, n. 16553 del 01/04/2010, Orfano e altro, rv. 246941). L’offesa all’ordine pubblico nei termini specificati offre indicazioni per individuare nell’ambito dei comportamenti di violenza sulle cose quelli caratterizzati da maggiore e più allarmante gravità sul piano oggettivo. La giurisprudenza di questa Corte si è sempre attenuta a questo canone interpretativo, affermando che “integra il reato di devastazione, e non quello di danneggiamento, in quanto. lede l’ordine pubblico inteso come forma di civile e corretta convivenza, la condotta tenuta da un numeroso gruppo di persone che, in occasione di una partita di calcio, tentino di forzare lo schieramento di polizia, al fine di entrare nello stadio pur essendo sprovviste del biglietto e, dopo la morte accidentale di uno spettatore, avvenuta nei disordini seguitine, si scatenino in una inconsulta reazione, aggredendo violentemente le forze dell’ordine, distruggendo o danneggiando vari impianti e strutture dello stadio e mettendo fuori uso gli altoparlanti e le apparecchiature di ripresa a circuito chiuso” (sez. 1, n. 25104 del 16/04/2004, P.M. in proc. Marzano ed altri, rv. 228133).
Né per sostenere la necessaria plurisoggettività del reato è sufficiente prendere in esame la locuzione “fatti” contenuta nell’art. 419 c.p.; come sostenuto da risalente pronuncia di questa Corte, non contraddetta da successivi arresti, “Il reato previsto dall’art. 419 c.p. consiste, in una delle ipotesi ivi previste, nella commissione di fatti di devastazione. In tale espressione, la parola fatti sta ad indicare le diverse possibili modalità dell’azione (danneggiamento, dispersione, incendio, esplosione, demolizione, ecc.) e la parola “devastazione”, assunta dal legislatore nel suo significato tradizionale, il danneggiamento complessivo, indiscriminato, vasto e profondo di una notevole quantità di cose mobili o immobili, che costituisce il risultato dell’azione, ossia l’evento del reato” (sez. 1, n. 4135 del 25/01/1973, Azzaretto, rv. 124140; in motivazione sez. 1, n. 42130 del 13/07/2012, Arculeo e altri, rv. 253801).
E merita richiamare per le similitudini col caso presente altre risalenti pronunce, secondo le quali “L’esplosione di un ordigno ad alto potenziale dinanzi ad un edificio (nella specie, Commissariato di P.S.) va qualificata come delitto di devastazione per la indiscriminata potenza distruttiva del mezzo impiegato e per la specifica lesione dell’ordine pubblico, quale bene giuridico tutelato dall’art. 419 c.p.“ (sez. 1, n. 6308 del 28/04/1983, Alunni ed altri, rv. 159809; sez. 1, n. 3150 del 5/03/1991, Calò ed altri, rv. 186975).
Non assume rilievo decisivo per la soluzione del quesito giuridico la circostanza che la maggior parte delle pronunce di legittimità occupatesi del delitto in questione abbiano riguardato fatti commessi da una molteplicità di soggetti in occasione di tumulti o di manifestazioni di piazza, perché tanto riguarda soltanto la prassi applicativa e non sposta nulla sul diverso piano della definizione dell’autore del reato. In realtà, le caratteristiche proprie dell’evento, ossia un effetto distruttivo prodotto su vasca scala, non possono condizionare l’individuazione della natura mono o plurisoggettiva del reato, atteso che anche un’azione individualmente compiuta, seppur meno frequente nell’esperienza giudiziaria, può realizzare in via autonoma l’evento e dar luogo alla condotta tipica sanzionata dall’art. 419 c.p..
A sostegno della tesi opposta la difesa indica l’incriminazione da parte della stessa disposizione anche della diversa fattispecie del saccheggio, di cui sostiene la natura parimenti e necessariamente plurisoggettiva. Non ignora il Collegio che nella definizione fornitane da sez. 1, n. 13466 del 18/04/1980, Bolzani, rv. 147090, il saccheggio consiste nella condotta, compiuta da più persone, di impossessamento indiscriminato di una rilevante quantità di oggetti, “sorretta da spirito di assoluta prepotenza e noncuranza per l’ordine costituito”, ma rileva che anche in riferimento a tale ipotesi delittuosa è la dimensione oggettiva dell’evento a far individuare la molteplicità di agenti, responsabili di comportamenti distinti, ma correlati e convergenti verso il medesimo effetto. Non può però escludersi in assoluto e sul piano della formulazione testuale della norma, che costituisce il criterio prioritario di esegesi, che anche un singolo, operando da sè ed approfittando di eccezionali condizioni favorenti, possa impadronirsi di una grande quantità di beni, sottraendoli ai legittimi proprietari.
