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Penale Procedura Penale Sentenze

Cassazione penale, sez. II, 17 aprile 2007, n. 16655

Redazionedi Redazione17 Aprile 2007
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Fatto e Diritto

Con ordinanza del 20.7.2006, il G.I.P. del Tribunale di Udine dispose la custodia in carcere nei confronti di S.G., persona sottoposta ad indagini per i reati di associazione per delinquere, furti in abitazione aggravati e ricettazione.
Contro il provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, ma il Tribunale di Trieste, con ordinanza del giorno 5.10.2006, confermò l’impugnato provvedimento.
Avverso tale ordinanza, ricorre per cassazione S.G. deducendo:
1. violazione di legge in relazione alla omessa notifica al difensore dell’avviso dell’interrogatorio di garanzia ed inefficacia della misura cautelare personale;
2. violazione di legge in relazione all’omessa traduzione in lingua albanese della informazione sul diritto di difesa in relazione al verbale di identificazione, alla successiva perquisizione con conseguente nullità di tale perquisizione e dell’interrogatorio di garanzia e conseguente perdita di efficacia dell’ordinanza anche in relazione all’omessa integrale trasmissione di tutti gli atti posti a base del provvedimento al G.I.P. presso il Tribunale di Arezzo (incaricato di procedere all’interrogatorio per rogatoria), con conseguente omesso deposito degli stessi e nullità dell’interrogatorio di garanzia da ciò derivante;
3. violazione di legge in relazione all’acquisizione ed utilizzazione di intercettazioni di utenze estere senza ricorso a procedure di assistenza giudiziaria internazionale, con conseguente inutilizzabilità delle stesse;
4. violazione di legge ed inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni progr. (OMISSIS) del 15.4.2004 e 35 del 16.4.2004, perchè non sarebbe stato redatto verbale delle operazioni effettuate, nonchè di quelle operate sull’utenza (OMISSIS) e (OMISSIS) dal 28.4.2004 al 26.9.2004 in quanto non coperte da proroga del G.I.P.;
5. vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di gravi indizi di reità, in quanto l’ordinanza di custodia non farebbe riferimento ai capi 11 e 12 e non si comprenderebbe come possano gli operanti aver riconosciuto il ricorrente, mentre sarebbe induttiva la identificazioni di ” M.” nel ricorrente; non sussisterebbero gravi indizi di reità in ordine ai delitti di cui ai capi 3, 9 e 14 essendo possibile una diversa lettura delle intercettazioni, non sarebbe possibile l’attribuzione di un furto in villa solo perchè l’indagato risulterebbe implicato in delitti della stessa specie ed infine si sarebbe in presenza, di un mero accordo per commettere reato;
6. vizio di motivazione in relazione alla affermata sussistenza delle esigenze cautelari senza acquisizione del certificato penale e sulla sola base di informazioni di polizia, mentre quanto al pericolo di fuga il ricorrente sarebbe in Italia con regolare permesso di soggiorno.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e generico.
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 25 del 16.12.1998 dep. 18.1.1999 rv 216065, peraltro già citata nell’ordinanza impugnata) “poiché il procedimento di riesame è preordinato alla verifica dei presupposti legittimanti l’adozione del provvedimento cautelare, e non anche di quelli incidenti sulla sua persistenza, non è consentito dedurre con tale mezzo di impugnazione la successiva perdita di efficacia della misura derivante dalla mancanza o invalidità di successivi adempimenti; ne consegue che esulano dall’ambito del riesame le questioni relative a mancanza, tardività o comunque invalidità dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 cod. proc. pen., le quali, inerendo a vicende del tutto avulse dall’ordinanza oggetto del gravame, si risolvono in vizi processuali che non ne intaccano l’intrinseca legittimità ma, agendo sul diverso piano della persistenza della misura, ne importano l’estinzione automatica che deve essere disposta, in un distinto procedimento, con l’ordinanza specificamente prevista dall’art. 306 cod. proc. pen., suscettibile di appello ai sensi dell’art. 310 c.p.p.”.