Altrettanto non condivisibile è l’assunto che postula la non configurabilità del concorso tra il delitto di strage e quello di devastazione per il rapporto di specialità che legherebbe le due fattispecie. Non soltanto la deduzione non individua quale sarebbe l’elemento specializzante di qualificazione della strage rispetto alla devastazione, ma si basa sulla presenza nel testo dell’art. 285 c.p. della congiunzione avversativa “o”, collocata tra saccheggio e strage rispetto alla devastazione, elemento che dovrebbe dimostrare la loro alternatività.
Ebbene, l’art. 285 c.p. punisce la condotta di “chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage”. La disposizione menziona espressamente questi reati per significare che l’azione per essere penalmente rilevante e porre a rischio la sicurezza dello Stato deve realizzare uno di essi e la congiunzione indica solamente l’indifferenza nella realizzazione di una piuttosto che di altra delle tre ipotesi criminose, ma non autorizza la conclusione dell’impossibile riconoscimento del concorso tra le stesse.
Inoltre, resta anche escluso che sia ravvisabile il rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., che implica il riconoscimento, previa comparazione della struttura astratta delle fattispecie, della comunanza di elementi costitutivi tra le ipotesi di reato a raffronto con la specificazione o l’aggiunta di un requisito ulteriore in una delle due nel caso della specialità unilaterale o in entrambe nella diversa ipotesi della specialità bilaterale (Sez. U., n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Pm in proc. Di Lorenzo, rv. 248722; Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, dep. 2017, Stalla ed altro, rv. 269668). La verifica comparativa tra strage e devastazione rivela: un diverso bene giuridico protetto, l’incolumità pubblica rispetto all’ordine pubblico, entrambi beni di rilevanza collettiva, ma distinti ed autonomi, riguardando l’uno la sicurezza e l’integrità in senso fisico della comunità, l’altro l’ordinato e pacifico svolgimento della vita individuale e sociale; diversità di modalità fattuali di aggressione del bene tutelato, poiché il reato di devastazione pretende condotte di violenza che aggrediscono beni patrimoniali, quello di strage il compimento di atti di violenza contro la persona; sul piano della struttura formale, il dolo specifico di uccidere caratterizza unicamente la strage rispetto al dolo generico richiesto per la devastazione. Deve concludersi per la diversità delle due ipotesi di reato, che possono realizzare il ravvisato concorso formale, come del resto riconosciuto anche dalla migliore dottrina.
In conclusione sul punto deve formularsi il seguente principio di diritto: “Il delitto di devastazione non costituisce fattispecie penale necessariamente plurisoggettiva, potendo essere commesso anche da un solo soggetto agente; esso può concorrere con altri reati ed in specie con quello di strage, non sussistendo tra di essi rapporto di specialità”.

4. La sentenza ha offerto adeguata motivazione in merito alle compiute scelte sanzionatorie, sicché anche l’ultimo motivo di ricorso del P. non merita accoglimento. Si è ritenuto di non poter assegnare valenza positiva alle dichiarazioni rese dal ricorrente nel corso del giudizio di appello a fronte di un comportamento tenuto nella fase iniziale delle indagini, improntata a fornire versioni di comodo e deresponsabilizzanti per l’accaduto sino ad aver addebitato agli investigatori le imprecisioni e le contraddizioni riscontrate nella sua rievocazione dei fatti, ad avere simulato sintomi di una patologia tanto da avere ingannato persino il proprio consulente, e senza avere mai manifestato sentimenti di sincero pentimento e di pietà verso il destino della moglie o di preoccupazione per la sorte delle figlie. Il severo giudizio così espresso è stato giustificato in base a quanto emerso dalle conversazioni intercettate, che avevano rivelato lo sbigottimento dei suoi stessi parenti per l’indifferenza mostrata dal P. per quanto accaduto, alla tardiva confessione resa quando gli elementi probatori avevano già indicato in modo schiacciante la sua responsabilità, ai tentativi di mistificare e di inquinare le risultanze probatorie.

5. Non ha fondamento nemmeno il ricorso proposto dal Procuratore Generale. La deduzione dell’intervenuta modifica della pena inflitta all’esito del giudizio di primo grado, operata d’ufficio dal giudice di appello in violazione del principio devolutivo come espresso dall’art. 597 c.p.p., non riceve conferma dalla considerazione del contenuto di doglianza dell’atto di appello, proposto dalla difesa dell’imputato. Col predetto gravame si era, infatti, lamentato: la mancata assoluzione dal delitto di strage per difetto dell’elemento soggettivo del dolo e da quello di devastazione per insussistenza dell’elemento materiale; il mancato proscioglimento per difetto totale di imputabilità; la misura della pena, di cui si era invocata la riduzione per effetto del riconoscimento del vizio parziale di mente e delle circostanze attenuanti generiche, da porre in rapporto di prevalenza con le riconosciute aggravanti, col conseguente contenimento della sanzione nel minimo edittale.
La diversa commisurazione della pena inflitta per il delitto di devastazione, posto in continuazione con il più grave di strage, si è mantenuta nell’ambito di poteri cognitivi, legittimamente esercitati dal giudice di secondo grado per essergli stata devoluta la questione della determinazione del trattamento punitivo sotto diversi concorrenti profili, che la Corte di appello ha ritenuto di accogliere in riferimento esclusivo alla misura dell’incremento della pena per il reato satellite. Ne discende che la conseguente sostituzione dell’ergastolo con la sanzione temporanea di trenta anni di reclusione è frutto di un diverso giudizio di congruità della pena, espressamente sollecitato dall’appellante con l’impugnazione del punto della decisione di primo grado riguardante il risultato finale dell’operazione di individuazione del trattamento sanzionatorio, da contenere nei minimi edittali, che ha necessariamente coinvolto anche tutte le componenti che avevano concorso a definirlo. Deve dunque escludersi che sia stato violato l’art. 597 c.p.p. quanto ai limiti stabiliti per un intervento del giudice dell’impugnazione incidente sulla pena, che non si è posto quale decisione ufficiosamente adottata.
In senso conforme si è pronunciata questa Corte, per la quale “In sede di impugnazione, la disposizione di cui all’art. 597 c.p.p., comma 1, attribuisce gli stessi poteri del primo giudice al giudice d’appello, con la conseguenza che questi - fermo restando il limite del divieto di “reformatio in peius” - non è vincolato da quanto prospettato dall’appellante, ma può affrontare, relativamente ai punti della decisione cui si riferiscono i motivi di gravame, tutte le questioni enucleabili all’interno dei punti medesimi, accogliendo o rigettando il gravame in base ad argomentazioni proprie o diverse da quelle dell’appellante” (sez. 6, n. 40625 del 08/10/2009, B., rv. 245288; Sez. U, n. 1 del 27/09/1995, dep. 1996, Timpanaro, rv. 203096; sez. 1, n. 2809 del 18/02/1998, Silvestro, rv. 210039; sez. 4, n. 15461 del 14/01/2003, dep. 2004, P.G. in proc. Williams ed altri, rv. 227783).
In definitiva, per le ragioni esposte, entrambe le impugnazioni vanno respinte con la conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, da liquidarsi come in dispositivo, tenuto conto dell’impegno profuso per la loro difesa e della natura e complessità delle questioni trattate.
Resta soltanto da precisare che, in riferimento alla nota spese presentata dalle parti civili P.L. ed P.A., a mezzo del curatore speciale, ammesse al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, in conformità con quanto stabilito dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 5464 del 26/09/2019, dep. 2020, De Falco, non ancora massimata, alla Corte di cassazione compete decidere sulla eventuale condanna generica dell’imputato soccombente alla rifusione delle spese di costituzione sostenute dalla parte civile nel grado, mentre l’adozione del provvedimento di liquidazione spetta al giudice di merito del giudizio di rinvio o che ha pronunciato la sentenza resa irrevocabile, giudice che nel caso specifico si identifica nella Corte di Assise di appello di Milano.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Procuratore Generale.
Rigetta il ricorso dell’imputato, che condanna al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese del presente grado del giudizio sostenute dalle parti civili che liquida: nella complessiva somma di Euro 4.212,00 a favore di B.R. e M.A.; nella complessiva somma di Euro 3.510,00 a favore di Ba.Si.; nella complessiva somma di Euro 7.200,00 a favore di m.G., Q.F., ma.Lu., ma.Al. e Z.C.; nella complessiva somma di Euro 3.510,00 a favore di Ma.Al.; in somma da determinarsi a cura della Corte di Assise di appello di Milano a favore di P.L. e P.A. in persona del curatore speciale, avvocato Antonella Calcaterra; oltre per tutte le parti civili il rimborso forfetario delle spese generali, c.p.a. ed i.v.a. come per legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2020

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