Il ricorrente peraltro neppure si da pena di cercare di confutare tale argomento, richiamato dal Tribunale, limitandosi a dire che nessuna disposizione del codice prevede che la relativa eccezione debba essere effettuata a pena di decadenza in sede di istanza di revoca della misura, non considerando per nulla la diversa ragione sopra segnalata e già richiamata dal giudice d’appello, ma limitandosi alla mera riproposizione della doglianza già respinta.
Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e generico.
Anzitutto il ricorso, lungo ed articolato, è redatto in lingua italiana e sottoscritto dall’indagato, senza menzione dell’ausilio di interprete, sicchè si deve desumere che egli comprenda la lingua italiana scritta, giacchè altrimenti sarebbe nullo il ricorso, non avendo alcun valore la sottoscrizione di un atto del quale si ignori il contenuto.
Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte condiviso dal Collegio, “condizione fondamentale per l’esercizio del diritto, da parte dell’imputato straniero, di essere assistito da un interprete è che egli dichiari o dimostri di non sapere esprimersi in lingua italiana o di non comprenderla. Infatti, la legge processuale italiana non prevede l’obbligo indiscriminato dell’assistenza di un interprete allo straniero in quanto tale, ma lascia a costui la libertà di chiedere tale assistenza e all’autorità giudiziaria di valutarne la capacità ad esprimersi in lingua italiana e a comprendere il contenuto degli atti processuali che lo riguardano espressi in tale lingua”. (Cass. Sez. 1 sent. n. 2347 del 12.7.1985 dep. 8.10.1985 rv 170606. Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, l’imputato aveva proposto – nelle forme di cui all’art. 80 cod. proc. pen., essendo detenuto – numerosi ricorsi, aveva nominato difensori di fiducia ed aveva ricevuto notifiche di atti senza aver mai dichiarato di non comprenderne il contenuto e di non sapere esprimersi in lingua italiana, e senza mai richiedere l’assistenza di un interprete. In senso conforme rv 167147; rv 146983).
Le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 5052 del 24/9/2003 dep. 9/2/2004 rv 226717) hanno altresì chiarito che “qualora sia applicata una misura cautelare personale nei confronti di un cittadino straniero, del quale si ignori (nella specie, a causa dello stato di latitanza) che non è in grado di comprendere la lingua italiana, non è dovuta l’immediata traduzione dell’ordinanza che la dispone e il diritto alla conoscenza del relativo contenuto è soddisfatto – una volta eseguito il provvedimento – o dalla traduzione in lingua a lui nota (anche in applicazione dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis), ovvero dalla nomina, in sede di interrogatorio di garanzia, di un interprete che traduca le contestazioni mossegli, rendendolo edotto delle ragioni che hanno determinato l’emissione del provvedimento nei suoi confronti. In tal caso la decorrenza del termine per impugnare il provvedimento è differita al momento in cui il destinatario ne abbia compreso il contenuto”. (Nell’occasione, la Corte ha precisato che, qualora non sia stata portata a conoscenza dello straniero, in una lingua a lui nota, l’ordinanza cautelare, quest’ultima è viziata da nullità a regime cd. intermedio solo quando risulti inequivocabilmente, dagli atti in possesso del giudice al momento della sua adozione, che lo straniero non era in grado di comprendere la lingua italiana).
In secondo luogo anche in relazione al secondo motivo non è svolta alcuna critica alle considerazioni del Tribunale, che ha richiamato una sentenza di questa Corte (Sez. 4, Sentenza n. 265 del 19.11.2004 dep. 13.1.2005 rv. 230497), secondo la quale “l’atto di perquisizione personale eseguito dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 352 cod. proc. pen. è atto indifferibile ed urgente per il quale non è necessaria la traduzione immediata all’indagato di lingua straniera in quanto il reperimento di un interprete è incompatibile con la particolare urgenza dell’adempimento investigativo; la mancata comprensione dell’atto esplicherà i suoi effetti solo sul termine per l’impugnazione dell’eventuale conseguente sequestro”.
Anche a fronte di tale argomento mancano nel ricorso adeguate critiche nel ricorso che si appalesa perciò generico.
In terzo luogo valgono le considerazioni già svolte sul fatto che l’eventuale perdita di efficacia dell’ordinanza di custodia cautelare non poteva essere dedotta in sede di riesame.
Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Le operazioni di intercettazione telefonica devono essere effettuate attivando le procedure di assistenza giudiziaria internazionale soltanto se richiedono il compimento di attività all’estero. Nel caso in cui le stesse possano invece essere effettuate dal territorio nazionale nessuna assistenza da parte di altri Stati è necessaria.
Nella specie non vi è ragione di ritenere (e neppure è allegato) che siano state compiute attività di intercettazione all’estero, ma solo che le utenze intercettate non erano italiane.
Del resto questa Corte ha affermato (ed il Collegio condivide l’assunto) che “l’art. 266 cod. proc. pen., autorizzando l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche nel corso di indagini relative a determinati reati, consente il controllo sia delle telefonate in arrivo su utenze italiane, sia delle telefonate che partono dall’Italia verso utenze straniere. Nè il ricorso alla procedura del cd. istradamento – convogliamento delle chiamate partenti da una certa zona all’estero in un nodo posto in Italia – comporta la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali, in quanto in tal modo tutta l’attività di intercettazione, ricezione e registrazione delle telefonate, viene compiuta completamente sul territorio italiano”. (Cass. Sez. 5 sent.
n. 4401 del 2.7.1998 dep. 21.10.1998 rv 211520).
Il quarto motivo è manifestamente infondato e generico.
Il Tribunale ha rilevato che da nessuna delle intercettazioni delle quali si lamenta l’inutilizzabilità derivano gli indizi di reità posti a fondamento della misura cautelare.
Nel ricorso nulla si contesta in proposito, ma ci si limita a reiterare la doglianza che è pertanto generica.
Il quinto motivo è manifestamente infondato e proposto fuori dai casi consentiti giacchè, attraverso il prospettato vizio di motivazione, tenta di sottoporre a questa Corte una valutazione di merito.
È anzitutto necessario chiarire i limiti di sindacabilità da parte di questa Corte dei provvedimenti adottati dal giudice del riesame dei provvedimenti sulla libertà personale.
Secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, “l’ordinamento non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonchè del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1) – l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;
2) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento”.
(Cass. Sez. 6^ sent. n. 2146 del 25/05/1995 dep. 16/06/1995 rv 201840).
Inoltre “il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale è diretto a verificare, da un lato, la congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi.
Tale controllo, stabilito a garanzia del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici. In particolare, il vizio di mancanza della motivazione dell’ordinanza del riesame in ordine alla sussistenza del gravi indizi di colpevolezza non può essere sindacato dalla Corte di legittimità, quando non risulti prima facie dal testo del provvedimento impugnato, restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto”. (Cass. Sez. 1^ sent. n. 1700 del 20/03/1998 dep. 04/05/1998 rv 210566).
Il Tribunale del riesame ha da un lato richiamato il contenuto dell’ordinanza di custodia cautelare che riferisce l’esistenza di gravi indizi di reato in ordine ai capi 11 e 12 ancorchè non riportati in dispositivo della stessa, mentre quanto al capo 3 sono state richiamate la presenza del ricorrente nel posteggio e le intercettazioni, quanto al capo 9 si è detto che il fine di amicizia non esclude il delitto e che nel capo 14 vi era stata intermediazione integrante il concorso nel delitto di ricettazione.
Non si ravvisa alcuna illogicità manifesta in tale motivazione e le censure proposte articolano una critica nel merito qui non proponibile.
Il sesto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il Tribunale ha ravvisato le esigenze cautelari da elementi concreti quali la reiterazione dei delitti ed il contesto di complessa organizzazione, nonchè l’irreperibilità dell’indagato dopo la prima scarcerazione.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti; inoltre, poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis del citato articolo 94.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di mille Euro alla cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 aprile 2007.
Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2007

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